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www.ildialogo.org AGORÀ TRA FEDE E LAICITÀ: IL FUTURO DEI GIOVANI: CRISI ECONOMICA, RISENTIMENTO SOCIALE E FRACTIO PANIS,DI GILBERTO SQUIZZATO

AGORÀ TRA FEDE E LAICITÀ: IL FUTURO DEI GIOVANI: CRISI ECONOMICA, RISENTIMENTO SOCIALE E FRACTIO PANIS

DI GILBERTO SQUIZZATO

(a cura di Carlo Castellini)


Ho seguito con vivo interesse la discussione dei giorni dell'Agorà, sul tema GIOVANI, COSTITUZIONE E FRACTIO PANIS, guardando al futuro così incerto e per certi versi così poco incoraggiante. Ci sarebbe da lasciarsi prendere dallo sconforto nel vedere quanto i valori dei nostri padri fondatori siano stati vilipesi, dilapidati, derisi screditati non solo dal comportamento di molta politica ma anche, più complessivamente, da una nuova cultura – forse etica? - di massa, che ha trovato nel cinismo, nell'avidità e nell'egoismo narcisistico i propri riferimenti.
Ma allora che valore hanno la solidarietà, la fraternità, il senso di appartenenza ad una comunità civile che condivide lo stesso destino? La passione per il bene comune che ha animato l'impegno di molti dei nostri uomini e delle nostre donne, che hanno lavorato per decenni alla ri costruzione non solo materiale ma anche morale del nostro Paese? Uomini e donne che si sono prodigati con generosità, trascurando il proprio interesse particolare? E che hanno guardato al di là dei confini del loro orizzonte domestico o di bottega? Tutto perso? Tutto sprecato? Per non dire dell'esempio di quelle migliaia di partigiani comunisti, socialisti, cattolici e laici, che, per opporsi al nazifascismo, furono pronti a morire in battaglia, nelle carceri, davanti ai plotoni di esecuzione? Quanti oggi, tramontato il sogno del “bel sol dell'avvenire” sarebbero capaci di scrivere le stesse righe dei condannati a morte della Resistenza?
GUARDARE CON OCCHIO DISINCANTATO
IL NOSTRO PASSATO NAZIONALE.
Credo che un onesto e salutare realismo dovrebbe farci considerare con occhio disincantato il passato nazionale, che non possiamo in alcun modo mitizzare. La Resistenza fu impresa morale e politica di poche decine di migliaia di Italiani, gli altri tacquero e obbedirono. E la nostra Costituzione fu la creazione splendida – per certi versi miracolosa – di un'élite di coscienze che, provenendo da opzioni politiche lontane e tra loro anche avverse, avevano però in comune un'etica della responsabilità e una scala di valori che trovavano nella solidarietà sociale il punto di sintesi.
Ma....si trattò però dell'opera di una minoranza che, scrivendo la legge fondamentale del nostro Paese, più che ratificare un patrimonio comune voleva tracciare le linee di una convivenza nuova, tutta da costruire. Milioni di uomini e di donne si riconobbero in quel progetto? Probabilmente si riconobbero nei simboli dei partiti che avevano espresso i padri fondatori della Costituzione repubblicana, nei sindacati che potevano di nuovo difendere gli interessi collettivi di ceti meno garantiti, nelle associazioni che promossero un nuovo fervore culturale e sociale, nel volontariato che si prese cura delle vastissime aree di sofferenza sociale che lo stato repubblicano non riusciva a sanare. Con tutto ciò non è possibile dire che l'intero Paese si fosse convertito ad un solidarismo universale, a una generosità assoluta e diffusa per ogni dove. L'Italia era ed è la patria del particulare di Guicciardini, degli interessi segmentati e molecolari che frantumano l'idea stessa di unione e solidarietà sociale.
Poche illusioni dunque, e nessuna mitizzazione di un'Italia generosa che si sarebbe dissolta sotto i colpi di fattori estranei (capitalismo selvaggio, edonismo, consumismo esasperato, nichilismo postmoderno, ecc.). Una prudente e onesta (ri)considerazione della nostra storia e del nostro passato ci obbliga a prendere atto del rapporto che s'instaurò fra Italiani e Costituzione: una relazione che ebbe successo per la parte dei diritti, con l'affermazione e la diffusione di una cultura civile di stampo liberale, che ratificava la conquista di valori individuali che il fascismo aveva conculcato (diritti civili, diritto al lavoro, al benessere, ai servizi sociali, al welfare, ecc.) ma che ebbe esiti grami e stentati sotto il profilo dei doveri individuali e collettivi. E così quell'orizzonte di più forte coesione sociale tutta da costruire, e anche l'auspicio di una solidarietà universale e condivisa capace di costruire un'autentica “fraternità civile”, restarono spesso vaghi sentimenti cui non corrispose una fervida conversione delle coscienze e dei comportamenti. Le premesse c'erano tutte perchè, archiviate le ideologie umanitarie (cattolicesimo sociale, comunismo, socialismo) e affermatasi la società dello spettacolo (Berlusconi) fossero ri-legittimati gli “spiriti animali” dell'egoismo e dell'avidità individuali e di gruppo, che altrove REAGAN E THATCHER avevano portato al trionfo. Non dimentichiamo che per Thatcher semplicemente , “la società non esiste”!
 
IL CRAXISMO E I MODELLI DI CONSUMO STATUNITENSI.
Cos'era dunque successo nel secondo dopoguerra in Italia? La Democrazia critiana aveva traghettato l'Italia, servendosi anche della “sua” tv, da un modello di società e cultura prevalentemente contadina e rurale, al modello industriale, impegnato soprattutto nella produzione di massa dei beni di consumo durevoli (lavatrice, radio, lucidatrice, frigorifero, tv......fino all'utilitaria). Era la società delle fabbriche, dove fatica, disciplina e risparmio si proponevano come virtù della classe lavoratrice. Il modello di felicità era quello domestico e morigerato del fatidico “Carosello”. Quando però quei mercati furono saturi, Craxi e il craxismo furono pronti ad adattare all'Italia neo-ricca l'ideologia, i modelli di consumo e persino l'etica (!) della società statunitense più avanzata, che aveva fatto dell'edonismo reaganiano la sua cifra più autentica. L'industria e il mercato nel complesso si proiettavano sui beni di consumo non durevoli (abbigliamento, moda, prodotti per il corpo e per il lusso, turismo di massa, arredamento, seconda e terza casa, ecc.). Si verificò il collasso della morale tradizionale, sia cattolica che comunista , incentrata sul risparmio e sulla morigeratezza, mentre trionfavano all'insegna del primato del look, i profumi, le palestre, le beauty farm, le automobili sempre più di lusso, che avevano nei rampanti spregiudicati ed esibizionisti della “Milano da bere” i propri modelli di comportamento vincenti. Tanto che l'appello all'austerità e alla moralità pubblica e privata di Berlinguer appariva pateticamente desueto. Le due istituzioni di riferimento, quella cattolica e quella comunista, vedevano naufragare i valori che fino a pochi anni prima erano dati per scontati e universali. Tutto cià però era l'effetto culturale del passaggio dalla cultura della prima società industriale di massa a quella del manifatturiero impegnato a vendere look, immagine, godimento effimero, servizi per così dire non essenziali alla persona, pena la crisi dell'intero assetto produttivo italiano. Che ruolo e che senso potevano più avere nell'epoca dell'effimero reclamizzato capillarmente dalle tv commerciali i valori della solidarietà, dell'impegno per il bene comune, della fratellanza? La parola d'ordine adesso era la concorrenza, la corsa all'accaparramento individuale delle risorse e della ricchezza.
 
LA SITUAZIONE CATASTROFICA CONTEMPORANEA.
Arriviamo così al punto in cui tale crisi perse colpi ed entrò in crisi. Ed è cronaca dei nostri anni: globalizzazione dei mercati, migrazioni dal sud al nord del mondo, crollo dell'economia e dell'etica comunista, delocalizzazioni produttive, licenziamenti, cassa integrazione, precariato, disoccupazione giovanile di massa. E intanto scoppiava la bolla speculativa e l'economia telematico-virtuale mostrava il suo vero volto. Non ho bisogno di dilungarmi su questo panorama che purtroppo ci è ben noto. Vorrei solo far notare che tale crisi ha divinizzato ancor più “i mercati“ come agenti onnipotenti e decisivi dell'economia; ma al tempo stesso ha mostrato i limiti del liberismo ideologico che, dopo aver lavorato per decenni al discredito dello Stato, lo ha richiamato in causa d'urgenza, investendolo della responsabilità di limitare i danni sociali di questa temepesta (ammortizzatori sociali, la Crysler salvata dai soldi pubblici statunitensi, ecc.)
Non è difficile comprendere che la solidarietà sociale, l'appello ad una nuova fraternità civile, la difesa dei diritti fondamentali, (pane, casa, lavoro, ecc.) tornano di moda in una condizione catastrofica come la nostra, perchè è la cogenza feroce dei fatti a riportarle in auge. Tanti di coloro che si erano crogiolati nel sogno del consumo facile, della bella casa, di uno stile di vita affluente e alla moda, sono oggi alla rovina. Lavoratori illusi di essere garantiti in eterno dallo Stato sociale si vedono oggi ridotti alla precarietà più avvilente. Consumi ieri alla portata di mano di larghe masse di consumatori ridiventano status symbol di ceti privilegiati.
Eppure siamo ancora lontani dal constatare che si è affermata una nuova coscienza civile, una nuova etica solidale. La fame, la disperazione non sono buone consigliere; la precarietà acuisce spesso gli egoismi; prevalgono il risentimento, la rissa, l'aggressività distruttiva. Si esige si una nuova solidarietà sociale, ma la si pretende come un diritto individuale e non come la condivisione di un bisogno comune di fraternità. Pochi sono disposti a rimodellare la società secondo i paradigmi di un nuovo modo di produrre e ridistribuire la ricchezza, di una nuova etica per la quale il destino comune è la salvezza del singolo e della ristretta cerchia dei suoi cari.
IL DESIDERIO DELLA CONDIVISIONE DEL PANE E IL VANGELO DI GESÙ.
Come si può espimere tutto ciò con il linguaggio mutuato dalla tradizione cristiana? Forse potremmo usare questa immagne: il desiderio della FRACTIO PANIS, della condivisione del pane stenta a prendere il posto della bramosia istintiva ad accaparrarsi individualmente le briciole necessarie alla sussistenza. Accecato dal bisogno immediato e da una rabbia che intossica l'anima, raramente l'individuo provato dalla crisi si spende per il progetto di una riconversione generale dell'economia, della società, della cultura, sfogando sulla casta (non innocente!) dei politici il furore rancoroso che li identifica come gli unici responsabili del disastro generale. E i populismi telematici e televisivi,(compreso quello di Renzi, poiché non ci sono soltanto Belusconi e Grillo), fanno man bassa del malcontento disperato. Ha una parola da dire oggi, in tale condizione così drammatica, il vangelo di Gesù di Nazareth, soprattutto ai giovani? Io credo fermamente di sì! Ha da proporre la parola del PADRE NOSTRO, in cui si chiede non ”il mio” ma il “nostro” pane, che ci serve ad arrivare fino a domani. La FRACTIO PANIS, diventa concretamente il ”SEGNO VISIBILE” di un modello alternativo, il paradigma , visto che il primo non ci è proprio riuscito, di una via d'uscita dall'inferno della separazione tra gli individui e della frattura sociale che vediamo sotto i nostri occhi.
Non è un partito politico, non è una formula economica, non è una ingenua cultura buonista. Si tratta invece della dottrina sociale cristiana, che da venti secoli è annunciata dal vangelo e che ha bisogno di essere sperimentata nelle forme, tutte nuove, di un'autentica solidarietà sociale che non fa elemosina e/o assistenza a chi ha bisogno ma, contestando alla radice la violenza incarnata dal'ingiusta ripartizione delle risorse e dei beni che è sotto i nostri occhi, azzardi fiduciosamente un'economia della fraternità, già scritta, in fondo, nella nostra mai realizzata Costituzione repubblicana. E se qualcuno volesse chiamarlo “nuovo comunismo”, io non mi sento affatto scandalizzato, visto che il primo non ci è proprio riuscito e che di economia della comunità e della condivisione abbiamo assoluto e irrinunciabile bisogno. (GILBERTRO SQUIZZATO).



Lunedì 26 Gennaio,2015 Ore: 16:15
 
 
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