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www.ildialogo.org Tutti gli uomini sono uguali?,di Elio Rindone

Tutti gli uomini sono uguali?

di Elio Rindone

Ringraziamo l'amico Elio Rindone, per averci inviato questo suo articolo pubblicato sul numero 225 di Critica liberale.

La risposta positiva a questa domanda non è affatto ovvia, perché tra gli individui che appartengono al genere umano le differenze sono numerose, e così rilevanti che nel corso dei secoli le società umane sono state caratterizzate da forti diseguaglianze. Ma se ciò nonostante l’ideale dell’uguaglianza ha attraversato la nostra storia, è forse il caso di interrogarsi anzitutto sul suo contenuto e poi sulla sua ragionevolezza.

Limitandomi alla tradizione occidentale, tratterò la prima questione rifacendomi sostanzialmente alla puntuale analisi di Norberto Bobbio, Eguaglianza e libertà, Torino 1995, e la seconda alla rapida carrellata di Riccardo Caporali, Uguaglianza, Bologna 2012.
* * *
Cosa intendere per ‘uguaglianza’? Non è vero, né auspicabile, né realizzabile che tutti gli uomini siano uguali in tutto, e infatti nessuno ha mai avanzato un simile progetto. Occorre, dunque, precisare di cosa si parla, chiarendo in quale ambito esiste ed è quindi desiderabile che sia riconosciuta e attuata tale uguaglianza. Un buon punto di partenza potrebbe essere il seguente: tutti gli individui che hanno in comune la natura umana devono essere trattati ugualmente in ciò che concerne la loro natura. Dal che discende che tutti gli uomini hanno un’uguale dignità, e perciò, per limitarci a due esempi, sono uguali di fronte alla legge e sono soggetti di diritto, poiché sarebbe evidentemente ingiusto trattare in modo diseguale gli uguali: l’esigenza dell’uguaglianza è, infatti, strettamente connessa col valore della giustizia. Perciò è giusto, per esempio, garantire l’uguaglianza di fronte alla legge rimuovendo i privilegi propri della società per ceti e riconoscere il diritto di ogni uomo alla libertà abolendo la schiavitù.
Ma, ancora, una simile uguaglianza è puramente formale, perché condizioni economiche svantaggiate, dipendenti da fattori casuali come nascita o salute, possono rendere una semplice astrazione l’uguaglianza giuridica. In una gara è giusto che i concorrenti si trovino nelle stesse condizioni di partenza: perciò, perché l’uguaglianza sia effettiva, occorre almeno rimuovere le disparità iniziali, garantendo a tutti pari opportunità mediante, per esempio, l’accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria.
Ciò, però, non è sufficiente per chi ritiene che sia desiderabile la massima uguaglianza possibile tra tutti gli uomini, e perciò, mirando alla parificazione non solo dei punti di partenza ma anche di quelli di arrivo, chiede che i beni siano distribuiti non secondo le capacità o i meriti ma secondo i bisogni di ciascuno: solo così ci si troverebbe di fronte a un’uguaglianza vera, sostanziale.
* * *
Una volta chiariti i limiti entro cui si può proporre l’uguaglianza come un ideale da perseguire, bisogna subito fare i conti con la realtà. Nel corso dei secoli tale ideale è stato a lungo ignorato: lungi dall’ispirarsi a criteri di uguaglianza politica, economica o di genere, le società antiche considerano ovvia la schiavitù, la subordinazione della donna e in generale il predominio dei forti sui deboli. E ciò è vero persino nell’Atene del V secolo: infatti, se qui si afferma il principio dell’isonomia, cioè dell’uguaglianza dei diritti tra tutti i cittadini, che possono accedere alle cariche pubbliche per elezione o per sorteggio, da questa uguaglianza sono esclusi, oltre ai minori, le donne, gli stranieri e l’enorme massa degli schiavi, a causa di una pretesa loro naturale inferiorità.
L’uguaglianza, quindi, non riguarda tutti, ma solo i maschi adulti e liberi, e cioè la minoranza della popolazione. E questa stessa uguaglianza tra i cittadini è contestata dai maggiori intellettuali. È, per esempio, oggetto di una costante polemica da parte di Socrate, che considerava un errore decisivo il rifiuto del criterio della competenza come requisito indispensabile per governare – e cioè il cuore del sistema egualitario ateniese – e, pur continuando a vivere ad Atene, non si stancava di esaltare il sistema politico spartano.
È noto che Platone costruisce il suo Stato ideale proprio sul principio gerarchico, convinto che, quanto a doti naturali, ogni uomo sia molto diverso dagli altri: i governanti devono perciò essere i filosofi, cioè coloro che sono capaci di utilizzare a pieno la razionalità che caratterizza l’essere umano. E non solo Socrate e Platone ma anche Aristotele – per il quale ci sono alcuni padroni per natura perché forniti di superiori doti intellettuali e altri per natura schiavi perché atti a faticare col corpo – giudica il sistema politico migliore quello fortemente autoritario di Sparta.
Sono gli Stoici, invece, che introducono l’idea dell’uguaglianza tra tutti gli uomini, senza distinzioni di sesso o di condizione sociale: tutti, infatti, compresi gli schiavi, le donne e i barbari, sono dotati di ragione e quindi capaci di scelte morali, le uniche che contano davvero. Si tratta, però, di un’uguaglianza che riguarda la dimensione interiore e che non incide, quindi, sull’organizzazione della società.
Il messaggio evangelico originario, invece, fonda l’uguaglianza tra gli uomini, su questa terra – si badi bene – e non nell’aldilà, su una motivazione di carattere religioso: tutti sono figli dello stesso Padre celeste. Ma quest’annuncio di un mondo nuovo, di una fratellanza che porrà fine all’ingiustizia e allo sfruttamento dei poveri, sarà presto reinterpretato in chiave puramente spirituale, lasciando sopravvivere le vecchie gerarchie politiche, economiche e di genere.
Nel medioevo, infatti, Tommaso d’Aquino, pur riprendendo le motivazioni filosofiche e religiose a sostegno dell’uguaglianza esistente tra tutti gli esseri razionali, segue poi Aristotele nell’accettazione di una società gerarchica in cui chi, come le donne e gli schiavi, non è capace per natura del pieno uso della ragione è giusto che obbedisca a chi è superiore. E una simile esclusione dal diritto di cittadinanza si ritrova anche in Marsilio da Padova, che è tra i pensatori medievali il più ardito sostenitore dell’uguaglianza perché, in contrasto con la cultura dominante, sostiene che il potere politico deriva dal basso, dall’intero corpo dei cittadini o almeno dalla sua parte prevalente.
Ma già nel XVI secolo, grazie al libero esame della Bibbia promosso da Lutero, si riscoprirà il messaggio egualitario del vangelo, e in Germania nascerà un movimento di contadini, sconfessato da Lutero e represso con ferocia dai principi, che ispirandosi al teologo Thomas Müntzer, che predicava che tutti i beni sono comuni, si batterà per la creazione di una società basata sulla piena uguaglianza giuridica, politica e sociale.
Ancora nel messaggio evangelico affondano le radici delle società utopistiche descritte dai pensatori cattolici Thomas More e Tommaso Campanella, accomunati dall’idea che l’abolizione della proprietà privata sia il presupposto indispensabile di una convivenza armonica e felice. E nell’Inghilterra del XVII secolo sempre alla Bibbia attingono le loro idee, destinate alla sconfitta, il movimento dei livellatori, che si batte per l’affermazione del principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per il suffragio universale, con l’esclusione, però, delle donne e dei non proprietari come i salariati e i mendicanti, e quello degli zappatori, che propugna non solo l’uguaglianza politica e la forma repubblicana ma anche l’uguaglianza economica e l’abolizione della proprietà privata.
Nella seconda metà del XVII secolo Baruch Spinoza elabora la proposta di una società democratica, non più fondata, però, sul creazionismo della tradizione teologico-metafisica: gli uomini sono per natura uguali, in quanto manifestazione dell’unica realtà, dell’uno-tutto che possiamo chiamare Dio o Natura, e la democrazia è l’unico regime che preserva l’uguaglianza naturale perché i governanti non si impongono ai governati ma ne sono l’espressione. Anche Spinoza, tuttavia, paga il suo tributo ai pregiudizi del tempo, escludendo dalla cittadinanza le donne e i lavoratori dipendenti.
Alla Bibbia, oltre che alla ragione, si rifà John Locke per affermare che gli uomini, dotati per natura delle stesse facoltà, prima di riunirsi in società sono uguali tra loro, liberi e padroni dei frutti del proprio lavoro. Lo Stato, quindi, non è una realtà naturale, come pensava Aristotele, ma nasce da un contratto che attribuisce ad alcuni il potere di governare, emanare leggi e assicurarne l’esecuzione imparziale al fine di tutelare la vita, la libertà (anche religiosa, e Locke è tra i primi sostenitori moderni del principio di tolleranza) e le proprietà dei contraenti (proprietà che potranno accumularsi sino a mettere a rischio l’originaria uguaglianza), tanto che, se il potere diventa dispotico, i cittadini hanno il diritto di ribellarsi. Gli individui, però, non sono proprio tutti uguali, dal momento che Locke riconosce ai proprietari il diritto di possedere schiavi, cioè uomini catturati nel corso di una guerra giusta.
Anche gli Illuministi del Settecento esaltano l’uguaglianza naturale tra gli uomini ed esigono l’abolizione dei privilegi di ceto; ritengono in genere, però, che cittadini che godono della pienezza dei diritti politici debbano essere solo i proprietari, in quanto uomini più illuminati e più capaci di provvedere al bene pubblico. E, con qualche eccezione come quella rappresentata da Nicolas de Condorcet o da Olympe de Gouges, resta per loro un dogma indiscusso quello dell’inferiorità della donna.
Dogma accettato anche da Jean-Jacques Rousseau, che per altri versi è un critico radicale delle diseguaglianze prodotte dalla civiltà, che ha finito col compromettere l’uguaglianza naturale: diseguaglianze causate anzitutto dall’introduzione della proprietà privata e poi dall’invenzione della lavorazione dei metalli e della coltivazione della terra, con la conseguente divisione del lavoro. La società che conosciamo è, infatti, fondata sulla separazione tra ricchi e poveri e tra potenti e deboli. E l’unico modo per ripristinare l’uguaglianza originaria non è quello di abolire la proprietà privata ma quello di costruire uno Stato in cui tutti i cittadini rinunciano alle loro volontà particolari a favore di una volontà generale, che trova diretta espressione nel popolo riunito in assemblea, con l’esclusione quindi di ogni forma di rappresentanza.
Le idee dei filosofi, che contrariamente a quanto spesso si crede non sono per nulla teorie prive di efficacia, cominciano a trovare attuazione concreta, ovviamente non dappertutto e non senza ripensamenti. Infatti, la Dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane, del 1776, considera evidente la tesi che tutti gli uomini sono stati creati uguali, anche se il diritto di voto, precluso alle donne, sarà normalmente legato al censo. In Francia il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789, proclama: «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». Vengono così aboliti i privilegi feudali, il diritto di voto, sempre solo maschile, è riconosciuto prima solo ai possidenti, poi, nel 1793, a tutti ma con l’esclusione di domestici e mendicanti e nel 1848 si arriverà al suffragio universale maschile, ben prima che in Inghilterra, che conserverà a lungo un sistema censitario. E persino la schiavitù comincia a essere abolita: in Francia nel 1791 (e nel 1794 anche nelle sue colonie), in Inghilterra nel 1833, negli Stati Uniti nel 1865, anche se la segregazione razziale fondata sul colore della pelle avrà ancora lunga vita.
Nel XIX secolo la parità uomo-donna sarà rivendicata con decisione da John Stuart Mill, che superando le proprie iniziali riserve proporrà poi di contrastare le diseguaglianze economiche causate dalla divisione tra lavoratori e datori di lavoro e si dirà favorevole a un intervento dello Stato che garantisca una qualche uguaglianza nei punti di partenza.
L’uguaglianza tra tutti gli uomini è affermata senza riserve, con motivazioni etiche e religiose, ma di una religiosità non confessionale, da Giuseppe Mazzini, in quanto essa è fondata sull’unità del genere umano. Conseguenze di tale uguaglianza sono una paritaria collaborazione tra i popoli e, all’interno del popolo, la parità tra tutti i suoi membri, e quindi, repubblica, democrazia, elezioni a suffragio universale maschile e femminile, una legge uguale per tutti e cooperazione tra capitalisti e operai (l’esperienza della Repubblica Romana, che s’ispirava a questi principi, fu ovviamente soffocata nel sangue). Decisivo nella preparazione di una simile società è per Mazzini il ruolo dell’educazione.
Per Karl Marx, al contrario, non sono i fattori spirituali ma quelli economici – gli assetti proprietari, la divisione del lavoro – che determinano il divenire storico. E la vera causa della diseguaglianza tra gli uomini è costituita dalla divisione della società in classi contrapposte: liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba… Una società di uguali non può nascere, quindi, che dall’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, che determina lo sfruttamento dei lavoratori. Con la conseguente fine della lotta di classe, si esaurirà il ruolo dello Stato, che non è altro che una sovrastruttura che è sempre servita agli oppressori per esercitare il proprio dominio economico, e tutti potranno ricevere ciò di cui hanno bisogno per sviluppare liberamente le proprie capacità.
La prima metà del Novecento, contro ogni aspettativa di maggiore uguaglianza e libertà, ha conosciuto l’esperienza del totalitarismo e dell’esaltazione, portata alle estreme conseguenze dal nazismo, della diseguaglianza che giustifica come legge di natura il dominio dei forti sui deboli e delle razze superiori su quelle inferiori, sino allo sterminio totale di quella razza che a stento può dirsi umana, quella ebraica.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale è, invece, aumentato considerevolmente il numero dei Paesi retti da governi democratici, la schiavitù non ha più alcun riconoscimento legale e si sono moltiplicate le Dichiarazioni ispirate al principio di uguaglianza: quella dei diritti umani del 1948, dei diritti del bambino del 1959, dei diritti dell’animale del 1978, dei diritti della donna del 1979, del principio di tolleranza del 1995, sino a quella, progettata nel 2010, dei diritti della madre terra. E non c’è dubbio che anche concretamente siano stati fatti tanti passi avanti: infatti, per esempio, nei Paesi più sviluppati, la condizione della donna non è neanche lontanamente paragonabile a quella di un secolo fa, e si cominciano a superare le discriminazioni nei confronti degli omosessuali, sino al riconoscimento legale del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Non si può certo dire, dunque, che le battaglie per l’uguaglianza condotte dai liberali, dai democratici e dai socialisti, rispettivamente nel campo dei diritti civili, di quelli politici e di quelli sociali siano state vane. E, tuttavia, in molti casi e negli stessi Paesi che si definiscono civili la realtà è infinitamente distante dall’uguaglianza proclamata a parole. Per quanto riguarda i diritti umani, il trattamento riservato ai migranti è compatibile con la relativa Dichiarazione? E la schiavitù, abrogata in teoria, è davvero estranea alle condizioni di vita imposte a tanti lavoratori?
Per quanto riguarda le sperequazioni economiche, queste si sono accresciute negli ultimi decenni, al punto che la ricchezza ha finito col concentrarsi nelle mani dell’un per cento della popolazione mondiale. Ed è in aumento non solo il numero dei poveri e dei disoccupati ma anche quello di coloro che, a causa della riduzione dei salari, lavorano e tuttavia restano sotto la soglia di povertà.
Per quanto riguarda l’uguaglianza politica, le stesse democrazie spesso non sono altro che poliarchie, cioè regimi in cui ci sono minoranze organizzate in lotta tra loro per la conquista di un potere da utilizzare nel proprio interesse sicché, con buona pace del suffragio universale e della sovranità popolare, ai cittadini resta un solo diritto politico: quello di scegliere, attraverso elezioni condizionate dalla ricchezza e dalla propaganda delle élite, da quale gruppo di potere saranno governati.
Sembra, in sostanza, che l’ideale dell’uguaglianza sia più facile affermarlo in teoria che realizzarlo in pratica. Il riconoscimento teorico, fondato sul dato oggettivo dell’appartenenza alla stessa specie, non è però privo d’importanza perché, a chi è consapevole della dignità propria di ogni essere umano, offre solidi argomenti per battersi per una società più giusta, contrastando i tentativi, sempre in atto e spesso coronati da successo, del potere politico ed economico di assicurare il predominio dei più forti.



Giovedì 07 Gennaio,2016 Ore: 19:03
 
 
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