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www.ildialogo.org «Bisogna saper contestualizzare»,di Piero Stefani

Una riflessione
«Bisogna saper contestualizzare»

di Piero Stefani

Remoti ricordi di infanzia fanno riaffiorare gli esempi catechistici di un tempo. Un padre spirituale impone a una persona la singolare penitenza di andare per le strade della città spennando un pollo; svolta l’incombenza si sarebbe poi dovuto ripresentare al confessore. Adempiuto il compito, al penitente viene impartito l’ordine di ritornare sui propri passi e di raccogliere le penne. «Ma perché, padre, mi dà questo compito impossibile?» «Per farti capire quanto è stata grave la colpa da te commessa». Facile comprendere che si trattava di calunnia.
Questo apologo visivo della celebre aria del Barbiere rossiniano dice poco nell’Italia di oggi. Il motivo è semplice: nel nostro paese ormai ci sono solo penne senza polli. Il disperdersi per l’etere di immagini e parole è la realtà stessa. La produzione di dossier coincide con la costruzione stessa del reale. Non importa quasi nulla se, alla fine, essi siano risultati non corrispondenti ai fatti. Quando lo scopo è raggiunto il diffondersi della notizia è la cosa stessa. Boffo e Marrazzo lo testimoniano. Il processo è fantasmatico solo se si esaurisce senza conseguire la meta. È il caso delle «dieci domande» sui rapporti tra il presidente del consiglio e la giovane Noemi martellate per mesi da Repubblica, finite per puro esaurimento; per smontare la campagna di stampa è bastato che il bersaglio si dichiarasse un uomo (maschio) e non un santo.
Lo sparpaglio delle penne si moltiplica in modo direttamente proporzionale alla capacità di catturarle. Nel mondo fisico se si blocca una piuma essa cessa di volare; in quello mediatico è vero il contrario, se si cattura un’immagine - compito al giorno d’oggi alla portata di quasi ogni tasca (in senso fisico non metaforico del termine) – la si consegna a una circolazione potenzialmente infinita. Tuttavia occorre sempre la decisione di dare il là alla circolazione: bisogna attendere il momento opportuno. Per questa via, ora, abbiamo appreso che il nostro premier è anche un faceto bestemmiatore. L’impresa non è recente; solo in queste ultimi tempi, però, è sembrato essere giunto il momento propizio per metterla in circolazione e per lucrarci sopra.
Il punto di massimo disdoro della faccenda lo si è toccato quando si è tentato di giustificare la bestemmia dicendo, in pratica, che si trattava solo di una barzelletta. L’Osservatore romano e l’Avvenire hanno bollato Berlusconi; tuttavia mons. Fisichella, da poco nominato presidente del neonato Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, interrogato dai giornalisti dichiara: «Bisogna sempre in questi momenti saper contestualizzare le cose». Operazione, peraltro, già brillantemente compiuta dallo stesso prelato nel giustificare la comunione impartita a Silvio Berlusconi nel corso dei funerali di Raimondo Vianello: dopo la separazione, l’ex marito di Veronica Lario non è più additabile come pubblico peccatore. Inutile aggiungere che non si è registrata alcuna pubblica sconfessione delle dichiarazioni del monsignore, fatto che rende l’intera gerarchia cattolica oggettivamente corresponsabile di quelle parole.
In effetti, l’atto di appellarsi al contesto, lungi dall’attenuare, rende più grave l’episodio. Non va scordato che la barzelletta si giustifica solo in base al riferimento di partenza diretto all’on. Rosy Bindi. In questo caso non si trattava tanto di un avversario politico, quanto di una persona che si presentava come le negazione vivente dell’immagine femminile impressa nella mente (malata) di Berlusconi. Senza la presenza di questa «antivelina» per eccellenza non sarebbe mai scattato il meccanismo. La battuta sull’orchidea poteva funzionare solo collocando Bindi, in virtù del suo aspetto e del suo animo, alla sfera delle vecchie bigotte. Si tratta di caratteristiche sufficienti per convincersi che, se, per caso, l’onorevole avesse fatto parte della maggioranza, a Rosy Bindi non sarebbe mai stato assegnato un incarico ministeriale appannaggio di Carfagna e di Brambilla. A essere banalizzato a livello di barzelletta è innanzitutto l’immagine di cattolici impegnati a cui la gerarchia, a parole, sembra tenere tanto. Va da sé che Fisichella non ha colto questo aspetto solo perché Bindi si colloca in quella che, a suo parere, è la parte sbagliata dello schieramento.
E Dio in tutto ciò? Il difensore dei principi non negoziabili, può tranquillamente relativizzare una bestemmia. Espressione ingiustificabile se scagliata con ira, il detto blasfemo viene tollerato se collocato in un contesto apparentemente frivolo, ma in realtà grondante di greve maschilismo. Si tratta di uno specchio in cui si riflette l’immagine stessa di chi ha espresso questo parere: in Italia l’attuale cattolicesimo ufficiale non è degno di finire in tragedia, il suo destino sarà una crescente insignificanza raggiunta per via di banalizzazione.
Per cogliere da una parte e dall’altra lo spessore della bestemmia bisogna credere in Dio. Allora la protesta estrema e violenta è provocatoria; allora la persona di fede è turbata nell’oggetto del suo amore. I tempi del dantesco Capaneo (Inferno XIV, 43-72) e persino di Vanni Fucci (Inferno XXV, 1-3) sono passati da un pezzo. Anche la bestemmia si è estenuata, prima in un intercalare sempre meno iroso e poi in barzellette che non avrebbero neppure la forza di mordere se non ci fosse qualcuno, dall’aspetto preferibilmente dimesso, che afferma ancora, pubblicamente, di credere in Dio.
Rosy Bindi ha dichiarato: «Fin da piccola mi hanno insegnato a non pronunciare il nome del Signore invano. È una profonda, intima convinzione della mia fede, un segno di rispetto verso me stessa e gli altri e una regola di buona educazione». Parole di indubbia sincerità. Esse però rivelano, indirettamente, l’insufficienza della tradizione catechistica lungo la quale è stato trasmesso il messaggio evangelico. Ricavare la proibizione della bestemmia dal comandamento che comanda «non pronunciare il nome del Signore invano» (Es 20, 7) è un’affermazione talmente radicata da non riuscire più a scorgere quanto la formulazione sia impropria: la bestemmia sarebbe forse un pronunciare invano (vale a dire secondo l’etimo «a vuoto»- e ciò vale anche per l’ebraico la-shawe’) il nome del Signore? L’offesa e l’insulto cadono in un altro ambito. Ha forse qualche senso sostenere che la bestemmia è un modo improprio di pronunziare il nome del Signore? Il senso autentico del comandamento riguarda altre dimensioni, in primis la sfera del giuramento. In realtà, il messaggio sarebbe stato trasmesso in maniera più propria se, nella formazione dei credenti, si fosse puntato più sull’aspetto positivo della «santificazione del nome» che su quello delle proibizioni. Non è azzardato trovare nell’antica scelta che ha cercato di educare soprattutto attraverso divieti, l’inizio di un cammino discendente che oggi ha reso barzelletta persino la bestemmia.
Piero Stefani

Articolo tratto da:

FORUM Koinonia 231 (20 ottobre 2010)

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Mercoledì 20 Ottobre,2010 Ore: 15:55
 
 
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