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www.ildialogo.org Il terrore.,di Giorgio Langella

Il terrore.

di Giorgio Langella

Una riflessione (scritta la settimana scorsa) sui fatti di Parigi e le guerre che ci costringono ad affrontare.


23 novembre 2015
Dieci giorni sono passati dagli attentati di Parigi. Fatti che hanno provocato 130 morti e che inducono al terrore. Un orrore molto più vicino, almeno per noi europei, rispetto a quello che ci avrebbero dovuto provocare attentati altrettanto orribili che hanno devastato varie regioni del mondo. Ci si ricorda, forse, dell'abbattimento dell'aereo russo sul Sinai, della bomba fatta scoppiare a Beirut che ha provocato decine di morti, delle bombe di Ankara che hanno provocato oltre 90 vittime tra chi manifestava per i diritti del popolo curdo? Centinaia di morti che non hanno provocato una reazione comparabile a quanto successo a Parigi. E si ha ancora memoria della strage dei bambini di Beslan compiuta da terroristi ceceni e della più recente mattanza di studenti in Kenia? O dei massacri periodici che avvengono in Palestina, a Gaza, in Cisgiordania? Ci si è dimenticati dell'uccisione di decine di cittadini inermi fatta dai neonazisti a Odessa e della guerra nel Donbass nella quale i morti civili si contano a decine di migliaia. E le migliaia di uomini, donne e bambini morti in mare o nel deserto mentre fuggono da guerre e fame sono diventati “abitudine”. Non fanno più notizia. Del resto sono solo “rifugiati”, “profughi”, “clandestini”, “incivili”, “nemici” che vengono da noi per toglierci soldi e lavoro e portarci malattie. Si, forse qualche lacrima è stata versata di fronte alla fotografia di un bambino annegato, ma, poi, lo sguardo è stato rivolto altrove e il dito accusatore è stato puntato contro chiunque possa essere considerato diverso. Si ricordano, forse, tutte queste vittime? Forse. Ma senza la rabbia e l'indignazione che ha provocato quanto successo a Parigi.
Certamente, ci fa molta più impressione quando gli attentati avvengono in città a noi vicine, simboli della nostra civiltà. Ci provoca dolore che muoiano persone che consideriamo più “simili” a noi rispetto a quelle che muoiono ogni giorno in Ucraina, in Siria, in Nigeria, in Somalia o nel Mali anche perché crediamo che in quei paesi essere massacrati sia una normale abitudine.
Oggi, di fronte al terrore che ha sconvolto Parigi ogni altra notizia appare lontana nel luogo e nel tempo. Tutta l'attenzione è spostata sul fronte della guerra globale al terrore. Così è tutto un susseguirsi di informazioni più o meno confuse e documentate, di dibattiti gridati, di litigi in diretta televisiva, di chiamate alle armi, di avvisi di pericoli imminenti. Si invoca la guerra contro il terrore, contro civiltà diverse e reputate inferiori, contro religioni che vengono considerate più “barbare” della nostra. Così, tutte le persone di fede musulmana e senza distinzioni, diventano, nel nostro immaginario, terroristi o complici del terrorismo. In poche parole ci risulta difficile ragionare se non rispondendo a odiosi pregiudizi e istinti sempre più primordiali.
Ci stiamo abituando alla paura. È così. Abbiamo paura. Una paura sorda. Un cupo terrore che ci induce ad accettare qualsiasi cosa pur di riappropriarsi della “serenità perduta”. Andiamo per strada e stiamo attenti agli sguardi “dell'altro”, di come si veste, di che religione professa, di che lingua parla, come gesticola. Diffidiamo di tutto e di tutti con la paura che possa capitare anche a noi, nella nostra città, nel nostro quartiere quello che è accaduto a Parigi la settimana scorsa e che succede spessissimo in altri luoghi che, però, ci sembrano così lontani e colpiscono persone così diverse da noi da non incuterci lo stesso terrore e provocarci un'indignazione comparabile.
La nostra ragione si sta addormentando e questo sonno provoca mostri. È quello che vogliono le “centrali del terrore”. È l'obiettivo di quei terroristi che sono stati creati, finanziati e armati dai “nostri” governi occidentali perché funzionali alle “nostre” mire espansionistiche e imperialiste. La nostra paura fa comunque comodo a chi approfitta della situazione per limitare la nostra libertà. “Siamo in guerra” ci gridano e ci convincono che bisogna rispondere alla barbarie degli altri con misure eccezionali che cancelleranno i nostri diritti individuali e collettivi che ci siamo conquistati. Tutto per la garantire la sicurezza e la prosperità a un sistema, quello capitalista, che è l'unico – come ci spiegano con insistenza – giusto e possibile.
E se la causa di fondo del terrore fosse, invece, quella di vivere in un sistema sbagliato e di per sé spaventoso? Ci siamo mai chiesto il vero perché delle guerre scatenate per “esportare la democrazia”? Guerre che sono servite nei fatti a destabilizzare governi non allineati, ad appropriarsi delle ricchezze del paese “liberato”, a fare soldi vendendo armi, a finanziare conflitti che diventano endemici.
Viviamo in un sistema che privilegia il profitto e la ricchezza individuale al benessere collettivo. Un sistema che ha bisogno, per mantenersi, di guerre armate o economico/finanziarie. Un sistema che ha necessità di avere un “nemico” da dare in pasto all'opinione pubblica. Ne ha assoluto bisogno anche per impedire che il popolo alzi la testa. È successo durante la guerra fredda, per abbattere il sistema sovietico. È successo, una volta caduto il muro di Berlino e dopo aver prospettato un futuro di serenità e di assenza di conflitti, con le innumerevoli guerre scatenate in ogni parte del mondo che potesse essere interessante a produrre sempre maggiori profitti a chi dirige il modello di sviluppo capitalista. Ci hanno fatto credere che il “nostro” sistema capitalista fosse bello, il migliore, anzi “l'unico possibile”. Lo hanno chiamato con termini che richiamano a concetti alti come libertà, diritti, benessere. Ma la libertà, l'uguaglianza, la fraternità e la ricchezza (che per essi è il valore prioritario se non unico) è limitata a “lorsignori”. A quell'esigua percentuale di ricchi oligarchi che, a livello globale, controllano le vite degli altri. A quelli che, spostando ricchezze immense e, spesso, virtuali da una parte all'altra del pianeta, determinano lo sviluppo o la decadenza di interi popoli. La ricchezza e il benessere non sono distribuiti. È successo esattamente il contrario. Sono concentrati nelle mani (e nelle tasche) di pochi privilegiati. Dei padroni del mondo che controllano i “signori della guerra” e distribuiscono con “generosa arroganza”, prevaricazione e disuguaglianza, sopruso e morte.
L'informazione, ormai sotto loro stretto controllo, ci urla la quantità di terrore necessaria a consolidare la paura e distogliere l'attenzione da quello che viene taciuto. E sono solo notizie frammentarie e parziali che ci raccontano di quei massacri nascosti, di quei disastri che “lorsignori” hanno provocato riducendo interi paesi nel caos e nella più brutale violenza. Questi fautori della “guerra santa” sono gli stessi che ci sorridono dalle televisioni dichiarando che è stato un errore bombardare Iraq o Libia. Che si “scusano” se hanno utilizzato informazioni false per poter iniziare guerre delle quali oggi tutti paghiamo le conseguenze. Ci raccontano che, si, hanno finanziato gruppi e organizzazioni terroristiche, ma che lo hanno fatto perché gli altri erano “cattivi dittatori”. Affermano oggi, dopo milioni di morti, che lo hanno dimostrato con prove false, costruite con il solo scopo di fomentare nuove guerre. Lo dicono tra le rughe di quello che hanno provocato, mentre i terroristi che loro stessi hanno finanziato e armato seminano il terrore tra gli innocenti. Stragi che catturano tutta l'attenzione del pubblico.
Allora è già rivoluzionario ricordare quello che sta succedendo là dove il nostro interesse si assopisce. Nel Donbass come a Parigi o nel Mali, in Somalia come in Libia, in Siria come in Iraq o in Afghanistan, in Pakistan come in Nigeria … stragi, devastazioni, guerre. Come rivoluzionario è ricordare le violenze continue che sono intorno a noi e che avvengono ogni giorno nel mondo del lavoro a causa dell'avidità di quegli stessi padroni che controllano il mondo. Chi vive del proprio lavoro sta combattendo una guerra che uccide un poco alla volta, con infortuni o malattie dovute alla mancanza di sicurezza. Una guerra che vede aggressori e aggrediti. Una guerra di classe scatenata in nome della competitività, delle spese di produzione e del costo del lavoro che “lorsignori” ritengono insostenibili, del conseguente considerare i lavoratori non persone ma “capitale umano”, pezzi di ricambio. Sta diventando normale considerare il lavoro una concessione di “datori di lavoro” ormai diventati anonimi consigli di amministrazione senza volto. Figure senza carne né ossa contro le quali risulta difficile lottare e che ci permettono di avere un lavoro per il quale si può e si deve rischiare la vita e la salute. Un lavoro dove è normale sfruttare il proprio simile. Dove ogni solidarietà è stata cancellata.
E allora ricordiamo, in questi giorni così pieni di paura e indignazione per il terrore scatenato a Parigi e non solo, che migliaia di persone sono morte a causa di condizioni di lavoro colpevolmente insicure. È successo e succede qui, nel nostro paese, nella nostra civile Italia. Ricordiamo i morti a causa dell'amianto, quelli della Breda, dell'Eternit. Ricordiamo cosa è successo alla ThyssenKrupp di Torino, all'ILVA di Taranto, alla ex Tricom di Tezze sul Brenta. Ricordiamo cosa è successo alla Marlane-Marzotto di Praia a Mare.
Sono centinaia, migliaia di vite spezzate in nome del profitto personale di qualcuno. Centinaia, migliaia di morti senza colpevoli perché i responsabili sono gli stessi che controllano il potere e difficilmente vengono condannati da qualche tribunale. Tutti assolti perché il reato è prescritto, o perché non sussiste. O perché è considerato meno importante la vita di un lavoratore rispetto al guadagno che si può ottenere dalla mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro. Non è logico né civile andare al lavoro e non tornare a casa o tornarci con qualche malattia che ci ucciderà. È una vera e propria guerra non meno oscena di quella scatenata dai “signori del terrore”.
Cosa si può fare? Resistere e lottare per affermare il proprio inalienabile diritto a un lavoro sicuro e garantito. E non dimenticare …
… per non dimenticare si legga la testimonianza (sotto forma di intervista) di un operaio della Marlane-Marzotto che spiega le condizioni alle quali erano costretti i lavoratori (rif. “Marlane: La fabbrica dei veleni” di Francesco Cirillo e Luigi Pacchiano – ed. Coessenza).
“Mi chiamo Depalma Francesco ed ho lavorato alla Marlane di Praia a Mare dal 1964 al 1990.
Domanda: Con che mansione?
Risposta: Operaio specializzato in tintoria.
D.: Vi ricordate cosa facevate di specifico?
R.: La tintura delle presse la miscelazione delle lane terital. Si facevano delle buche grosse vicino al capannone e si mettevano dentro il rimanente del rifiuto del colore.
D.: Cioè voi pigliavate i coloranti che non erano più servibili e li portavate fuori?
R.: Si c'erano delle buche grandissime.
D.: E chi le faceva queste buche?
R.: La direzione le faceva fare agli addetti ai lavori e quando erano piene queste buche si ricoprivano.
D.: E voi facevate questo lavoro?
R.: Si ma non tutte le volte …si coprivano almeno un paio di volte al mese.
D.: Insomma prendevate i coloranti della fabbrica e li mettevate nei bidoni?
R.: Si poi li sotterravamo dalla parte del mare.
D.: Sempre nel terreno della Marlane?
R.: Si, vicino agli alberi.
D.: Ma chi vi comandava per questo lavoro?
R.: Carlo Lomonaco e Cristallino per la tintoria mentre per il finissaggio Nicodemo e Tripano.
D.: Lomonaco e Cristallino vi chiamavano e vi dicevano prendete questi rifiuti e seppellitevi
R.: Si
D.: Ma non vi rendevate conto che era una cosa illegale?
R.: Si ma non potevi dire non lo voglio fare, se non lo facevi tu lo faceva un altro, in quelle condizioni dovevi farlo per forza.
D.: E lo facevate di giorno o di notte?
R.: Sempre di sabato mattina o di sera quando la fabbrica era chiusa e nessuno lavorava
D.: Con voi c'erano altri operai?
R.: La maggior parte delle volte lo facevo io e Ruggeri di Praia a Mare
D.: E quando facevate questo lavoro avevate delle mascherine di protezione, dei guanti, non pensavate che era pericoloso quel materiale?
R.: No andavo come sono adesso, non ci davano né guanti né protezioni.
D.: Quindi prendevate tutto con le mani?
R.: Si con le mani nude.
D.: E vi ricordate per quanto tempo avete fatto questo lavoro?
R.: L'ho fatto fino a 15 giorni prima di licenziarmi.
D.: Vi ricordate per quante volte lo avete fatto? 10-15 volte? più o meno?
R.: Parecchie volte, si faceva quasi tutti i sabato.
D.: E si facevano sempre buche nuove o si usavano sempre le stesse?
R.: Le ruspe scavavano fino a 3-4 metri di profondità.
D.: Quindi tutta l'area della Marlane è piena di rifiuti tossici?
R.: Si tutta la parte a mare è piena di rifiuti tossici.
D.: Parliamo della zona vicino al depuratore.
R.: Si in quella zona. Io ho anche pulito il depuratore. Quando si riempiva di melma io ripulivo tutta la vasca e buttavo i rifiuti sotto un pergolato di uva.
D.: Quando il depuratore era pieno scaricava a mare?
R.: Dopo che lo avevamo pulito scaricavano a mare, ma l'acqua era sporca lo stesso color terra e finiva a mare.
D.: Poi vi siete ammalato e continuavate ad andare lo stesso al lavoro?
R.: Si anche da ammalato andavo a lavorare.
D.: Quali erano le condizioni di lavoro all'interno della fabbrica?
R.: Le condizioni erano che dall'inizio c'erano fumi e nebbia che non si vedeva ad un metro di distanza, agli inizi degli anni 70.
D.: Questa nebbia da dove proveniva?
R.: Dal fumo delle caldaie dove si tingevano le stoffe.
D.: C'era un ambiente unico o c'erano divisori?
R.: No era tutto unico.
D.: Vi ricordate di altri operai che stavano con voi e che sono morti?
R.: Erano operai che stavano vicino a me, Tonino Maffei, Vittorio Oliva, Vincenzo Lamboglia, erano amici con i quali ci davamo il cambio.
D.: Non avete mai pensato che quell'aria fosse velenosa?
R.: Si, pensavamo che a lungo andare poteva far male, ma pensavamo anche al vivere oggi, alla pagnotta.
D.: E voi dicevate al medico di queste condizioni di lavoro?
R.: E quando c'è stato il medico? chi l'ha mai visto, non ho mai fatto una radiografia, 26 anni esatti ho lavorato e mai visto un medico, si tirava avanti così.
D.: Avete mai pensato ad una protesta, c'erano dei sindacalisti in fabbrica?
R.: Si, io ero iscritto alla CGIL, tutti promettevano e nessuno faceva niente. C'erano la CGIL e la CISL, tutti promettevano miglioramenti economici e di lavoro quando c'erano le votazioni e poi facevano poco e niente.
D.: Voi che tipo di lavoro facevate?
R.: Io lavoravo alla lisciatrice, una macchina 16 metri lunga.
D.: Usavate coloranti?
R.: Al tops ed alle pezze si usavano coloranti per tingere.
D.: Avevate mascherine, tute, qualche protezione?
R.: No niente, a fine turno di lavoro ci davano una busta di latte, poi abbiamo saputo che ci faceva più male che bene, ci procurava parecchie sofferenze allo stomaco.
D.: Ma questi coloranti li preparavate voi?
R.: Si, preparavamo i coloranti per la stampa, a parte quelli della lisciatrice che li preparava un magazziniere, per la stampa li dovevo preparare io.
D.: E come avveniva questa preparazione?
R.: Si preparavano duecento litri di acqua, si prendeva il colore e si scioglievano piano piano.
D.: E come lo facevate a mano?
R.: Si prendeva un bastone e un bidone di ferro a volte anche di plastica, quando si era sciolto bene il prodotto si portava il bidone vicino alla macchina e si versava un secchietto alla volta e piano piano si stendeva sulla fibra da tingere.
D.: E neanche per questo lavoro usavate misure di sicurezza?
R.: Solo le mani usavamo.
D.: Pensavate che con quella busta di latte risolvevate tutto?
R.: Si pensava di risolvere i guai che avevamo dentro ed invece con il passare degli anni i guai sono venuti fuori tutti in una volta e chi più chi meno tutti quanti abbiamo avuto qualcosa.
D.: Sapevate questi coloranti da cosa erano composti?
R.: Non l'ho sentito, erano tutti sigillati, mi ricordo per esempio gli acidi che si usavano per la lana.
D.: Su questi fusti che voi pigliavate non c'erano scritte che dicevano pericolo, dei simboli con il teschio di morte?
R.: Queste cose non esistevano proprio, quando i fusti arrivavano al magazzino, il magazziniere le strappava, scomparivano.
D.: E voi sapevate che in questi fusti c'erano questi veleni e che quindi facevano male?
R.: Lo sapevamo noi e lo sapevano anche i dirigenti degli uffici che erano velenosi, ma purtroppo come ho detto prima quando si va a lavorare bisogna subire il bello ed il cattivo tempo.
D.: Ma Lomonaco non era l'esperto chimico?
R.: Si era il capo della tintoria, doveva sapere ma non si metteva contro la direzione. Cristallino faceva gli acquisti dei coloranti e quindi sapeva se erano nocivi o no.
D.: E Lomonaco non vi vedeva come facevate questi coloranti?
R.: Certo veniva nel corridoio e guardava il nostro lavoro, si avvicinava un secondo e se ne andava
D.: A seguito delle denunce che ci sono state siete state ascoltato da qualche autorità?
R.: Si è venuto un maresciallo dei carabinieri e mi ha chiesto come si lavorava i pericoli che c'erano.
D.: E questo maresciallo è stato mandato dalla Procura di Paola?
R.: Non lo so, non me lo ha detto. Ma ad un certo punto quando parlavo del mio lavoro mi ha detto di non continuare più altrimenti avrebbe indagato anche me.”
Francesco Depalma è deceduto pochi mesi dopo questa intervista. La sua testimonianza filmata non è stata ammessa al processo di primo grado che ha visto assolti tutti gli imputati. è la giustizia di "lorsignori".



Domenica 29 Novembre,2015 Ore: 21:20
 
 
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