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www.ildialogo.org Vivrai del lavoro delle tue mani (Sal. 127, 2),di Raniero La Valle

VII Edizione “La Bibbia sulle strade dell’uomo” Catanzaro – Cosenza – Messina 20-22 novembre 2014
Vivrai del lavoro delle tue mani (Sal. 127, 2)

di Raniero La Valle

Raniero La Valle

Vivrai del lavoro delle tue mani (Sal. 127, 2)
Messina 22 novembre 2014
C’ È BISOGNO DI UN PARTITO NUOVO
Ci vuole del coraggio ad assumere come tema di questo Convegno il lavoro, nel momento della sua massima crisi. Le riflessioni svolte fin qui hanno mostrato come il lavoro non sia un tema circoscritto, un segmento dell’esperienza umana, ma investa l’intera esistenza, l’intera concezione e l’intero destino umano, sia che lo si discuta in sede teorica, sia che lo si canti nelle canzoni di dolore e di protesta, sia che sia oggetto dello scontro sindacale e politico. Come ha detto il vice-sindaco di Messina nel suo intervento di saluto, il fallimento del lavoro, di un lavoro, è il possibile fallimento dell’esperienza umana.
Pertanto si può stabilire un rapporto tra lavoro e civiltà, prendere il lavoro come misura della civiltà, e identificare la storia del lavoro con la storia della civiltà. E in questo quadro noi possiamo fissare un giorno preciso in cui la civiltà ha raggiunto il suo culmine: ed è stato nella seconda metà del ‘900 quando in Italia, il 20 maggio 1970, è stato promulgato lo Statuto dei diritti dei lavoratori; da lì poi è cominciato il declino, una discesa che ora sta diventando un precipizio.
Ma è molto significativo che quando nel Novecento il lavoro ha raggiunto la sua massima forza e il più alto riconoscimento della sua dignità, esso non è giunto a questo approdo da solo, ma insieme a molte altre istanze sociali e ad altre conquiste.
Lo Statuto dei diritti dei lavoratori è arrivato infatti, tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, con molte altre cose grandi e preziose.
Il 12 dicembre 1962, come volano d’avvio del centrosinistra si è avuta la nazionalizzazione dell’energia elettrica con una legge firmata da Fanfani, Colombo, La Malfa, Tremelloni; essa consacrava l’idea che le grandi risorse non dovevano essere fonte di speculazione privata, ma dovevano essere messe al servizio dell’utilità comune. Il 31 dicembre 1962 era la volta della Scuola media statale obbligatoria, per una scuola che fosse veramente una scuola di tutti, di cui anche gli sfavoriti, i disabili fossero al centro; il 6 agosto 1967 arrivava la legge urbanistica che offriva ai comuni lo strumento dei piani regolatori, innovando per la prima volta la materia dopo la legge urbanistica del 1942; nel febbraio 1968 si faceva la legge per l’elezione dei consigli regionali e con i provvedimenti finanziari del 16 maggio 1970 per l’attuazione delle regioni si poteva giungere alle prime elezioni regionali nel 1970; l’11 dicembre 1969 c’era la legge per l’ Università. Negli anni Settanta a maggio, insieme allo Statuto dei lavoratori c’è la legge per l’indizione dei referendum, nel 1972 la legge sull’obiezione di coscienza, nel maggio 1974 si celebra il primo referendum abrogativo, quello sul divorzio, nel 1974 si legifera sul finanziamento pubblico ai partiti, per evitare che la politica fosse fatta solo dai ricchi; del maggio 1975 è la riforma del diritto di famiglia; il 13 maggio 1978 la legge Basaglia, la famosa 180, rimette in libertà i malati psichiatrici e, nei manicomi, attacca le istituzioni totali, il 22 maggio 1978 è approvata la 194 sulla depenalizzazione dell’aborto (una legge la cui vera attuazione anche nelle sue norme preventive e sociali è oggi reclamata perfino da coloro che le furono fieramente contrari); nel dicembre 1978 si ha il Servizio sanitario nazionale che nonostante tutte le sue disfunzioni e corruzioni ha fatto degli italiani uno dei popoli più longevi del mondo; ma intanto il 9 maggio è stato ucciso Moro, e tutto finisce.
Certo, sono cose del passato, quelle che secondo Renzi rivendicare oggi sarebbe come voler mettere un vecchio rollino fotografico dentro una macchina digitale. Però questo è stato il punto più alto a cui era giunta allora la civiltà del lavoro e del diritto.
Bisogna dire però che la storia di questa ascesa, fino all’apice raggiunto negli anni 70, è stata lunghissima, difficile, contrastata. Non è stato un progresso lineare ma una storia con continue rotture e cadute. Ed è una storia che dobbiamo brevemente ricordare, se no non capiamo neanche che cosa accade oggi.
Come era cominciata la storia del lavoro?
Era cominciata male la storia umana riguardo al lavoro. In principio c’era stato il lavoro divino della creazione; era stato un vero lavoro, come lo racconta la Genesi, tanto è vero che il settimo giorno Dio si riposò. E col riposo di Dio, comincia il lavoro dell’uomo. Ma solo il lavoro di Dio era stato considerato divino, e i prodotti del suo lavoro erano stati da lui stesso definiti come buoni, molto buoni. Invece il lavoro dell’uomo è cominciato sotto il segno dell’infermità, è stato legato al peccato e comminato come pena.
Dunque all’inizio, c’è una grande ingiustizia nei confronti del lavoro. Il lavoro è comune a Dio e all’uomo, lavorano tutti e due; ma il lavoro divino è una benedizione, il lavoro umano è una maledizione.
Questa antinomia si prolungherà per tutta la storia, perché per il suo lavoro Dio continuerà ad essere benedetto nei secoli come autore di quella cosa meravigliosa che è il creato, mentre per l’uomo il lavoro resterà come una maledizione per secoli.
I fraintendimenti di Dio
Naturalmente questa antinomia tra il lavoro di Dio e il lavoro dell’uomo non era vera. Anzi quello è stato il primo fraintendimento di Dio che c’è nella Bibbia. Come ormai sappiamo la Bibbia è la parola della rivelazione di Dio, ma è anche il luogo dei fraintendimenti di Dio, perché solo gradualmente gli uomini sono pervenuti alla conoscenza e alla comprensione di Dio, e solo alla fine questa conoscenza è giunta alla sua pienezza nel Cristo. In tutta la Bibbia, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, c’è uno scarto tra il Dio come viene compreso e raccontato dagli scrittori sacri, e il Dio di Gesù, il Dio invisibile che si rende visibile nell’immagine di Gesù Cristo.
Uno dei casi più vistosi e più distruttivi del fraintendimento di Dio è quello del Dio violento. E’ evidente che il Dio che noi oggi conosciamo non è il Dio sterminatore di certe pagine della Bibbia; ma è inutile che cerchiamo di fare delle acrobazie interpretative per dire che quelle pagine non sono così violente come sembrano, che esse parlerebbero non della violenza ma della pedagogia di Dio. Un recente documento della Commissione teologica internazionale – organismo di teologi di nomina papale dotato di un’elevata autorità dottrinale - ha detto che in quelle pagine si parla veramente di Dio, però c’è un fraintendimento di Dio, e che solo dopo un lungo cammino di lettura della Parola e di ascolto dello Spirito la comunità credente ha potuto superare gli stereotipi, le culture, i linguaggi, in cui erano incastonate quelle false rappresentazioni di Dio.
Dunque se c’è uno sbaglio su Dio quando lo si descrive come un Dio pronto all’ira, vendicatore e violento, c’è anche uno sbaglio su Dio quando nella Genesi lo si rappresenta come colui che avrebbe fatto del lavoro dell’uomo la pena del peccato: “Con dolore dal suolo trarrai il cibo, con il sudore del tuo volto mangerai il pane” dice Gen. 3, 17-19; e siccome la pena non è una pena se non è afflittiva, aver fatto del lavoro una pena vorrebbe dire aver fatto del lavoro una ragione di tormento, di afflizione, di mortificazione e in definitiva di servitù.
Questo è un punto fondamentale: nel modo in cui è pensato il lavoro, nel modo in cui viene trattato il lavoro, c’è tutta un’antropologia.
Secondo l’antropologia del lavoro come pena, ad esempio, il lavoro sarebbe un male da cui liberarsi; e infatti certe ideologie influenzate da questa antropologia negativa hanno fatto della liberazione dal lavoro un obiettivo e un’utopia politica. Ne parlo al passato perché si tratta di ideologie ormai superate. Liberato dal lavoro l’uomo, secondo queste ideologie, sarebbe stato pronto per il salto nell’assoluto. Oggi siamo in presenza di un rovesciamento totale: nella predicazione di papa Francesco, ma ancor prima in quella di Giovanni Paolo II, il lavoro è considerato come una necessaria dimensione della dignità umana. E noi oggi sappiamo che il lavoro è una maledizione e una pena solo perché gli uomini lo rendono tale, lo assoggettano e lo sfruttano, non perché Dio ne abbia fatto una maledizione e una pena. E se questo è vero oggi non poteva che essere vero anche allora, nei giorni della creazione, perché Dio è sempre lo stesso. Dunque la Bibbia si era sbagliata.
Il lavoro dell’uomo ha in effetti un tutt’altro statuto nell’economia divina; secondo Giovanni Paolo II il lavoro umano rientra nel dato specifico per il quale l’uomo è ad immagine di Dio, ad immagine di Dio che lavora. Si potrebbe sviluppare il discorso del lavoro come componente dell’immagine, e poiché l’immagine di Dio nell’uomo consiste essenzialmente nella libertà (così diceva San Bernardo) si potrebbe sviluppare il discorso del rapporto - sia in Dio che nell’uomo - tra lavoro e libertà. Un tema affascinante che però dobbiamo lasciare ad un’altra occasione.
Le conseguenze della concezione del lavoro come male
Invece occorre vedere quali conseguenze devastanti ha portato nella storia della civiltà l’idea del lavoro inteso come maledizione e come pena.
Prima di tutto ha portato a una società divisa in servi e signori. Perché il lavoro ci vuole, altrimenti la società non potrebbe vivere. Esso deve soddisfare alle esigenze della vita fisica, e dunque è legato alla materia Ma se il lavoro è afflittivo, se il lavoro è una pena, se è legato alla materia, esso ostacola lo sviluppo delle facoltà superiori dell’uomo, impedisce all’uomo di realizzare se stesso. Nella concezione antica la pienezza dell’umanità si raggiunge infatti nell’esplicazione delle attività razionali, spirituali, nella contemplazione. Questa è la tesi di Aristotele. E questo è il problema della società greca: se tutti lavorano, l’uomo non si realizza. La soluzione viene trovata addossando il lavoro in modo esclusivo ad una categoria di persone, i servi, e salvaguardando dal lavoro un’altra classe di persone, i signori. La società non è una società di eguali, è una società di signori e servi. I servi sono inferiori in tutto ai signori, perfino nel fisico se ne differenziano perché devono essere adatti alla fatica. Sono paragonabili agli animali da lavoro. Aristotele dice che se uno non è abbastanza ricco da permettersi un servo, può servirsi di un bue. Sono sullo stesso piano. I servi non hanno accesso all’assoluto, non possono dedicarsi alla contemplazione; del resto, esauriti nella fatica fisica non ne avrebbero la forza. Il lavoro staccato dalla contemplazione, privato dello spirito, aliena l’uomo, lo riduce a cosa (e questo lo dirà Marx).
Ma allora, in una società così polarizzata e ineguale, l’umanità non si realizza e l’umano si perde? Aristotele risponde che anche se una sola classe, o anche una sola persona di quella classe realizza la propria umanità, è l’umanità intera che si realizza.
Questa antropologia della disuguaglianza ce la siamo portata dietro per tutta la storia. E si tratta di una diseguaglianza radicale; non dipende solo dalle condizioni economiche e sociali, è una diseguaglianza per natura per cui gli esseri umani non sono tutti eguali, o che si tratti della contrapposizione tra schiavi e liberi e servi e signori, o che si tratti dell’inferiorità della donna, o che si tratti di una diseguaglianza razziale, castale, religiosa, o che si tratti della diseguaglianza, teorizzata da Hegel (a proposito della conquista dell’America), tra popoli della natura e popoli dello spirito, cioè tra i popoli primitivi e la superiore civiltà europea. Solo col costituzionalismo, con la Carta dell’ONU, con le dichiarazioni universali sui diritti umani sarà proclamata l’eguaglianza radicale di tutti gli esseri umani e di tutte le nazioni grandi e piccole. Però il vizio d’origine di una diseguaglianza irrimediabile tra gli esseri umani è riemerso sotto un’altra forma sia nella contrapposizione di classe che, lungi dallo scomparire, come crede Renzi, è diventata ancora più dura, sia perché nella società globale è divenuto sempre più spietato lo scarto tra un’umanità riuscita, che si ritiene in diritto di vivere e di essere protetta, e un’umanità minore che è destinata ad essere emarginata o a soccombere. Questa antropologia della diseguaglianza si manifesta a livello di massa in quella che il papa ha chiamato la società dell’esclusione dominata dal denaro.. Nella società globalizzata a livello mondiale sono più gli esclusi che gli inclusi. Obama ora vuole provare ad includere 5 milioni di ispanici che sono americani a tutti gli effetti, vivono in America, lavorano in America, ma ufficialmente non ci sono, non sono riconosciuti, sono uomini e donne che esistono solo in nero. E se anche ci riuscirà, contro le opposizioni che già si sono scatenate per impedirlo, altri 7 milioni rimarranno sommersi.
Ed è in questo quadro allora che si devono osservare le condizioni del lavoro oggi e il grande conflitto che oggi è aperto in Italia.
Il conflitto sul potere
Il vero conflitto che oggi è in corso in Italia è un conflitto sul potere. Si parla di economia, di lavoro, ma in realtà si lotta per il potere. Le riforme annunciate, e in particolare le riforme costituzionali, la riforma elettorale, non hanno per oggetto il “che fare?” dell’azione politica, hanno per oggetto il potere, la quantità e qualità del potere. E ciò perché senza un potere incondizionato la società dei pochi in cui la maggioranza è esclusa non si può realizzare. C’è una sola cosa che si sottrae e che resiste alla società dell’esclusione, e questa cosa è il lavoro tutelato dal diritto. Finché il lavoro regge, la società della maggioranza esclusa non si può fare.
Perché ce l’hanno tanto con i lavoratori garantiti e con i sindacati che li difendono accusandoli come se difendessero un privilegio? Perché i lavoratori garantiti sono inclusi, non sono esclusi. Sono, come abbiamo detto, il punto di arrivo dello sviluppo della civiltà, che dalla condizione dei servi è arrivata fino allo Statuto dei lavoratori. Lo Statuto dei lavoratori e l’art. 18 che ne rappresenta la pietra angolare, sono l’apice della lotta per l’inclusione sociale, non solo dei lavoratori ma di tutti, e perciò sono il coronamento della Costituzione e dello Stato democratico di diritto. L’attuale lotta contro i lavoratori garantiti, e perciò contro le garanzie del lavoro, non è una lotta a favore degli altri, a favore dei disoccupati o dei precari, ma è la lotta perché non ci siano più lavoratori garantiti, cioè perché non ci sia più niente che resti fisso, che sia stabile, che sia permanente. Infatti deve rimanere una sola cosa che sia fissa, stabile e permanente, e questa, come dice papa Francesco, è il denaro. Il denaro che invece di servire governa.
Marx lo chiamava il capitale, e capitalismo era chiamato il sistema in cui il capitale invece di servire, invece di essere trafficato per il bene collettivo come i talenti del Vangelo, dominava. Ora, quando Renzi dice che il posto fisso non c’è più, che pensare di avere un lavoro per tutta la vita è come voler mettere i gettoni telefonici in un I-phone, dice esattamente questo: i lavoratori garantiti, i lavoratori inclusi, la cui ingiusta esclusione può essere sanzionata da un giudice non esistono più, il posto fisso non esiste più. In questa società l’unica cosa fissa, che nessuno può contestare, che nessuno può escludere, è il denaro, è il capitale che è insindacabile anche quando con la sua voracità e con i suoi errori distrugge se stesso nella speculazione impazzita, dove il denaro non ha altro interlocutore che il denaro.
Questo regime però non si chiama più capitalismo. Non è politicamente corretto chiamarlo così. Questa parola è scomparsa dai giornali, dalle televisioni, dai dibattiti politici. Ma siccome non è scomparsa la cosa, anzi è l’unica veramente esistente, essa si chiama in un altro modo. Si chiama Unione Europea. “Ce lo chiede l’Europa”. Si chiama Maastricht, concorrenza, mercato. Il mercato rende illegittimo il ruolo samaritano della Repubblica che secondo l’art. 3 della Costituzione deve rimuovere gli ostacoli che sul piano di fatto impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese. Il mercato, e ormai i Trattati che ne fanno un regime, proibisce gli aiuti di Stato alle imprese, impedisce il ruolo dello Stato nell’economia, esclude l’attuazione dell’art. 3.
Perché questo modello di società si realizzi ci vuole un potere che non senta ragioni. Il potere com’è configurato nella Costituzione repubblicana non è adatto perché la Costituzione antifascista è stata scritta non per rendere incondizionato il potere ma al contrario per mettergli dei limiti e circondarlo di garanzie ai fini di preservare la libertà.
Per questa ragione se il fine ultimo è la supremazia della società del denaro, se l’obiettivo è la distruzione del diritto del lavoro e la revoca del suo ruolo come fondamento della Repubblica democratica, la fase intermedia è quella di costruire una macchina di potere che lo renda possibile. Questa fase è in corso da 25 anni da quando, dopo la “caduta” del muro di Berlino, si pensò che le garanzie stabilite dalla Costituzione del ’48 non fossero più necessarie. Secondo gli attuali riformatori. la Costituente del ’47 avrebbe lasciato a metà il compito di predisporre un governo funzionante ed efficace nel prendere decisioni, cioè avrebbe bucato il problema della governabilità. Infatti dopo la rottura con i social comunisti del maggio 1947, nella seconda fase della vita della Costituente a causa della diffidenza reciproca tra i partiti, vennero privilegiate le garanzie nei confronti del potere e non furono varate “istituzioni decidenti”. Questa è la tesi del costituzionalista Stefano Ceccanti esposta sabato scorso in un convegno ad Orvieto. Si può osservare che quelle garanzie e quell’equilibrio dei poteri che nel ’47, all’inizio della guerra fredda, avevano messo in sicurezza la democrazia, avevano in realtà un valore non contingente, e avrebbero dovuto continuare a tenere in sicurezza la democrazia quale che fosse stata l’evoluzione dei sistemi politici e dei partiti. Fatto sta che già nel giugno 1991 il Presidente delle Repubblica Cossiga in un messaggio al Parlamento dichiarava obsoleta la Costituzione del ’48, che si doveva cominciare a rottamare (allora si diceva “picconare”). E’ una cosa che vale la pena di sottolineare perché mostra che le proposte di riforme istituzionali sono sempre venute dal Palazzo, e mai dal popolo, anche se il popolo non ha mancato di chiamare in causa delle norme costituzionali, come quando i giovani con una massiccia obiezione di coscienza hanno fatto cadere l’obbligo del servizio militare di leva. In ogni caso però la fase di riforme istituzionali a beneficio del potere si è rivelata molto più difficile del previsto perché la Costituzione ha resistito; però adesso i riformatori sono convinti di essere prossimi al risultato, sia perché sono già riusciti a cambiare di fatto il sistema politico portando un uomo solo al comando, sia perché starebbero per “portare a casa”, come dicono con sgradevole senso di appropriazione, la riforma della Costituzione e la riforma elettorale.
In questi termini la lotta sul lavoro è oggi nascosta dietro la lotta per il potere. La costruzione della definitiva macchina per il potere è la vera missione ed è il vero contenuto della politica dell’attuale governo.
La nuova macchina del potere
Come si presenta la nuova macchina del potere? È una macchina che secondo i tempi di Renzi dovrebbe essere messa a punto entro i prossimi mille giorni e dovrebbe funzionare nel seguente modo:
  1. un solo uomo al comando, cioè una stessa persona come capo del governo e capo del partito (e questo è già in atto: secondo Ceccanti è stata la scelta geniale che in un colpo solo avrebbe permesso di avviare a conclusione la transizione italiana) .
  2. una sola Camera da cui il governo deve avere la fiducia (con la messa fuori gioco del Senato).
  3. un solo partito, non una coalizione, a cui sarà assicurata per legge la maggioranza assoluta nell’unica Camera residua. Che un solo partito abbia l’intera responsabilità del governo viene spiegato col fatto che esso sarebbe il partito della Nazione. E qui c’è un errore radicale, perché la Nazione non è un corpo organico che possa avere un’unica rappresentanza, che si tratti di un uomo o di un partito. Una collettività umana come corpo organico non esiste in natura; in natura esistono i cittadini e i corpi intermedi, non esiste un corpo totale; tanto è vero che quando i cristiani parlano dei fedeli come di un corpo, lo smaterializzano e lo chiamano “Corpo Mistico”.
  4. Quanto resta della rappresentanza parlamentare sarebbe formato nella sua maggioranza ancora da parlamentari non eletti ma nominati. Nominati sarebbero i 95 senatori espressi dai Consigli regionali, nominati i 300 capilista dei tre maggiori partiti designati nei 100 collegi elettorali previsti, nominati i capilista dei piccoli partiti nei collegi in cui prendessero seggi.
Dunque un solo uomo al comando, un solo partito, una sola Camera, una minima rappresentanza eletta e anche un solo legislatore: infatti la riforma costituzionale attribuisce al governo e al suo capo il potere di far votare alla Camera una legge da lui voluta nel testo da lui voluto e senza emendamenti in una data certa se la Camera non abbia adempiuto alla richiesta del governo di votare quella legge entro sessanta giorni. È sufficiente questo per operare un cambio di sistema togliendo al governo il carattere di governo parlamentare.
Se questo disegno arriverà in porto, e non sarà bloccato col referendum popolare, è chiaro che lo scopo dei riformatori sarà raggiunto: vincerà il progetto del fare, il potere potrà fare qualunque cosa, anche la guerra, la cui decisione diventerà un affare interno tra il governo e il suo partito alla Camera, essendo il Senato escluso da tale deliberazione.
Il potere in tal modo sarà legittimato a fare, ma il che fare sarà sottratto ad ogni limite, ad ogni garanzia, ad ogni controllo. Ma così si torna alla fase precedente al costituzionalismo, perché il costituzionalismo è sorto non per dare più potere al potere, ma per sottoporlo al vincolo del bene comune e della volontà popolare, vincoli che si manifestano come altrettanti poteri di veto, che appunto la riforma in corso vuole abolire. Caduto il potere di veto, cioè la critica del Parlamento, dei partiti, dei sindacati, dell’associazionismo, dei corpi intermedi, il potere è incondizionato, può fare quello che vuole, ma allora il costituzionalismo e anche la democrazia sono finiti.
La cosa può essere tragica. Non solo perché il potere può fare scelte devastanti, dalla guerra all’economia alla moneta ai diritti, ma anche perché alla società che soffre, dissente e resiste non rimangono altre strade che le vie extraparlamentari, le vie antagonistiche, la piazza, lo sciopero, il farsi giustizia da sé e in ultima istanza la violenza.
Più in Italia il potere diventa arrogante, mentre i cittadini si impoveriscono, i giovani non hanno futuro e il territorio affoga nelle intemperie, e più si accumula un potenziale di violenza, di inimicizia, di odio che avvelena la vita del Paese e può esplodere in imprevedibili crisi
In questo senso l’attuale governo è uno dei più pericolosi che abbia avuto il Paese dalla nascita della Repubblica, e ancora più grave è che ignorando il pericolo voglia rendere il mutamento definitivo.
Che fare?
Se per caso dei giovani ci stanno a sentire, direi che ci vogliono tre cose.
  1. Ci vuole una politica.
  2. Ci vuole una scuola.
  3. Ci vuole una fede.
Quanto alla politica, ci vuole un partito nuovo. Un partito di tipo nuovo. I partiti personali portano al disastro e non funzionano più, nemmeno in America. Obama da solo non ha potuto fare niente (non quello che era necessario). I partiti culturalmente fatui passano in fretta. Il modello del PD è fallito. Renzi lo ha mandato al macero. Nel giro di pochi mesi, centinaia di migliaia di iscritti non si iscrivono più, centinaia di migliaia di elettori di certo non lo votano più. Di fatto il modello, fin dal principio, non era ragionevole. Hanno ripudiato le ideologie, poi hanno preso due nomenclature create dalle ideologie e derivate dallo scorporo di quelle ideologie, e ne hanno fatto un partito. Mancando una forma ne è venuto un partito proteiforme, disponibile alle primarie aperte ai passanti e al leader più capace di persuasione, se non di consenso.
Un partito nuovo vuol dire un partito non volatile, non digitale, dove non ci si illude che centomila contatti di cinquanta secondi sul web rappresentino un soggetto politico. Ci vuole un partito dove si cammina a piedi, si incontrano le persone, si studia e si fa politica, un partito con i gettoni. Certo a partire dalle lotte di base, come fu per le conquiste degli anni Sessanta e Settanta, ma poi con uno strumento politico strutturato sul territorio. Un partito che giochi un’altra partita, che non è quella del potere, ma è quella del bene comune, della società solidale ed inclusiva. Un partito non per sé, o per riesumare il suo passato, ma per rappresentare e dare voce all’enorme potenzialità dei candidati a una vita secondo equità e giustizia. E il presupposto di fiducia è che tutto deve essere possibile non con la violenza ma con la politica; anche ciò che si pretende, magari in forza dell’Europa, che la politica non possa fare.
E nel promuovere il partito nuovo, ci vuole una legge sui partiti, che dia attuazione all’art. 49 della Costituzione, che ne assicuri la democrazia interna, la trasparenza, che stabilisca incompatibilità tra cariche di partito e cariche pubbliche, che ne faccia degli organi della società civile e non delle istituzioni pubbliche e dello Stato.
Quanto alla scuola, ci vuole una nuova alfabetizzazione. Va benissimo il linguaggio digitale, il web, Internet, ma la scuola deve veicolare il linguaggio comune, la cultura che viene da lontano, che richiede tempo, applicazione e fatica. Ci vuole una scuola in cui non si studi solo per il merito, per il successo, e nemmeno solo per l’avviamento al lavoro, ma una scuola dove si studi senza ragioni, se non quelle di vivere, di capire, di poter comunicare con gli altri, quelli di ieri e quelli di domani. Una scuola che non deve essere né delle imprese, né del mercato, né della Chiesa. Una scuola della Repubblica dove le cose si insegnano e si tramandano e si ricercano non tanto perché servano, non perché rendano, ma perché costruiscano le persone umane. L’art. 3 della Costituzione dovrebbe essere esteso anche all’istruzione: “E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che sul piano della conoscenza, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Quanto alla fede, non si tratta della fede in una Chiesa, in una dogmatica, in un’ortodossia. Si tratta della fede di papa Francesco, che ha cominciato a parlare di un Dio misericordioso e vicino, e di fatto ha riaperto in una società che l’aveva archiviata la questione di Dio. E in questo contesto si può anche riformulare la questione del lavoro come principio di riscatto, come ha fatto il papa nel suo incontro in Vaticano con i movimenti popolari di tutto il mondo il 28 ottobre scorso, quando ha legittimato la lotta dei poveri per l’inclusione sociale e per combattere l’ingiustizia, e ha posto il lavoro come un bene essenziale per l’uomo, accanto alla terra e alla casa. Ha detto papa Francesco a proposito del lavoro. “Non esiste peggiore povertà materiale di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro. La disoccupazione giovanile, il lavoro nero e la mancanza di diritti del lavoro non sono inevitabili, sono il risultato di una previa opzione sociale, di un sistema economico che mette i guadagni al di sopra dell’uomo; sono gli effetti di una cultura dello scarto che considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare”. “Qui in Italia – ha aggiunto - i giovani disoccupati sono un po’ più del quaranta per cento; significa un’intera generazione, annullare un’intera generazione per mantenere l’equilibrio, per poter mantenere e riequilibrare un sistema al centro del quale c’è il dio denaro e non la persona umana”.
E allora qui il discorso si conclude. Il lavoro sta all’inizio della creazione, ed è inscindibilmente lavoro di Dio e lavoro dell’uomo. Al termine di una lunga storia il lavoro è giunto al massimo della sua forza e della sua dignità. Oggi è sotto attacco, ma la difesa e la promozione del lavoro è insieme difesa dell’uomo, promozione della democrazia, e affermazione della libertà contro il potere.
Raniero La Valle



Mercoledì 26 Novembre,2014 Ore: 13:16
 
 
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