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www.ildialogo.org QUESTO NON E’ UN PAESE IN DECLINO,di Daniela Zini

QUESTO NON E’ UN PAESE IN DECLINO

di Daniela Zini

Cesario, in Un’ammonizione a coloro che fanno frequentemente l’elemosina, ma continuano ogni giorno a commettere furti e adulterio, osserva che il diavolo ha insegnato loro che “quantunque commettano peccati, ogni giorno, essi credono di potersi riscattare facendo, ogni giorno, elemosine. Essi immaginano che Dio, seguendo il costume dei giudici corrotti, accetti il denaro e dimentichi i loro peccati”.
E, in Sul fare l’elemosina e sulla misericordia divina alla quale giungiamo attraverso la misericordia sulla terra, ammonisce:
 
“Un uomo che sa che dovrà difendere la propria causa davanti a un giudice terreno, dilettissimo, cercherà degli utili sostenitori e degli avvocati esperti. In questo modo si prepara un uomo quando si appresta a difendere la propria causa davanti a un giudice che egli può circonvenire, sorprendere, ingannare o distogliere dalla giustizia con argomenti eloquenti, forse, con doni corrotti, o pervertire con false lodi e false argomentazioni.”
 
È in vendita la società?
E a noi resta solo la scelta tra lo stupido onesto e il furbo corrotto?
La corruzione, pur generalmente temuta, non è universale.
Il concetto di corruzione è universale.
Vi sono uomini di legge, burocrati e politici che lottano per far funzionare la giustizia.
Le leggi non testimoniano una realtà sociale, ma una coscienza sociale.
Le leggi dello Stato testimoniano la persistente convinzione, l’incrollabile speranza che esistano giudici giusti.
La loro esistenza è il predicato di tutte le leggi.
Altrimenti chi le applicherebbe?
E giudici giusti esistono.
La impressione che il denaro possa prevalere sulla corte di giustizia macchia il sistema.
Il sistema funziona e, talvolta, viene fatta giustizia, perché non sempre il denaro ha la meglio.
Il desiderio di condanna della corruzione non deve essere né una paranoica caccia alle streghe, né una fobia puritana, ma la ricerca, da parte del cittadino, dell’integrità nella carica.
Indipendentemente dall’epoca storica, la corruzione lacera il fragile tessuto della fiducia e dell’onestà che, in qualche modo, riesce a tenerci tutti uniti.
La società umana si fonda sullo scambio di favori grandi e piccoli. Premiamo i bambini per buona condotta e, talvolta, promettiamo sacrifici al buon Dio per la salvezza eterna.
Diamo per avere.
Perché legge, politica, governo dovrebbero essere diversi?
Essi sono diversi, essi devono essere diversi. 
  
Gli italiani hanno mai veramente appreso la lezione politica di Niccolò Machiavelli (1469-1527)?
Basta una considerazione sommaria delle nostre attuali vicende interne, dei rapporti tra Stato e cittadini, della perniciosa influenza di ideologie e astrazioni sul modo di governare la res publica, per concludere che no, la lezione non l’hanno mai appresa.
Forse, Machiavelli è troppo lontano, nel tempo, dai moderni concetti di democrazia, di sovranità popolare, perché si possa attualizzare la sua esperienza?
Sembra vero, piuttosto, il contrario.
Nel grande scrittore fiorentino vi sono già, anticipati, molti dei motivi di maggiore evidenza del mondo politico contemporaneo.
La sua strenua difesa delle milizie cittadine – e non importa se all’atto pratico le suemilizie facciano cattiva prova nella difesa di Firenze – non prefigura, forse, gli eserciti di liberazione, di formazione popolare, che abbiamo visto operare in Europa, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, e vediamo, ancora, operare in Africa e in Asia?
E sentite come descrive, quasi presagendola, la moderna guerriglia.
 
“(…) Debbe per tanto mai levare el pensiero da questo esercizio della guerra, e nella pace vi si debbe più esercitare che nella guerra: il che può fare in dua modi; l'uno con le opere, l'altro con la mente. E, quanto alle opere, oltre al tenere bene ordinati et esercitati li sua, debbe stare sempre in sulle caccie, e mediante quelle assuefare el corpo a' disagi; e parte imparare la natura de' siti, e conoscere come surgono è monti, come imboccano le valle, come iacciono è piani, et intendere la natura de' fiumi e de' paduli, et in questo porre grandissima cura. La quale cognizione è utile in dua modi. Prima, s'impara a conoscere el suo paese, e può meglio intendere le difese di esso; di poi, mediante la cognizione e pratica di quelli siti, con facilità comprendere ogni altro sito che di nuovo li sia necessario speculare: perché li poggi, le valli, è piani, è fiumi, è paduli che sono, verbigrazia, in Toscana, hanno con quelli dell'altre provincie certa similitudine: tal che dalla cognizione del sito di una provincia si può facilmente venire alla cognizione dell'altre. E quel principe che manca di questa perizie, manca della prima parte che vuole avere uno capitano; perché questa insegna trovare el nimico, pigliare li alloggiamenti, condurre li eserciti, ordinare le giornate, campeggiare le terre con tuo vantaggio. (…)”
Niccolò Machiavelli, Il Principe, Capitolo XIV
Il generale vietnamita Võ Nguyên Giap non avrebbe potuto esprimersi meglio.
Quanto a noi italiani, se volessimo trovare, nella nostra storia, un uomo politico che più si avvicini al Principe, non vi sarebbe che Camillo Benso conte di Cavour, per la chiara e realistica visione dei problemi e delle circostanze entro i quali plasmò, faticosamente, l’unità d’Italia. A lui, se usasse assegnare premi ai politici, come agli scrittori e agli artisti, andrebbe bene un Premio Niccolò Machiavelli.
Non invece a Benito Mussolini, il quale, incline alle facili e superficiali assimilazioni, ebbe di certo la presunzione di incarnare il “Principe”, ma di questo non seppe adottare che gli aspetti esteriori, le forme. Pur favorito dalle circostanze storiche, gli mancò quella che messer Niccolò considerava la virtù, per eccellenza, dell’uomo di Stato, l’intelligenza, che è adattabilità e insieme risolutezza, conoscenza delle circostanze e capacità di imporsi a esse. Basti considerare il modo in cui Mussolini si fece trascinare da Adolf Hitler nelle decisioni che portarono allo scatenamento della guerra, per comprendere che non ebbe mai vera natura di principe. Gliene mancò, per l’appunto, l’intelligenza delle cose e degli uomini.  
 
 “(…) Ma, restringendomi più a' particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare, e domani ruinare, sanza averli veduto mutare natura o qualità alcuna: il che credo che nasca, prima, dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto discorse, cioè che quel principe che s'appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo, ancora, che sia felice quello che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de' tempi; e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e' tempi. Perché si vede li uomini, nelle cose che li 'nducano al fine, quale ciascuno ha innanzi, cioè glorie e ricchezze, procedervi variamente: l'uno con respetto, l'altro con impeto; l'uno per violenzia, l'altro con arte; l'uno per pazienzia, l'altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. Vedesi ancora dua respettivi, l'uno pervenire al suo disegno, l'altro no; e similmente dua egualmente felicitare con dua diversi studii, sendo l'uno respettivo e l'altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non dalla qualità de' tempi, che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscano el medesimo effetto; e dua egualmente operando, l'uno si conduce al suo fine, e l'altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene: perché, se uno che si governa con respetti e pazienzia, e' tempi e le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e' viene felicitando; ma, se e' tempi e le cose si mutano, rovina, perché non muta modo di procedere. Né si truova uomo sí prudente che si sappi accomodare a questo; sí perché non si può deviare da quello a che la natura l'inclina; sí etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella. E però lo uomo respettivo, quando elli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare; donde rovina: ché, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna. (…)”
Niccolò Machiavelli, Il Principe, Capitolo XXV
 
Ma, parlando di Machiavelli, occorre, subito, sbarazzare il campo dall’equivoco che abbia nutrito una particolare predilezione per il principe, per il tiranno, per quello che, oggi, si definirebbe l’uomo della provvidenza.
Niente di più falso.
Machiavelli è un pragmatico, un osservatore, uno studioso di fatti e di uomini, in una parola, uno scienziato della politica.
Uomo del Rinascimento, cresciuto nel culto di Tito Livio e di Plutarco, nutre una predilezione per la Roma repubblicana e condanna Cesare come distruttore della libertà. Ciò non gli impedisce, tuttavia, di dettare norme quali:
 
“(…) E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo. (…)”
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro Terzo, Capitolo III
L’errore è di vedere nel machiavellismo una filosofia della crudeltà e dell’inganno politico, che il grande fiorentino non si è mai sognato di formulare. Niente è più estraneo a lui dell’idea di filosofeggiare. Quando si assume il celebre motto “il fine giustifica i mezzi” come sintesi suprema del pensiero di Machiavelli si commette lo stesso errore di Ugo Foscolo – perdonabile questo perché altamente poetico –, che ci presenta Machiavelli nell’atto di sfrondare lo scettro ai regnatori per mostrarci “di che lacrime grondi e di che sangue”(Ugo Foscolo,Dei Sepolcri).
Machiavelli non è né un cinico esaltatore del potere, né un precettista.
Machiavelli è al di là di tutto e di tutti.
È una lente conficcata nella coscienza dell’uomo che illumina e scruta.
La sua analisi dell’uomo è impietosa, spregiudicata, gelida, tecnica. Così la sua concezione del mondo:
“(…) Io ho sentito dire, che la istoria è la maestra delle azioni nostre, e massime de' principi, e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini, che hanno avuto sempre le medesime passioni, e sempre fu chi serve e chi comanda, e chi serve mal volentieri, e chi serve volentieri, e chi si ribella ed è ripreso. (…)”
Niccolò Machiavelli, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati
Gli uomini sono naturalmente cattivi, egoisti, ribelli, antisociali.
È la legge che crea i buoni costumi.
Le cose che Machiavelli enuncia cinque secoli fa urtano e demoliscono le illusioni del suo tempo, tipiche, come scrive Francesco De Sanctis, di una “società al tramonto”. Ma le illusioni rinascono con il tempo, perché la natura umana preferisce immaginarsi, piuttosto che guardarsi allo specchio. Le illusioni dell’Umanesimo rinascono nell’Illuminismo e, poi, nel Romanticismo, e, poi, nel Socialismo, e, infine, nell’Umanitarismo, che tutte le comprende. Al di sopra di queste grandi utopie vi sono due stermini mondiali, in soli trenta anni, rispetto ai quali la strage compiuta da Cesare Borgia nella città di Sinigaglia appare poco più che un casalingo regolamento di conti.
In Machiavelli, la guerra è il tema dominante.
Non scorge né uomini, né regimi, né idee capaci di stabilire un duraturo dominio della virtù e della ragione.
E Machiavelli uomo?
Lo vediamo, nel ritratto di lui a Palazzo Vecchio, avvolto nei panni curiali del segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina, serio, il volto affilato, curiosamente ambiguo, tra arguzia e mestizia, come perduto in una simbolica solitudine. Non è nato in una società opulenta, tutt’altro. Gli splendori e le ricchezze della Firenze medicea non sono per lui.
“(…) Et quanto al volgere il viso alla Fortuna, voglio che habbiate di questi miei affanni questo piacere, che gli ho portati tanto francamente, che io stesso me ne voglio bene, et parmi essere da più che non credetti; et se parrà a questi patroni nostri non mi lasciare in terra, io l'harò caro, et crederrò portarmi in modo che gli haranno ancora loro cagione di haverlo per bene; quando e' non paia, io mi viverò come io ci venni, che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere. (…)”
Niccolò Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori, Firenze, 18 marzo 1513
Giovanissimo coltiva gli studi sui pochi libri paterni, mentre Firenze è dilaniata dalle congiure e sulle sue piazze si bruciano i grandi eretici.
Nell’anno 1498, non ancora trentenne, assume la carica pubblica, che conserva per quattordici anni. È il periodo felice e pieno della sua vita. Conduce missioni diplomatiche in Italia, in Francia e in Germania, instancabile, ogni giorno a cavallo, con qualsiasi tempo, entusiasta del contatto con gli uomini, infaticabile scrittore di lettere di governo – ne scrive diecimila – di tempra forte, amatore della buona tavola e delle donne piacenti, affettuoso, anche se distratto, marito e padre, onesto fino all’osso nel maneggio del denaro pubblico.
Un uomo cui affidare, oggi, il governo, se i partiti, adesso come cinque secoli fa, non fossero là, appositamente, per impedire agli uomini giusti di occupare i posti giusti.
E, infatti, caduta la repubblica di Sederini, restaurata la Signoria dei Medici, Machiavelli viene messo in disparte.
Invano, implora che gli restituiscano un lavoro quale che sia, fosse pure “voltolare un sasso”.
Nell’inerzia forzata nascono i capolavori: Il Principe, steso in pochi mesi, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, le Istorie fiorentine, La Mandragola. Nell’esilio non coatto di San Casciano, tra gente rozza, angustiato dalle strettezze economiche, messer Niccolò passa le giornate nelle osterie a giocare a tric e trac, una specie di morra, con i barrocciai. Ma, la sera, torna nella sua stanza di studioso e, rivestiti gli aulici paludamenti, entra in comunicazione con i grandi del passato e tutto dimentica.
“(…) Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandargli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo de Principatibus. (…)”
Niccolò Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513
Sogna, sempre, il ritorno alla politica, ma neppure la repubblica che rinasce, dopo la cacciata dei Medici, nel 1527, lo reintegra nel suo ruolo. Il posto di segretario è occupato da un mediocre e oscuro Francesco Turigi, il cui nome resterà nella storia, solo in grazia di questa usurpazione. Niccolò Machiavelli muore, quello stesso anno, di un non bene identificato malanno al ventre, aggravato, sembra, dall’abuso di certe pillole.
Dal momento in cui il grande fiorentino scompare dalla scena del mondo, inizia a formarsi la leggenda falsa del machiavellismo.
La Chiesa ne condanna le opere né, a parte ogni errore di interpretazione, poteva essere altrimenti.
Rimane, di fronte alla cultura del suo tempo, come lo spirito laico della verità, il demolitore dei miti e delle menzogne, dunque, l’incarnazione del male.
Daniela Zini
Copyright © 28 gennaio 2011 ADZ


Sabato 29 Gennaio,2011 Ore: 12:55
 
 
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