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www.ildialogo.org PERCHE’ IL SUD E’ RIMASTO INDIETRO.,di Nino Lanzetta

PERCHE’ IL SUD E’ RIMASTO INDIETRO.

La questione meridionale alla luce della globalizzazione e dell’integrazione europea.


di Nino Lanzetta

A leggere il trattato, “ Perché il Sud è rimasto indietro” - il Mulino 2013- dello studioso Emanuele Felice, meridionale - insegna Storia economica all’Università di Barcellona – emigrato come tantissimi altri giovani di valore, ci vuole un po’ di pazienza, tra dati statistici e teorie scientifiche, ma ne vale la pena. Da studioso di economia cerca di individuare le cause del declino del Sud tracciandone un quadro economico dall’Unità d’Italia ai giorni nostri.
La premessa è che la “conquista” dal Sud da parte di un regno minore ( quello piemontese dei Savoia) è diretta conseguenza della burocrazia istituzionale borbonica prodottasi dopo il fallimento dei moti del 1848, nella misura in cui nel Regno delle due Sicilie ( il Regno maggiore), immobilismo economico e relazionismo politico conducono all’isolamento internazionale ed alla frantumazione interna. Nei trasporti, ( strade, ferrovie), nel credito ( banche, poste- che fungevano solamente da forzieri; e la carta moneta era quasi inesistente) nelle cooperative nell’istruzione ( l’85% di analfabeti) il Sud, ai tempi dell’Unità d’Italia era indietro al resto d’Italia e lontanissimo dal triangolo industriale ( Piemonte, Lombardia, Liguria). Sul reddito c’è qualche parere discorde: nel 1871, calcolando il reddito pro capite con metodo induttivo da altri parametri . (non c’erano ancora le statistiche né altri misuratori ad hoc) la Liguria ( fatta 100 la media nazionale) stava a 139, il Lazio a 146, la Lombardia a 111 e la Campania a 197, davanti al Piemonte a 103. Da notare che la politica di libero scambio, con la tariffa liberistica, introdotta nel 1866 favorì la Campania che era una regione fortemente agricola, che insieme alla Puglia esportava molto. In genere il PIL ( prodotto interno lordo) del sud nel 1861 ( Unità d’Italia) era tra il 76 e l’80% di quello del centro Nord. Il Sud era più povero, più arretrato, meno alfabetizzato (evasione scolastica all’85%). Insomma la miseria, la disuguaglianza, l’arretratezza delle classi dirigenti bloccavano lo sviluppo economico e civile. Questa visione contrasta con le tesi neo borboniche che non hanno una visione storica complessiva sulla condizione del Sud e si lasciano suggestionare da qualche realtà locale, vera enclave, più progredita rispetto alle rimanenti regioni. La Mafia, la Camorra e la ‘Ndrangheta erano già presenti sul territorio ed erano il risultato della profonda disuguaglianza, dell’assenza dello Stato, del predominio della nobiltà e della debolezza della borghesia. I fenomeni delinquenziali si sviluppano enormemente nella fase di transizione dell’ancien regime alla modernità. La mafia nasce, infatti, tra la fine della feudalità (1812) e la riorganizzazione dello stato borbonico ( 1832), si sviluppò nella parte occidentale dell’isola (Palermo, Caltanissetta Agrigento) e fu il risultato della trasformazione delle milizie armate pagate ed utilizzate dai baroni al fine di amministrare la giustizia e salvaguardare i latifondi.
Come si può spiegare il divario tra il Sud e il centro nord che dall’Unità d’Italia ai nostri giorni non è stato superato ed anzi – pur nelle mutate condizioni di vita – tende addirittura ad aumentare? Sostanzialmente con il fatto che non ha funzionato il sistema della “modernizzazione passiva” ovvero è mancato l’adattamento delle classi dirigenti della società meridionale, ad una modernizzazione imposta dall’esterno, in primo luogo dallo Stato centrale, che viene accettata solo fintanto che non metta in discussione gli interessi consolidati. Le Istituzioni meridionali fanno parte delle cosiddette “Istituzioni estrattive” che sono, cioè, caratterizzate dalla concentrazione del potere in un’elite ristretta senza nessuna partecipazione attiva dei cittadini a differenza di quelle “inclusive” che sono, invece, quelle democratiche.
Il divario Nord/ Sud, il cui inizio storicamente può collocarsi nella lunga fase di transizione alla modernità che va dalla metà del settecento all’unità d’Italia, può distinguersi in quattro fasi: la prima, che va dall’unità d’Italia alla prima guerra mondiale, nella quale il divario aumenta, per raggiungere il massimo della divergenza durante la seconda fase, quella del fascismo, che va fino all’inizio degli anni cinquanta. Nella terza fase, che va fino ai primi anni settanta, si ha un’inversione di tendenza ed il Sud comincia a crescere raggiungendo la massima convergenza con il Nord. Oggi siamo nella quarta fase, ed il Sud ha smesso di crescere e quindi di convergere. Anzi il divario si sta addirittura accrescendo. Durante il fascismo il Sud peggiorò perché non vi fu alcuna politica industriale e quella agricola fu un disastro. Il tentativo liberale di industrializzare il Sud con i grandi impianti idroelettrici fallì per le molte resistenze anche del Sud. Dalla prima guerra mondiale agli inizi degli anni cinquanta il Sud fu incapace di generare un qualsiasi sviluppo industriale autonomo. Dopo, artefice lo Svimez, il tema dello sviluppo meridionale fu prioritario per merito della nuova classe politica. Nel 1950 venne fondata la Cassa del Mezzogiorno e prese il via la politica dell’intervento straordinario, aggiuntivo ed autonomo rispetto a quello ordinario. L’industrializzazione “passiva” del mezzogiorno si sarebbe rivelata un’illusione perché imposta dall’esterno (Centro) nonostante la sussistenza di una struttura politico –economico -sociale che, più che collaborare, subì i flussi economici che furono dirottati verso impieghi improduttivi ( pubblica amministrazione, opere pubbliche non necessarie) alimentando la crescita di un ceto di mediatori politici che fecero aumentare il clientelismo e avvantaggiarono la fedeltà ai politici locali al posto del merito. “Fu il fallimento dell’industrializzazione passiva”. E fu appunto il fallimento del modello di industrializzazione passiva, dovuto soprattutto alla crisi petrolifera del 1973 e al cambio del paradigma tecnologico, a rendere il clientelismo pervasivo se non addirittura normativo. Non vi è dubbio che in queste condizioni l’intervento straordinario finì per risultare addirittura nocivo, danneggiando ulteriormente il Mezzogiorno. Se anche l’afflusso di risorse poteva servire a migliorare nel contingente la posizione economica di alcuni gruppi, le logiche che vi sottendevano rafforzarono le istituzioni estrattive, rendendo più difficile l’avvio di uno sviluppo autonomo. Peggio. In alcuni casi i fondi andarono ad ingrassare le cosche criminali: è il caso della camorra dell’Irpinia dopo il terremoto del 1980.” ( pag. 114) L’istituzione delle regioni ha contribuito a rafforzare l’influsso negativo sulle amministrazioni periferiche, favorendo una moltiplicazione dei centri di spesa e delle catene clientelari. Quando, poi, si è passato ai fondi europei questi prevedevano un ruolo attivo delle Amministrazioni locali che non c’è stato e questi interventi, come quelli ordinari, sono stati usati malissimo. Nella seconda repubblica le cose non sono migliorate e si è perduto un altro ventennio. In più la fine della politica regionale è segnata dall’avvento del quarto governo Berlusconi ( 2008 – 2011) che ha dirottato i fondi europei per altri fini, per lo più al Nord, continuando e peggiorando l’andazzo di un’economia assistita.
Ora la situazione al sud d’Italia si è fatta drammatica. Il divario con il Nord si vede anche nella qualità della vita, sfatando una leggenda “metropolitana” per cui al sud si vive meglio e più a lungo. Cosa assolutamente non vera ( si veda la Terra dei fuochi!). Il sud è indietro anche nello sviluppo civile e nel capitale sociale. La Mafia, la camorra e la ‘ndrangheta sono al servizio e legate agli interessi dei tradizionali ceti dominanti e sono pervasi come le gramigne nel territorio difficilissime da sradicare. Le regioni della Campania, della Calabria, della Puglia e della Sicilia sono al più basso PIL pro capite in ragione dell’illegalità diffusa e della malavita che incide sul Pil con una percentuale che va dal 2 all’11%.
Secondo Emanuele Felice il Sud è rimasto indietro “ … perché non è mutata nella sostanza la struttura del potere. E non sono scomparsi nemmeno i deprecabili effetti che da tale struttura promanano: l’etica particolaristica, le pratiche clientelari, il peso delle organizzazioni criminali.” (pag. 197). Qualcosa migliora lentamente ( Abruzzo, Molise, Basilicata), ma è troppo poco. “ Ci fosse stato nel Mezzogiorno un adeguato contesto socio-istituzionale, ci fossero state cioè istituzioni inclusive e maggiore partecipazione sociale, allora si avremmo avuto un più alto capitale umano, un adeguato capitale sociale, migliori infrastrutture. E le cose sarebbero andate diversamente”. Pag. 224.)
La questione meridionale non è stata risolta. La modernizzazione passiva ( che ha funzionato solo con l’istruzione!) non è più possibile perché il Centro Nord non può più garantire la crescita nemmeno a sé stesso e perché lo Stato, anche se volesse, ha meno poteri ( regioni ecc.) perché non si vedono altri soggetti ( imprenditori privati) disponibili. Ad investire. Solo se il sud fosse in grado di modernizzarsi da solo andrebbe a soluzione la questione meridionale. E’ inutile prendersela con Roma ladrona! Ma il Sud è in grado di farcela da solo? Solo se si attua un profondo processo di trasformazione delle istituzioni economiche e politiche sbarazzandole dall’attuale classe politica e dirigente che le tiene imprigionate ai loro interessi, che fanno il paio con quelli criminali, non si fa alcun passo avanti. Non si può passare, tra l’apatia generale, la sopportazione e l’indifferenza dai Gava ai Cosentino passando attraverso i vari Mastella e con i Bassolino e i De Mita, che ci hanno del loro contribuendo al disfacimento di una regione che una volta era Felix! Non si può accettare, per quanto ci riguarda più da vicino, che alle prossime elezioni europee si ripresentino personaggi che la decenza imporrebbe di tenersi nascosti e che si considerano al di sopra di ogni sospetto e innocenti fino a prova di sentenza passata in giudicata e, anche quando l’hanno ricevuta, si continuano a proclamarsi innocenti e, purtroppo a continuare ancora a fare politica!
O continuare il dormiveglia o riscattarsi provando a rifondare la vita civile e le Istituzioni. Non c’è altra strada. La nuova questione meridionale dovrà essere considerata ed analizzata in questa logica. Non ci sono scappatoie né tantomeno scorciatoie. “ La strategia giusta dovrebbe invece puntare a modificare radicalmente la società meridionale, spezzando le catene socio-istituzionali che condannano la maggioranza dei suoi abitanti a una vita peggiore di quella dei loro concittadini del Nord: annientare la criminalità organizzata, eliminare il clientelismo, rompere il giogo dei privilegi e delle rendite. Riconvertire cioè le istituzioni del Mezzogiorno da estrattive a inclusive, passando per la trasformazione delle strutture sottostanti.” (pag. 14). Questo dovrebbe fare la politica e questo dovrebbero imporre le forze sane che ancora ci sono e sono la stragrande maggioranza. Finire di subire, indignarsi e farsi sentire con il voto, con le critiche, le proteste e, (perché no!) con gli sberleffi!
NINO LANZETTA



Domenica 13 Aprile,2014 Ore: 20:48
 
 
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