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www.ildialogo.org Riflessioni su mafia e capitalismo,di Lucio Garofalo

Riflessioni su mafia e capitalismo

di Lucio Garofalo

Recentemente ho intrattenuto su Facebook una piacevole conversazione con un’amica siciliana, che ha suscitato una serie di considerazioni sulla Sicilia, da cui è scaturita una riflessione personale che ho deciso di redigere sulla carta per consegnarla ai “posteri”.

E’ quasi pleonastico e banale affermare che la Sicilia è un’isola incantevole, talmente ricca di attrazioni irresistibili e bellezze impareggiabili da risultare unica al mondo. Nel contempo è una terra enigmatica, imperscrutabile, intrisa di aspetti oscuri e controversi che ne accentuano la magia, facendo trapelare il fascino occulto e sibillino di questa regione. Si pensi alle bellezze naturali: il sole che riscalda uno dei tratti di mare più azzurri e trasparenti del Mediterraneo, che lambisce un territorio costiero lungo 1500 chilometri; l’Etna, uno dei vulcani più suggestivi del pianeta, la cui bellezza non risiede solo nella potenza spettacolare delle sue eruzioni e nelle colate di lava incandescente, bensì in un complesso paesaggistico incredibile; l’arcipelago delle Isole Eolie, al largo della costa tirrenica messinese, nella Sicilia settentrionale, tra cui Lipari, Panarea, Stromboli e Vulcano. Si pensi alla bellezza seducente delle donne siciliane, tra le più avvenenti e sensuali al mondo. Si pensi alle bellezze artistiche ed architettoniche, all’irripetibile e misteriosa civiltà siciliana, ai popoli che si sono avvicendati e incrociati nel corso dei secoli, contaminandosi tra loro e generando una storia e una cultura che non hanno eguali al mondo: dai Fenici ai Greci, ai Bizantini agli Arabi, ai Normanni, ecc.

La Sicilia è, quindi, una terra magnifica da sempre: non a caso fu per i Greci la Magna Grecia e rappresentò la vera culla della filosofia, della matematica, dell’arte e della musica in epoca antica. Nella Magna Grecia si assegnava un notevole valore alla cultura, all’arte, alla letteratura, e si raggiunse un grado di civiltà pari, se non superiore alla stessa madrepatria. La Sicilia diede i natali ad alcuni tra i più sapienti filosofi e letterati della Magna Grecia e dell’antichità classica, tra cui il grande scienziato e matematico Archimede di Siracusa, i filosofi Gorgia da Lentini ed Empedocle di Agrigento. Giusto per segnalare alcune “celebrità” del mondo antico. Basterebbe menzionare queste ed altre figure eccellenti della cultura, della filosofia, della scienza, dell’arte e della letteratura universale (cito un nome su tutti: Luigi Pirandello) per sentirsi fieri d’essere Siciliani. Ma la Sicilia è da sempre una terra di conquista: si pensi alle numerose colonie fondate dai Greci e dai Fenici in età antica, per giungere, in tempi più recenti, agli Americani. Serve ricordare che, nel secondo dopoguerra, il secessionismo siciliano vagheggiava una “nazione sicula” confederata agli Usa. Purtroppo, la Sicilia ha fornito il retroterra storico dove si è sedimentato l’ambiente sociale e politico di Cosa Nostra, o Mafiopoli.

Ho citato i Nordamericani a proposito del colonialismo subito dal popolo siciliano, per cui azzardo una sorta di parallelismo storico con i Pellerossa. Durante la colonizzazione del “selvaggio West” americano, il “Popolo degli uomini” venne letteralmente decimato dall’esercito yankee nel corso di lunghe e sanguinose guerre di conquista che si svolsero nella seconda metà del XIX secolo e presero il nome di “guerre indiane”. La tribù pellerossa dei Sioux Dakota Hunkpapa era guidata dal grande capo e sciamano indiano Toro Seduto. In realtà il suo nome era Bufalo Seduto, o Tatanka Yotanka nella lingua dei nativi americani. Egli divenne famoso grazie alla vittoria conseguita, il 25 giugno 1876, nella battaglia combattuta nei pressi del fiume Little Bighorn contro il reggimento di cavalleria condotto dal tenente colonnello George Armstrong Custer, soprannominato “capelli gialli”, grande capo dei “visi pallidi”. All’incirca un secolo dopo, a Cinisi, nel mondo della mafia sicula, tuonava “don Tano Seduto”, spietato boss locale, a Corleone troneggiava il “capo dei capi” di Cosa Nostra, il famigerato “don Totò Seduto”, mentre altrove spadroneggiano altri “don Seduti” su altri scranni. Ma la mafia sicula non è svanita con l’arresto degli implacabili boss corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, latitanti per anni ed improvvisamente catturati dallo Stato italiano allorché si sono rivelati “arnesi” inutili e vecchi. Intanto, a partire dalla seconda metà degli anni ’70 si era già compiuta una vera e propria “rivoluzione” antropologica e culturale della mafia.

Quella che è morta e sepolta è la mafia più retriva e tradizionale, la mafia rurale messa sotto processo dalle inchieste di Falcone e Borsellino, eliminati dai sicari della cosca più sanguinaria, all’epoca vincente, i Corleonesi. Al contrario, oggi la mafia è più ricca e potente che mai, non è scomparsa solo perché non ammazza più usando le armi, terrorizzando la gente, compiendo stragi sanguinose per sopprimere fisicamente i suoi nemici, siano essi sindacalisti come Placido Rizzotto, attivisti politici come Peppino Impastato, giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La mafia siciliana evita di ammazzare perché si è in qualche modo “civilizzata” o, meglio, si è “mimetizzata”, in quanto non vuole più esporsi alle ritorsioni dello Stato, non intende più essere visibile per offrire l’impressione di non esistere più. Infatti, preferisce ripararsi dietro una facciata apparentemente più borghese e rispettabile. Ciò significa che Mafiopoli non esiste più? No. La mafia ha solo imparato a dissimularsi meglio. Essa continua ad agire indisturbata, meglio di prima. L’assetto di Mafiopoli si è aggiornato e riciclato in forme moderne e sofisticate. Persino la mafia più arcaica ha subito una mutazione antropologica, la stessa che Pasolini ha descritto a proposito dell’odierna civiltà edonista e consumista di massa. Dunque, la mafia si è ristrutturata per competere sul piano della “globalizzazione” capitalistica, divenendo una holding company, un’impresa finanziaria multinazionale. Insomma, la mafia è a capo di un Impero economico globale e rappresenta oggi la prima azienda del capitalismo italiano, una compagnia imprenditoriale che vanta il più ricco volume di affari del Bel Paese. La mafia è ormai una grossa società finanziaria che potremmo chiamare Mafia S.p.A., cioè una Società per Azioni. Ma si tratta di azioni criminali. Come criminale, marcio, o quantomeno immorale, è l’intero apparato capitalistico, le cui ricchezze sono di dubbia estrazione.

Non a caso scriveva Honoré de Balzac: “Dietro ogni grande fortuna economica si annida un crimine”. Questa citazione dotta serve a chiarire come l’origine e la natura della proprietà privata, del capitale, della rendita finanziaria, siano illecite e sospette, se non addirittura criminali, in quanto discendono da un atto originario di espropriazione violenta ed iniqua del reddito sociale, un processo di appropriazione e di accumulazione del surplus (ossia il plusvalore) creato dal lavoro collettivo, che si basa su meccanismi di rapina. La matrice reale del sistema capitalistico è di per sé violenta, criminale o perlomeno illecita e disonesta, e non c’è bisogno di scomodare Karl Marx per dimostrarlo. “Gli affari sono affari” è un motto che vale per tutti gli uomini d’affari, siano essi personaggi incensurati, approvati socialmente, siano essi figure losche, notoriamente riconosciute come criminali. Belve sanguinarie, delinquenti o meno, pregiudicati o incensurati, gli uomini d’affari sono sempre poco onesti, in molti casi astuti e crudeli, cinici e spregiudicati per necessità, indole o vocazione individuale. Del resto, le associazioni di stampo mafioso non sono altro che imprese economiche criminali che perseguono le stesse finalità delle aziende capitalistiche “normali”, incensurate e rispettabili, vale a dire la massimizzazione dei profitti economici. La mafia è, in sostanza, un’organizzazione imprenditoriale che esercita i suoi affari e le sue attività delittuose con un obiettivo primario: la ricerca del massimo utile. Per raggiungere il quale è disposta a corrompere, a minacciare, a servirsi dei mezzi più disonesti e detestabili, a ricorrere al delitto più atroce ed efferato. Per vincere la competizione delle società rivali essa è pronta a ricattare e ad eliminare fisicamente i suoi avversari. Parimenti ad altri gruppi imprenditoriali come, ad esempio, le grandi compagnie multinazionali nordamericane che uccidono gli attivisti politici e sindacali che, in America Latina o in Africa, si oppongono all’ingerenza imperialistica occidentale.

Il delitto, l’ignominia, il cinismo, l’ipocrisia, la sopraffazione, si iscrivono nella natura più intima dell’economia capitalistica, che è abietta e bestiale ed è una componente strutturale intrinseca ad un ordine retto sul “libero mercato”, sulle sperequazioni materiali, sul degrado morale e sulle ingiustizie sociali che ne derivano. La spregevole logica “mafiosa” è insita nella struttura stessa del sistema affaristico dominante in ogni angolo del pianeta, ovunque riesca ad insinuarsi l’economia di mercato e l’impresa neocapitalista con i suoi misfatti. Ciò che eventualmente può variare è solo il differente grado di “mafiosità”, cioè di irrazionalità, criminalità ed aggressività terroristica dell’imprenditoria capitalista. C’è chi sopprime fisicamente i propri avversari, come nel caso di tante “onorate” e famigerate società riconosciute come criminali, mentre c’è chi ricorre a sistemi meno rozzi, più raffinati ma altrettanto spregiudicati e pericolosi.

Infine vorrei proporre un ragionamento sull’“omertà sociale”, che è la tacita complicità con chi delinque. Anzitutto suggerisco una definizione presa da un comune dizionario: “l’omertà è la solidarietà col reo, è l’atteggiamento di ostinato silenzio teso a coprire reati di cui si viene direttamente o indirettamente a conoscenza”. Il termine “omertà” è comunque di origine incerta, riconducibile probabilmente all’etimo latino “humilitas”, successivamente modificato in “umirtà”. Da questa antica fonte vernacolare potrebbe scaturire l’odierna voce “omertà”. Nel gergo mafioso chiunque infranga il codice dell’omertà, ovvero tenti di far luce su una verità, viene disprezzato e additato come “infame” o “presuntuoso”. L’infausta catena omertosa si configura come una delle basi su cui si erge il potere mafioso. Per estensione il codice omertoso si impone ovunque sia egemone una realtà mafiosa, nell’accezione di un potere costrittivo e terroristico. Per cui la frase che esprime meglio l’omertà sociale è “Non vedo, non sento, non parlo”.

Dunque, l’uso intelligente e raffinato del linguaggio, se necessario urlato, può servire a tradurre verbalmente un gesto di rivolta contro il silenzio dell’omertà, della complicità mafiosa e della complicità con il crimine economico e politico in genere, e può ispirare un modello educativo basato su codici di comportamento non oscurantistici, più aperti, democratici e pluralistici. In tal senso occorre avvalersi del potere e della priorità della parola, intesa ed esercitata non solo come veicolo di comunicazione espressiva e creativa, ma anche come metodo di critica e denuncia della realtà delittuosa, come strumento di interpretazione e trasformazione del mondo esistente, che non è l’unico possibile. Il linguaggio contiene in sé la forza che serve a modificare lo stato di cose presenti, a migliorare le circostanze della nostra vita, a deviare il “corso del destino”. In potenza, la parola può servire a spezzare le catene dell’ignoranza, dell’indifferenza e dell’ipocrisia sociali derivanti dal codice omertoso. Antonio Gramsci scriveva che “la verità è sempre rivoluzionaria”. In effetti il linguaggio della verità è profondamente eversivo e giova alla causa della libertà e della giustizia sociale, rompendo o rettificando pratiche e comportamenti che ci opprimono e ci indignano. La parola, in quanto testimonianza di un altro modo di intendere e costruire i rapporti interpersonali, improntati ai principi della solidarietà, della libertà, della giustizia e della convivenza democratica, è una modalità eversiva rispetto all’ordine oppressivo ed omertoso imposto dalla mafia e, per estensione, dalla criminalità economica. L’uso del “verbo della verità” rinviene in tal modo un senso politico concreto e riesce ad acquisire vigore e consapevolezza nella misura in cui serve a violare il potere coercitivo della malavita organizzata, del ladrocinio e dell’affarismo economico in generale, provando a vincere la mentalità mafiosa, delittuosa ed affaristica che pervade e corrompe la società civile.




Sabato 26 Gennaio,2013 Ore: 10:10
 
 
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