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www.ildialogo.org LAVORO E COSTITUZIONE IERI E OGGI, UNA DISTANZA PERICOLOSA.,

LAVORO E COSTITUZIONE IERI E OGGI, UNA DISTANZA PERICOLOSA.

(Comunicazione di Leo Ceglia al Congresso della FLAI CGIL di Como il 12 febbraio 2010.)


La comunicazione che segue vuole essere una breve ricostruzione dell’andamento e dello stato di realizzazione delle previsioni che la nostra Costituzione riserva al mondo del lavoro.
E’ nostra convinzione infatti che la storia del nostro Paese dalla fine del fascismo ad oggi possa essere indagata anche da questo punto di vista particolare e partigiano, quello cioè che valuta il suo progresso sociale economico e democratico ( o viceversa la sua regressione) in base alla distanza che separa le norme costituzionali dedicate al lavoro dalla loro realizzazione.
Chi vi parla è un iscritto alla CGIL e questa organizzazione ha nel suo Statuto che:
         “ (la CGIL) basa i propri programmi e le proprie azioni sui dettati della Costituzione della Repubblica e ne propugna la piena attuazione”.
 
La CGIL dal dopoguerra agisce dunque per la “piena attuazione dei dettati della Costituzione” e naturalmente rivolge una particolare attenzione a quelli che riguardano il lavoro.
In quel che segue si cercherà di mostrare come a leggere le vicende storiche, ma anche la cronaca quotidiana, con “occhiali costituzionali”, si ha solo da guadagnarne in chiarezza e consapevolezza, della nostra storia e anche del valore della militanza sindacale di ciascuno di noi.
Prima di addentrarci nel tema specifico della comunicazione è utile richiamare rapidissimamente alcuni temi generali che riguardano tutte le costituzioni.
1. L’ORIGINE DEL COSTITUZIONALISMO E I SUOI CARATTERI FONDATIVI.
 
Le prime costituzioni come è noto appaiono verso la fine del settecento a ridosso di avvenimenti rivoluzionari.
La prima è quella americana del 1776. La famosissima “Dichiarazione di indipendenza” esordiva così:
         “Noi riteniamo incontestabili ed evidenti per se stesse le seguenti verità: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi diritti sono, in primo luogo, la vita, la libertà e la ricerca della felicità.”.
 
La seconda è quella francese del 1789. La altrettanto famosa “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del Cittadino” esordiva così:
         “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti.”
 
Sia quella americana che quella francese hanno in comune alcune parole chiave riferite a tutti gli uomini ( il termine è da intendere in senso generale, uomini e donne e ovunque nel mondo): esse sono LIBERTA’, UGUAGLIANZA, DIRITTI.
Il bisogno di scrivere quelle parole è evidentemente scaturito dalla situazione storica di quel tempo e di quei luoghi.
Vi era a quel tempo un potere statuale ( monarchico o imperiale ) che non riconosceva alcun diritto, nessuna libertà, nessuna uguaglianza. Era il tempo del potere assoluto dei sovrani di turno sui popoli ridotti a sudditi, un potere senza limiti, esercitato con le “forme-stato” che gli stessi sovrani sceglievano e modellavano a loro piacimento.
Quelle Costituzioni scrivono per la prima volta che tutti gli uomini, in ogni luogo da quel momento e nei tempi a venire, non devono più sottostare a forme assolutistiche di potere.
In quelle Costituzioni e in quelle a venire il potere, qualsiasi potere, viene così messo sotto controllo, viene limitato. Esso continuerà ad esserci e a funzionare nelle forme statuali e di governo che la storia deciderà, ma non dovrà più essere assoluto.
E’questo il carattere distintivo e storicamente rivoluzionario dell’era costituzionalista degli stati moderni, quello cioè di stabilire con una legge, quella fondamentale, che il potere ha dei limiti imposti dalla legge stessa.
Sapete tutti che i poteri fondamentali degli stati sono 3: quello legislativo, quello esecutivo, quello giudiziario.
Fino a prima delle costituzioni quei 3 poteri facevano capo ad una sola persona (il monarca, l’imperatore, il despota di turno).
I costituenti francesi e americani del tempo vollero separarli e bilanciarli.
In ciò fecero proprie le idee di due grandi filosofi liberali. Si tratta dell’inglese John Locke (1632-1704) e del francese Charles Luis Montesquieu (1689-1755).
A quest’ultimo si deve la teoria della cosiddetta “separazione dei poteri”.
Grazie alle sue idee nella citata “ Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” si poteva leggere all’art.16:
         “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione”.
 
A Locke si deve invece l’idea del primato del potere legislativo su quello esecutivo a garanzia delle libertà delle istituzioni rappresentative , idea altrettanto importante a parere di chi vi parla, ma che ha avuto meno fortuna di quella di Montesquieu.
Con le Costituzioni americana e francese si apre la stagione costituzionalista che nei due secoli successivi coinvolgerà gran parte degli stati europei e, pian pianino, di quelli del resto del mondo, anche se mancano ancora decine di stati all’appello. Resteranno le monarchie, ma i sovrani “regneranno senza governare”, come si dice in formula. Le forme di governo saranno le più varie, ma tutte saranno attentissime alla separazione dei poteri e al bilanciamento tra essi. Nella cultura anglosassone un detto popolare riassume bene la situazione: “il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto”.
Così tre parti fondamentali sono comuni a tutte le Costituzioni. Una parte tratterà dei principi fondamentali e rimanderà anzitutto ai diritti individuali a cominciare da quello principalissimo del diritto alla vita. Un’altra parte riguarderà non solo i diritti ma anche i doveri reciproci tra l’individuo, nella sua dimensione anche collettiva e lo Stato in cui vive. Un’ultima parte riguarderà gli organi dello Stato e i loro poteri separati e bilanciati e dunque le loro funzioni e i loro rapporti.
Per finire su questa panoramica generale occorre solo dire che nel secolo scorso la cosiddetta “questione sociale” ha avuto un largo riconoscimento nelle nuove Costituzioni a cominciare da quella tedesca del 1919 all’indomani della I Guerra mondiale. E’ così che anche i diritti del mondo del lavoro hanno cominciato a fare capolino nelle Costituzioni.
Noi dovemmo aspettare il 1948 per vedere riconosciuta la “questione sociale” nella nuova Costituzione. In quella precedente, il cosiddetto “Statuto Albertino” del 1848 del Regno di Piemonte e Sardegna, poi ereditata dallo Stato italiano dopo l’unità d’Italia, la parola lavoro non compariva neppure una volta.
Ora possiamo occuparci del nostro tema specifico.
 2.”L’ITALIA E’ UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA, FONDATA SUL LAVORO”
 
E’ il primo comma dell’articolo 1 della nostra Costituzione. Lo conoscete tutti.
Fu approvato nel testo definitivo della Costituzione il 22 dicembre 1947 ( in vigore dal 1 gennaio 1948) con 453 voti favorevoli (l’88%), 62 contrari, nessun astenuto su 515 presenti e votanti alla Assemblea Costituente.
Costituente che iniziò i suoi lavori all’indomani del 2 giugno 1946 quando l’Italia fece la scelta repubblicana e mise fine alla monarchia.
I Padri costituenti, nella loro stragrande maggioranza, attribuivano un significato preciso a quelle 9 parole del primo comma del primo articolo.
Tutti concordavano sul fatto che la Repubblica, cioè lo Stato, attribuiva al lavoro un ruolo centrale, una sorta di primato, un riferimento essenziale che doveva guidare la sua attività. Il lavoro è il “fondamento della Repubblica” scrissero. Che cosa stava a significare ?
In molti, studiosi e non studiosi hanno fatto notare che c’era qualcosa di particolare in quell’inizio della nostra Costituzione per come si guardava al lavoro. Nessuna altra Costituzione esordiva così. Non avevano tutti i torti.
Nella nostra Costituzione il lavoro e il suo valore hanno in effetti un posto particolare. La nostra Costituzione riconosce, come tutte le altre, i diritti di libertà e di uguaglianza dei cittadini ma scrive che essi per essere effettivamente esercitati presuppongono “condizioni materiali” idonee al loro esercizio. Come dire che uno che “muore di fame” non sa che farsene dei diritti di libertà perché per lui essi sono negati in radice.
Per questo la nostra Costituzione dice che lo Stato deve provvedere preliminarmente a “togliere dalla fame” i cittadini affinchè essi possano godere pienamente dei diritti di libertà. E qual è il modo migliore per mettere i cittadini nella condizione di non patire la fame? Il modo migliore è quello di provvedere a che essi abbiano un lavoro.
Per questo il primo comma dell’articolo 4 dice:
         “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.”
C’è un’altra cosa che distingue la nostra Costituzione da tutte le altre nel mondo occidentale, quella di riconoscere implicitamente l’esistenza della “classe dei lavoratori” come classe sociale distinta dalle altre.
Questa non è una lettura “vetero-marxista”. Questa è l’unica chiave di lettura che permette di decifrare e intendere i molti articoli della Costituzione dedicati ai “lavoratori”, come vedremo.
I lavori della Commissione Costituente che formulò il primo articolo ne sono testimonianza diretta e merita ricordare in proposito sia il contesto che l’autore di quella formulazione.
Fu il democristiano Amintore Fanfani a trovare quelle parole, dopo una discussione lunga e accesa per cassare la formulazione che veniva invece proposta dai comunisti: questi proponevano: L’Italia è una Repubblica di lavoratori” .
La proposta fu bocciata (per pochi voti!) perché si temeva da un lato di attribuire ai lavoratori la preminenza su tutte le altre classi sociali, dall’altro che lo Stato si fondasse su una sola classe.
E quando Aldo Moro (coautore insieme a Fanfani di quella formulazione) intervenne in aula disse che doveva essere impegno del nuovo Stato repubblicano: “ di proporsi e di risolvere nel modo migliore possibile questo grande problema, di immettere sempre più pienamente nell’organizzazione sociale, politica ed economica del Paese quelle classi lavoratrici, le quali, per un complesso di ragioni, furono più a lungo estromesse dalla vita dello Stato”.
 
Parole inequivocabili quelle di Moro. Con quel primo articolo si voleva sancire l’ingresso nella vita dello Stato delle “classi lavoratrici” che era come dire che la classe lavoratrice entrava a pieno titolo tra le classi dirigenti del Paese.
Lo diciamo per i più giovani, sia Moro che Fanfani erano democristiani.
Ugualmente importante è chiederci perché le classi lavoratrici divennero in quegli anni CLASSE DIRIGENTE DEL PAESE. Ciò avvenne per almeno due ragioni.
La prima rimanda agli scioperi del 1943 e 1944.
Con gli scioperi del 1943 e del 1944 i sindacati italiani mostrarono la loro forza e rappresentatività non solo in Italia ma al mondo intero. L’eco degli scioperi fu fortissimo tra gli alleati, e non ebbe paragoni in altri paesi. Chi scioperava rischiava la deportazione nei lager nazisti ( e molti furono in effetti deportati), ma a scioperare furono ugualmente centinaia di migliaia di lavoratori.
Quegli scioperi segnarono l’inizio della fine del regime fascista e posero le basi materiali e di massa della Resistenza.
La seconda ragione rimanda al cosiddetto “Patto di Roma” e al suo significato storico e politico.
Esso fu sottoscritto il 9 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio, Achille Grandi, Emilio Canevari, (quest’ultimo in sostituzione di Bruno Buozzi ucciso qualche giorno prima, il 4 giugno, dai nazisti), e diede vita al sindacato unitario (la CGIdL -confederazione generale italiana del lavoro), rimasto tale fino al luglio 1948.
La portata storica e politica del Patto di Roma sta nel fatto che esso rese fecondo l’incontro particolare e specialissimo tra le tre grandi e storiche correnti culturali del nostro paese : quella liberale, quella cattolica e democratico cristiana, quella socialista e comunista.
Questo incontro trovò esatta corrispondenza tra le tre correnti sindacali e l’insieme dei partiti antifascisti.
I partiti antifascisti infatti (quello comunista, quello democristiano, quello socialista , il Partito d’Azione, quello liberale, quello repubblicano, il partito democratico del lavoro) erano tutti riconducibili alle tre correnti culturali di cui sopra, esattamente come le correnti sindacali storicamente affermatesi nella prima metà del secolo. L’alleanza culturale e politica tra sindacato unitario e partiti antifascisti fu letteralmente decisivo per le sorti del Paese.
I partiti antifascisti, appena usciti dalla clandestinità o costituiti ex novo dovevano ancora dimostrare il loro peso e la loro forza. Essi ebbero subito come interlocutori gli alleati, il Re Vittorio Emanuele III, il Vaticano, gli industriali ecc. che non di rado faticavano a riconoscere la loro effettiva rappresentatività e unità di vedute. In effetti non tutti i partiti concordavano, ad esempio, sulla forma stato ( se monarchia o Repubblica) da adottare alla fine della guerra.
I partiti antifascisti inoltre misurarono il loro consenso e il peso effettivo nel Paese di ciascuno di essi solo all’indomani del 2 giugno del 1946, nel Referendum che scelse la Repubblica e che elesse la Assemblea Costituente.
A garantire per loro negli anni precedenti, della loro rappresentatività e anche della loro unità di vedute per il futuro del paese, c’erano però Di Vittorio, Grandi, Buozzi, Canevari, che sulla scelta repubblicana ad esempio non ebbero dubbi fin dall’inizio. Essi dimostrarono con gli scioperi il loro peso e poichè erano nello stesso tempo dirigenti di primissimo piano dei principali partiti antifascisti, rispettivamente del partito comunista di quello democristiano e di quello socialista, allora gli alleati, il Re, il Vaticano, gli industriali dovettero prendere atto che la parola dei partiti antifascisti veniva “certificata e garantita” indirettamente dalla forza effettiva e dalla rappresentatività conquistata sul campo dal sindacato unitario.
E’ per questo che il movimento operaio e sindacale unitario divenne in quegli anni classe dirigente del Paese e come tale fu riconosciuto da tutti e rispettato, e di questo vi è perciò testimonianza evidentissima e particolarissima nella nostra Costituzione a cominciare dal suo primo articolo.
Per farla breve. Questo incontro, questa unità, questa corrispondenza tra organizzazioni sindacali e partiti politici antifascisti, tra correnti culturali diverse e che reciprocamente si riconoscevano, si protrasse dopo la Liberazione anche nei lavori della Assemblea Costituente e nella ricostruzione del Paese dalle macerie della guerra.
Sono queste le ragioni che spiegano il primo comma del nostro primo articolo.
L’articolo 1 si completava così, secondo comma:
         La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Lo ricordiamo perché rimanda alla attualità politica. La destra oggi al Governo sembra ignorare il secondo comma dell’articolo 1 laddove ripete continuamente il mantra della sovranità popolare che li avrebbe legittimati a fare quel che vogliono. Dimentica che neppure il popolo sovrano può fare quel che gli pare, e che certo anch’esso può esercitare la sovranità, tramite il Parlamento e il Governo, ma solo nell’ambito delle forme e nei limiti previsti dalla legge fondamentale.
Ama dire Valerio Onida in proposito, parafrasando l’art. 16 della “dichiarazione” del 1789:
“Se c’è un sovrano assoluto, sia pure esso il popolo, non c’è Costituzione”.
Forme e limiti, si diceva, che al nostro Presidente Berlusconi e alla sua maggioranza fanno evidentemente venire l’orticaria.
Per intendere più ampiamente in termini culturali politici ed economici la formulazione “ L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” occorre passare subito ai successivi tre articoli.
GLI ARTICOLI 2, 3, 4.
 
Art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
 
Art. 3: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge , senza distinzione di sesso , di razza , di lingua , di religione , di opinioni politiche , di condizioni personali e sociali .
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese . “
 
Art. 4: “ La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
 
Insieme all’articolo 1 questi articoli configurano le “colonne portanti” dell’intero edificio costituzionale, la “Casa comune” di tutti gli italiani ).
In primo luogo non è difficile sentire riecheggiare in essi le parole chiave della rivoluzione francese: LIBERTE’, EGALITE’, FRATERNITE’. Basta sostituire alla parola “fraternitè” la parola solidarietà. Libertà, uguaglianza, solidarietà, persona, cittadino, lavoratore. Sono le parole ricorrenti e fondamentali della nostra Costituzione.
In secondo luogo con questi articoli si viene investiti in pieno dei temi che rimandano alla “questione sociale” esplosa ovunque in Europa all’inizio del secolo scorso scorso.
Per dire cosa si intendeva con esplosione della questione sociale agli inizi del secolo scorso si considerino le seguenti parole di Giovanni Giolitti, allora ministro degli interni, pronunciate in Parlamento all’indomani di una crisi di governo nel 1901 a seguito di uno sciopero generale per la chiusura della Camera del Lavoro di Genova (la CGIL nascerà di lì a pochi anni nel 1906):
         “ Il moto ascendente delle classi popolari si accelera ogni giorno di più, ed è moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili, e perché poggiato sul principio dell’uguaglianza fra gli uomini. Nessuno si può illudere di poter impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e di influenza politica”.
Parole profetiche verrebbe da dire.
Si prendano ora il secondo comma dell’articolo 3. e il primo dell’art.4.
Essi dicono che la Repubblica, lo Stato, ha come compito quello di RIMUOVERE gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei CITTADINI, impediscono il pieno sviluppo della PERSONA UMANA e l’effettiva partecipazione di tutti i LAVORATORI all’organizzazione politica, economica e sociale. E aggiunge e ribadisce, la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e PROMUOVE le condizioni che rendono effettivo questo diritto.
Ora fate attenzione ai verbi usati: rimuovere e promuovere.
La Repubblica non deve limitarsi a rimuovere gli ostacoli che impediscono al medesimo individuo ( di volta in volta cittadino, persona umana, lavoratore, cioè le parole che identificano e riassumono in sé le tre culture di cui si parlava prima, cittadino quella liberale, persona umana quella cattolica e democratico cristiana, lavoratore quella socialista e comunista) di accedere a quei diritti ma deve anche promuovere le condizioni affinchè quei diritti possano essere effettivamente conseguiti.
Qui è come fosse scritto che lo Stato riconosce le diseguaglianze sociali e se ne fa carico per rimuoverle.
Il diritto al lavoro viene posto a fondamento della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini e dello sviluppo della loro personalità in quanto esseri umani ma nello stesso tempo si riconosce che la stragrande maggioranza di essi sono lavoratori che avendo a disposizione solo il lavoro come fondamento del loro essere nella società devono essere sostenuti nell’ottenerlo e nel conservarlo.
In sostanza si riconosce l’esistenza delle classi sociali e l’una (la classe lavoratrice che detiene solo la sua forza lavoro) è in posizione di svantaggio rispetto alle altre (che detengono i mezzi di produzione e/o i benefici della rendita in tutte le sue forme).
La Costituzione garantisce certo il libero mercato e la proprietà privata.
Garantisce dunque il libero scambio tra capitale e lavoro al pari dello scambio e la circolazione di tutte le altre merci. Ma come tutte le merci il lavoro è sottoposto all’andamento della economia. Quando essa va bene cresce l’occupazione, quando va male diminuisce.
La Costituzione dice però anche che il lavoro è un diritto in ogni tempo indipendentemente dai cicli della economia. Per questo la Repubblica, lo Stato, ogni governo, deve avere tra i suoi obiettivi primari e permanenti la promozione della piena occupazione e rimuovere gli ostacoli che la impediscono.
In sintesi: la Costituzione dice che il libero mercato non deve entrare in contraddizione con la giustizia sociale e l’equa redistribuzione della ricchezza prodotta. E a questo fine tutti devono concorrere ciascuno per la propria parte e nel proprio ruolo.
Da qui l’importanza e l’attualità permanente nel nostro Paese anche dell’art. 53:
 
         “( Art. 53): Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
         Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
 
Lotta all’evasione fiscale e riduzione delle stesse per lavoratori e pensionati sono il primo punto della piattaforma dello sciopero generale del 12 marzo indetto dalla sola CGIL come sapete. E sapete ugualmente della idea eversiva di questo articolo del nostro Presidente del Consiglio laddove vorrebbe un sistema fiscale con due sole aliquote, 23% e 33%, per operare in tal modo una gigantesca redistribuzione dei redditi dai salari alle rendite e ai profitti. Sarebbero infatti solo i ricchi a beneficiare della riduzione al 33% con la seconda aliquota e sarebbero solo i lavoratori e i pensionati a incrementare con la prima aliquota ferma al 23% la loro quota di “tributi per le spese pubbliche”. Già sono loro con la trattenuta alla fonte a pagare oltre l’80% delle tasse, con due sole aliquote la loro quota percentuale salirebbe ancora di più.
Per tornare invece alle previsioni costituzionali si può dire che esse dal primissimo dopoguerra e fino agli anni settanta hanno trovato soddisfacente attuazione pur tra alti e bassi anche drammatici.
I compiti della Repubblica indicati nell’articolo 3 a favore del lavoratore, del cittadino, della persona, iniziarono ad essere svolti prima ancora che fossero scritti.
Così il diritto di voto il 2 giugno 1946 fu esteso per la prima volta alle donne.
Così all’indomani della guerra si diede vita alla ricostruzione dalle macerie della guerra. Lo stato e le forze politiche e sociali unite riuscirono nella impresa.
All’indomani della Liberazione i lavoratori ottengono subito tutele occupazionali e salariali. Verranno decisi senza un’ora di sciopero il blocco dei licenziamenti che durerà fino al 1948 e la scala mobile (il famoso “punto di contingenza” a tutela automatica del potere di acquisto dei salari dalla crescita dell’inflazione, così detto perché concesso nella “contingenza” postbellica). La scala mobile come è noto resterà in vigore per 40 anni. In cambio il sindacato unitario offrì un periodo di moderazione alle sue richieste. E il Paese si rimise in moto.
Sentiamo un commento di Giulio Sapelli, economista e professore alla Statale di Milano, su quel periodo:
         “Gli anni che vanno dal 1945 al 1947 sono anni di grande concordia e di collaborazione nelle fabbriche. I partiti di sinistra e il sindacato unico collaborarono con il governo e gli industriali per mantenere basse le richieste salariali, diminuire la conflittualità, sviluppare la produzione. Questo processo da vita a un passaggio dalla economia di guerra a quella di pace che ha dello straordinario.”.
L’articolo 4 della Costituzione non riconosce solo il diritto al lavoro dice anche che esso è un dovere del cittadino della persona del lavoratore. Lo afferma al secondo comma Ogni cittadino ha il dovere di svolgere (…) una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Vengono usate le parole “attività o funzione” perché non ci si riferisce solo al lavoro dipendente pubblico e privato ma anche al lavoro autonomo, a quello artistico e culturale, e alle “funzioni pubbliche”, dal volontariato alle cariche elettive e a quelle sindacali (come si scriverà nello Statuto dei lavoratori nel 1970).
Tutte attività e funzioni che concorrono al progresso materiale e spirituale della società (e qui la parola spirituale non va intesa in senso solo religioso ma più ampiamente in senso etico-morale).
Chiediamoci ora se oggi i primi 4 articoli della Costituzione sono o meno in buona salute. Chiediamoci cioè se nelle istituzioni e nella cultura diffusa del paese si assegna ancora a quei 4 articoli il fondamento del nostro vivere civile sociale economico e politico.
La risposta è decisamente sconfortante. E allarmante in sommo grado.
Stiamo vivendo la crisi economica più grave dal 1929. In un anno sono stati persi centinaia di migliaia di posti di lavoro e le ore di cassa integrazione superano ormai il miliardo. A scivolare sotto la soglia di povertà sono ormai 8 milioni di cittadini. Ci sarebbero tutte le condizioni per fare ricorso alle raccomandazioni sul lavoro suggerite dalla Costituzione. Politiche pubbliche a sostegno della occupazione, dei redditi, dei disoccupati, della povera gente, ecc.
Questo Governo però non ci sente su questo versante e sembra avere un’altra idea della nostra Costituzione.
Sentiamo in proposito un importante ministro della Repubblica.
L’onorevole Renato Brunetta in una sua intervista al quotidiano “Libero” il 3 gennaio di quest’anno ha detto:
         “Stabilire che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla (…) la riforma della Costituzione dovrà riguardare anche la prima parte a partire dall’articolo 1, e non solo la seconda (…) la parte valoriale della Costituzione ignora temi e concetti fondamentali, come quelli del mercato, della concorrenza e del merito (e prosegue sostenendo che andrebbero rivisti anche …) gli articoli della Carta sui sindacati “.
 
Ora chiudete gli occhi e immaginate le facce dei padri costituenti se potessero con un fantasioso “ritorno al futuro” ascoltare anch’essi le parole di Brunetta.
Le loro facce tradirebbero sentimenti di stupore, incredulità, indignazione, rabbia.
Cosa è successo invece nel Paese? Alle parole di Brunetta non è seguito nulla. Certo si è affrettato il Presidente della Repubblica Napolitano a dire che non si può mettere in discussione: “il valore del lavoro come base della Repubblica democratica” seguito dal Presidente del Senato Schifani che ha assicurato non esserci progetti di riforma della prima parte della Costituzione.
Ma nel Paese non è successo nulla.
L’uscita di Brunetta è stata derubricata a uno dei tanti “fuochi di artificio” che il nostro ama esternare per apparire più grande di quel che è, per così dire.
Un po’ come la reazione alle “sparate” di Bossi e soci quando 20 anni orsono iniziarono a prendersela prima con gli immigrati definendoli “bingo-bongo” poi con i musulmani portando sui luoghi ove erano previste costruzioni di moschee graziosi maiali al guinzaglio. Si fece “spallucce”.
Oggi invece si conviene da più parti che si trattò di una sottovalutazione culturale e politica che ha spianato la strada ad un ritorno della cultura razzista e fascisteggiante che vorremmo sepolta per sempre. Una cultura che ha portato a Rosarno. Con le scene da Ku Klux Klan che tutti abbiamo visto in TV, con i lavoratori immigrati ridotti in stato di semischiavitù e incredibilmente colpevolizzati dal Ministro Maroni per i disordini di piazza al posto dei veri colpevoli, gli aguzzini della ‘ndrangheta. Oggi infine abbiamo nel nostro paese una vera e propria legge razzista, quella che ha introdotto il reato di clandestinità, il cosiddetto “pacchetto sicurezza”. L’ultimissima riguarda il disegno di legge cosiddetto della “cittadinanza a punti”, della serie “la vita è tutta un quiz” come cantava Renzo Arbore.
A quando, seguendo Brunetta, una riforma costituzionale che cancella insieme ai primi quattro articoli l’intero Titolo III della prima parte della Costituzione intitolato “rapporti economici” ( che ora vedremo), e che sostanzia, declinandoli, i principi e i valori dei primi quattro?
Brunetta disegna infatti nella sua intervista un’altra Costituzione.
Egli vuole una Costituzione che stabilisce il primato dell’impresa, del libero mercato e della libera concorrenza, sul lavoro e sui diritti ad esso correlati. L’esatto contrario della nostra Costituzione che pur riconoscendo i diritti dell’impresa e del libero mercato e della libera concorrenza li sottopone ai vincoli del rispetto dei diritti del lavoro e della cosiddetta “utilità sociale” delle imprese medesime.
Quel che pensa Brunetta riflette purtroppo in buona parte la situazione culturale nel paese egemonizzato da questa destra al Governo.
Non meno drammatica è la situazione istituzionale nel Parlamento e nel Senato della Repubblica dopo le ultime elezioni. Essa ne è per così dire la formalizzazione.
Per la prima volta nella storia del Paese dal dopoguerra, in Parlamento e nel Senato non siede nessuna forza politica che, nel nome, (e i nomi contano!) si dichiari socialista o comunista o semplicemente di sinistra.
Come dire che la cultura della sinistra socialista e comunista di cui la nostra costituzione e’ tuttora testimonianza e’ stata espulsa formalmente dalle aule parlamentari. 
Le culture costituzionali non corrispondono piu’ alle culture parlamentari. Nessuna forza politica in Parlamento rappresenta piu’ il lavoro con la cultura classista del secolo che abbiamo alle spalle.
Si tratta di una situazione del tutto inedita nella storia culturale del Paese.
Forse questo spiega l’insistenza e la foga con cui ministri come Sacconi e Brunetta parlano della CGIL come di un’anomalia. Essi la indicano come l’ultimo residuo novecentesco, di un certo peso, che guarda ancora al lavoro in termini appunto novecenteschi ( conflitto capitale-lavoro, lotta tra classi sociali ecc.). E anche per questo cercano in tutti i modi di isolarla e sconfiggerla. Ci hanno già provato in passato senza riuscirci, ma questa volta, nella nuova situazione istituzionale in Parlamento, sperano di riuscirci.
In questo trovano purtroppo e sciaguratamente anche l’appoggio di CISL UIL che hanno sottoscritto senza la CGIL l’accordo separato del 22 gennaio 2009. Forse pensano di veder crescere il loro peso a scapito della CGIL dimenticando che a pagare il prezzo più alto di ogni divisione sindacale sono i lavoratori.
Fatto è che la crisi questo Governo la affronta nel peggiore dei modi, senza uno straccio di politiche pubbliche straordinarie a favore della occupazione, senza nessuna visione strategica su nuove e necessarie politiche industriali, con accordi separati che deprimono la tutela del potere di acquisto dei salari in un momento in cui si dovrebbe favorirne la crescita per rilanciare la domanda.
La situazione è dunque davvero difficile. Non ci sarebbe da stupirsi allora se in questo contesto di non corrispondenza tra Costituzione e Parlamento, nelle leggi che il ministro Sacconi ha promesso in attuazione del “libro bianco” per quest’anno, la parola lavoratore, riferita al lavoro dipendente subordinato, venisse sostituita con quella di “collaboratore di impresa” , come già è stato fatto con i lavoratori parasubordinati laddove sono stati chiamati “collaboratori coordinati e continuativi” – i famosi co.co.co.  Se da lavoratori subordinati si dovesse divenire “collaboratori d’impresa” i diritti di questi ultimi non troverebbero più riferimenti costituzionali. Le parole contano, come si diceva.
Ma torniamo alla Costituzione.
 
3. I “RAPPORTI ECONOMICI” NELLA NOSTRA COSTITUZIONE
 
Se i primi quattro articoli dicono dei significati e dei rapporti in generale tra la Repubblica e il diritto al lavoro quelli sui “ rapporti economici” si soffermano sulle mille facce che declinano quegli stessi rapporti e significati.
 
Che succede se il lavoro viene perso?, come e quanto deve essere retribuito il lavoro?, cosa succede alle persone che sono o divengono inabili al lavoro?, quali regole nel tempo di lavoro e quanto dev’essere questo tempo? Ecc.
A tutto questo e ad altro ancora guardano altri articoli e in particolare quelli del Titolo III della prima parte della nostra Costituzione.
Esso contiene 13 articoli che vanno dall’art. 35 all’art. 47.
L’art. 35 al suo primo comma dice:
         “ La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”.
 
Al giorno d’oggi dovremmo farne una bandiera della nostra attività se solo si pensa  ai precari e agli immigrati. Ma andiamo con ordine.
Se un cittadino una persona un lavoratore non lavora, per qualunque ragione e indipendentemente dalla sua volontà la Costituzione prevede che:
Art. 38:
         “ Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento a all’assistenza sociale.
         I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria.
         Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. (…)”.
Pensate a quanta strada è stata fatta per le situazioni richiamate nell’art. 38 e quanto ancora resta da fare relativamente a quello che chiamiamo “Stato Sociale”, ad esempio a proposito dei cosiddetti “ammortizzatori sociali” ( cassa integrazione , indennità di disoccupazione ecc.), oppure ai diritti dei “diversamente abili” come oggi viene definita la persona con disabilità (Dello Stato Sociale parleremo più diffusamente più avanti).
L’art. 36 si occupa del salario, dell’orario di lavoro e dei “periodi di riposo”:
         “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
         La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
         Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.”.
 
L’art. 37 guarda ai diritti delle donne e dei minori al lavoro:
         “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
         La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.
         La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione”.
Nessuno si stupisca di un tale articolo. La disparità di trattamento economico tra uomo e donna è ancora una dura realtà e lo stesso dicasi per il lavoro minorile. Pensate che solo nel 1960, in un accordo interconfederale, furono eliminate dai CCNL le differenze salariali tra maschi e femmine nelle tabelle remunerative. Solo nel 1969 furono eliminate le cosiddette gabbie salariali che differenziavano il salario su base territoriale, e nel 1971 la prima legge sulla tutela delle lavoratrici madri (la L. 1204).
Leggi e contrattazione, questo è il mix che dal dopoguerra cerca di realizzare le previsioni costituzionali sul lavoro.
Dunque non poteva mancare un articolo sui sindacati (chissà come lo riscriverebbe Brunetta!). Esso dice:
         Art. 39.”L’organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
E’ condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”.
 
Questo articolo, nel suo ultimo comma, stabilisce per i sindacati una “funzione pubblica”, come quella di stipulare contratti con validità ”erga omnes”, cioè validi per tutti i lavoratori e le lavoratrici di questa o quella categoria.
La condizione perché questo possa avvenire è semplicemente che essi siano “rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti”.
Chiediamoci: che succede se un contratto viene firmato non unitariamente o separatamente? 
A questo i costituenti non hanno pensato. E non ci hanno mai pensato neppure i legislatori, se si esclude il Dlgs 396/97 in materia di rappresentanza e rappresentatività sindacale nel pubblico impiego che darà vita alle elezioni RSU nel settore.
Nel privato non esiste nessuna legge analoga.
Se fino a metà degli anni ottanta, l’assenza di una legislazione in materia non ha costituito un problema, a partire da allora lo è stato in momenti ricorrenti. E di questi tempi è diventato un problema democratico di prima grandezza per il sindacato e per il paese.
L’accordo separato del 22 gennaio 2009 sulle nuove regole che dovrebbero guidare la contrattazione collettiva e decentrata non è stato firmato dalla CGIL che è la più grande organizzazione sindacale del paese. Una assurdità.
In assenza di regole che da un lato certifichino in modo legale e verificabile gli iscritti ad ogni sindacato, e che dall’altro misurino periodicamente la loro rappresentatività tra tutti i lavoratori iscritti e non iscritti al sindacato e da questi delegati così a contrattare per loro, si ha solo puro arbitrio.
Occorre stabilire una volta per tutte le regole che dicono democraticamente “chi rappresenta chi” e “chi firma che cosa” in osservanza del principio di maggioranza per la validità erga omnes dei contratti a qualunque livello.
Non possiamo soffermarci oltre su questo punto ma esso va considerato da tutti noi, e ci auguriamo da tutte le forze politiche e sindacali, una assoluta priorità, perché ne va della democrazia, della pace sociale, e della tutela del salario e dei diritti in generale dei lavoratori nel paese.
Sono sufficienti le leggi e gli accordi per la tutela del mondo del lavoro?
Certo che no. Per la tutela dei diritti del mondo del lavoro, purtroppo, occorre sovente scioperare e costringere controparti datoriali e governative a cedere alle richieste dei lavoratori. La nostra Costituzione e la storia moderna e contemporanea sanno bene che il conflitto sociale è stato e sarà il sale della democrazia e del progresso sociale. Da qui l’articolo sul diritto di sciopero.
         Art. 40: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.”
 
La prima regolamentazione del diritto di sciopero, come ben sapete, risale alla L.146 del 1990, successivamente modificata e coordinata con la L. 83 del 2000.
E’ opportuno osservare che nella nostra Costituzione i padroni non possono “scioperare”, cioè non possono fare la cosiddetta “serrata” perché se ciò fosse possibile i diritti dei lavoratori andrebbero a farsi benedire, tale e tanta è la disparità di forza tra lavoratori e imprese.
Per la verità la serrata non è né vietata né prevista e secondo una giurisprudenza costituzionale consolidata ciò che non è vietato è possibile. Se ne parlava già nella “Dichiarazione” del 1789 all’art. 5:
“La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito, (…) “.
In realtà la serrata è implicitamente vietata perché “nociva alla società”. Essa infatti sarebbe in netta contraddizione con gli articoli successivi del titolo III che rimandano alla cosiddetta “utilità sociale” dell’impresa, e ad altro ancora che rapidamente vediamo.
Art. 41: “ L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”
 
Brunetta mente quando afferma che la nostra Costituzione ignora temi come il mercato e la libera concorrenza, egli semplicemente non sopporta che essi non possano svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.
Qualcuno ricorderà anche che indicando proprio questo articolo Berlusconi ebbe a dire che la nostra è una “Costituzione di tipo sovietico”. Lamentava che con questi vincoli il profitto e il libero mercato non possono svilupparsi liberamente. Aveva ragione. Era proprio questa l’intenzione dei Padri costituenti. Quella cioè di impedire ai possessori dei mezzi di produzione, i capitalisti, di disporre di condizioni in grado di reprimere e negare i diritti dei lavoratori, la loro sicurezza, la loro libertà, la loro dignità umana, allo scopo di fare profitti senza limiti.
Con gli anni si sono fatti molti passi avanti in direzione della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, ma tantissimo c’è ancora da fare se, al netto dei giorni di non lavoro, sono oltre 4 ogni giorno le morti sul lavoro.
A confermare il primato della utilità sociale e dell’interesse generale sulla proprietà privata e i suoi diritti gli art. 42, 43, 44. Per economia di tempo della comunicazione non li riportiamo integralmente e ci limitiamo a segnalare solo alcuni commi o loro parti.
“La proprietà è pubblica o privata (…) La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. (…). A fini di utilità generale la legge può riservare (…) mediante espropriazione (…) allo Stato, ad enti pubblici o comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.”.
E’a questi articoli che le nostre battaglie contro le privatizzazioni di alcuni servizi pubblici essenziali ( si pensi all’acqua e all’energia) fanno riferimento. Idem dicasi contro il (quasi) monopolio televisivo di Berlusconi e per la libertà di informazione di cui all’art. 21 e contro il conflitto di interessi.
La Costituzione tutela anche il lavoro cooperativo “a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata (…) e quello artigianale” con l’art. 45.
La cronaca sindacale ha portato di recente alla ribalta le previsioni degli articoli 46 e 47. Essi dicono:
         Art. 46: “ Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione , la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.”
         Art. 47: “ La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme (…) Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione (…) al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese.”.
 
Nella cronaca sindacale di quest’ultimo periodo, le tematiche “collaborative” tra capitale e lavoro di questi articoli sono divenute bandiere ideologiche del Ministro Sacconi e del segretario della CISL Bonanni. Ricorderete i loro appelli affinchè il lavoro non sia più visto in conflitto con il capitale (ideologia squalificata come novecentesca e dopo la fine del comunismo vetero marxista e non più proponibile). Da qui l’auspicio della “complicità tra capitale e lavoro” ( teorizzata ampiamente nel Libro Bianco) e le prime proposte sindacali da riversare nella contrattazione secondo questa filosofia, senza escludere retribuzioni salariali in forma di azioni e/o partecipazione dei sindacati e lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende.
Si tratta di tematiche antiche e non estranee al movimento operaio, e che rimandano alla cosiddetta cogestione. Ma in questa sede non possiamo occuparcene.
4. LO STATUTO DEI LAVORATORI OVVERO LA COSTITUZIONE IN FABBRICA
 
Fu Vittorio Foa a dire che con la L. 300 del 20 maggio 1970,  cioè lo Statuto dei lavoratori, la Costituzione varcava finalmente i cancelli delle fabbriche.
Felicissima espressione la sua e soprattutto assai veritiera.
Sono passati 40 anni dalla sua emanazione e non esitiamo ad augurarci che abbia altri 40 e più anni di vigore e vitalità.
Fino a prima di allora (dal dopoguerra al cosiddetto “autunno caldo”, la stagione di lotte operaie e studentesche del 1968 e 1969) l’attività sindacale nei luoghi di lavoro era davvero dura. La repressione della attività e della agibilità sindacale era all’ordine del giorno in tutti i luoghi di lavoro, grandi o piccoli che fossero. Non di rado si verificavano veri e propri episodi di rappresaglia verso gli attivisti più esposti e non di rado si veniva licenziati proprio e solo perché sindacalisti, soprattutto se comunisti e socialisti. Le riunioni sindacali avvenivano solo fuori dalla azienda e fuori dall’orario di lavoro. Nelle manifestazioni sindacali spesso ci scappava il morto. Eccetera eccetera. La letteratura in proposito è sterminata e ad essa si rinvia.
Con lo Statuto (composto di 41 articoli e 4 Titoli) le cose cambiano.
Non sarà più pericoloso dire apertamente la propria idea su ogni cosa, sarà possibile riunirsi nei luoghi di lavoro, non si potrà più essere licenziati “senza giusta causa”, il famoso art. 18, quello che rende possibile la libertà, l’uguaglianza, la dignità del lavoratore anche dentro la fabbrica.
Contro di esso si scatenò nel 2001 l’offensiva del secondo Governo Berlusconi e la CGIL diede vita, inizialmente da sola, alla più grande e memorabile resistenza al disegno della destra che culminò nella bella e decisiva manifestazione al Circo Massimo a Roma. Era il 23 marzo 2002. La parte maggioritaria del paese fu allora con noi e l’articolo 18 è ancora lì.
Un anno dopo, un referendum abrogativo di parte dell’articolo 35 dello Statuto, quello che limita alle sole aziende sopra i 15 dipendenti il licenziamento per giusta causa, per l’estensione di esso a tutto il mondo del lavoro, non raggiunse il quorum. Ma su 12 milioni e mezzo di votanti, oltre 10 milioni e mezzo votarono si alla richiesta di abrogazione della limitazione alla applicabilità dell’articolo 18.
Così, oggi, le tutele al licenziamento senza giusta causa continuano a riguardare circa la metà del mondo del lavoro. L’altra metà continua a non godere di questo diritto. Se a questo si aggiunge la crescita continua del precariato e quella del lavoro nero e lo sfruttamento di tipo schiavistico del lavoro di tanti immigrati, abbiamo la misura della strada fatta e di quella che ci resta da fare. Certo ora dobbiamo prepararci a fronteggiare i propositi del ministro Sacconi, che ha annunciato un nuovo “Statuto dei lavori” che sembra non promettere nulla di buono. L’articolo 18 è di nuovo sotto tiro ma la CGIL in questo congresso in ambedue i documenti congressuali ne propone l’estensione.
E’ stato fatto molte volte e dunque non lo rifaremo anche noi, il confronto tra gli articoli dello Statuto e quelli della Costituzione. In questa sede ci limiteremo ad indicarne le corrispondenze principali lasciando a voi l’approfondimento.
L’articolo 18 dello Statuto rimanda agli articoli 1, 2, 3, 4, della Costituzione, quelli sul diritto al lavoro e al suo mantenimento contro l’arbitrio del padrone. Il licenziamento solo con “giusta causa” traduce bene le norme costituzionali in materia. L’articolo 1 dello Statuto ( d’ora in poi “S”) quello intitolato “libertà d’opinione” richiama in primo luogo l’articolo 21 della Costituzione ( d’ora in poi “C”). Gli articoli 2, 3, 4, “S” riguardano l’uso delle guardie giurate, del personale di vigilanza, degli impianti audiovisivi a tutela della proprietà aziendale. Si afferma che tali strumenti e tale personale non devono violare in alcun modo la dignità dei lavoratori nello svolgimento della loro attività (niente “spionaggio” sui lavoratori insomma). Il richiamo “C” è agli articoli 13 e 14 sulla inviolabilità della libertà personale. Lo stesso dicasi per gli articoli 5 e 6 “S”, quelli sugli “accertamenti sanitari” e sulle “visite personali di controllo”, il riferimento costituzionale è lo stesso. L’articolo 7 “S” , quello sulle “sanzioni disciplinari” richiama e ricalca la lettera dell’articolo 24 “C”, quello sul diritto alla difesa. L’articolo 8 “S” dal titolo “divieto di indagini sulle opinioni” richiama l’articolo 22 “C” laddove si vieta la negazione dei diritti di cittadinanza per motivi politici. L’articolo 9 “S” dal titolo “tutela della salute e della integrità fisica” corrisponde all’articolo 32 “C” ( La Repubblica tutela la salute ecc). Ci vorrà tempo per la L.626/94 ma l’inizio sta lì.
L’articolo 10 “S” dal titolo “lavoratori studenti” , quello delle cosiddette 150 ore è figlio dei tempi e di Don Milani. “Lettera ad una professoressa” fu uno dei testi base del movimento studentesco e del movimento operaio contro la “selezione nella scuola di classe”. La corrispondenza “C” è con l’articolo 34 ( la scuola è aperta a tutti ecc). Poi vi sono gli articoli dei Titoli II e III, quelli sulla libertà e attività sindacale ( nel titolo II gli articoli 14 ( sul “ diritto di associazione e di attività sindacale” e il già citato articolo 18), nel Titolo III l’articolo 19 sulla “ costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali” e gli articoli successivi su “assemblea”, “ referendum”, “permessi retribuiti e non” diritti di “affissione” ecc. Tutti articoli che rimandano direttamente all’articolo 39 “C” che abbiamo già visto.
L’articolo 28 “S” “repressione della condotta antisindacale” rimanda anzitutto all’articolo 40 “C” sul diritto di sciopero.
Gli articoli 31 e 32 “S” che parlano dei permessi e delle aspettative dei lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali e pubbliche rimandano all’articolo 51 “C” (chi è chiamato a funzioni pubbliche (…) ha diritto (…) di conservare il suo posto di lavoro. Dallo Statuto in poi anche i sindacalisti svolgeranno una funzione pubblica. Cosa questa che fa inorridire il nostro Brunetta (e purtroppo non solo lui), il quale ha già cominciato a smantellare i cosiddetti distacchi sindacali nel pubblico impiego.
 
5. LO STATO SOCIALE E IL LAVORO
 
Nel bel mezzo della seconda guerra mondiale si cominciò a parlare di “welfare state”, che letteralmente vuol dire “Stato del benessere”. In Italia si è tradotto con “Stato Sociale”.
Con quella espressione si alludeva ad un sistema politico economico e sociale nel quale lo Stato si incaricava di garantire ai suoi cittadini un “benessere” lungo l’intero arco della loro vita, dalla “culla alla tomba” per così dire.
Così i diritti fondamentali alla vita, alla libertà, all’uguaglianza, al lavoro ecc. venivano ad essere arricchiti e sostanziati dalle garanzie statali alla istruzione, alla salute, alle pensione, alla assistenza, che avrebbero assunto un carattere prevalentemente pubblico e di tipo universalistico, i cosiddetti “diritti di cittadinanza”.
Il documento fondamentale che diede vita alle politiche del “welfare state” è il cosiddetto “PIANO BEVERIDGE” del 1942 e fu elaborato dall’economista William Henry Beveridge in Inghilterra.
Il “piano Beveridge” venne applicato dal 1946 in Inghilterra e via via in tutti i paesi Europei. Così si delinearono nel mondo due modelli di “Welfare state”: quello europeo che si caratterizzava per una forte presenza del pubblico e di tipo universalistico, quello americano nel quale il ruolo del pubblico era minimo e gran parte delle prestazioni era frutto di accordi tra lavoratori e imprese e/o di polizze assicurative.
In Italia la nostra Costituzione fece propria la filosofia del “piano beveridge”. 
Gli articoli 32, 33, 34, 38 in particolare ne sono testimonianza diretta. Essi rimandano ai temi della salute della istruzione della previdenza e della assistenza come diritti insieme individuali e dell’intera collettività. Ne riportiamo i commi dedicati.
         Art. 32: “ La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
         Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
 
         Art. 33: “ L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
         La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
         Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
         (…)”
 
         Art. 34: “ La scuola è aperta a tutti.
         L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
         I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. (…)”.( Anche qui Brunetta mente laddove dice che la Costituzione ignora il merito.)
 
Dell’articolo 38 abbiamo già detto nel capitolo “rapporti economici”.
 
L’attuazione di queste ad altre importanti previsioni costituzionali la si avrà a cavallo del decennio tra la fine degli anni ‘60 e la fine degli anni ‘70. Che per questo è anche un po’ la “stagione d’oro” nella attuazione della Costituzione.
La riforma della scuola media è del 1962 (L. 1859). Viene soppresso il cosiddetto ciclo dell’avviamento al lavoro e l’obbligo scolastico viene portato a 14 anni e le medie inferiori divengono uguali per tutti.
Nel 1969 (L. 910) viene liberalizzato l’accesso all’università.
Ambedue queste leggi favorirono il dettato costituzionale secondo cui “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Sia l’avviamento professionale dopo il ciclo delle elementari sia la selezione nell’accesso all’università a seconda del ciclo svolto nelle superiori (solo quelli del liceo classico e scientifico potevano andare dove volevano) condannavano i figli delle classi meno abbienti “ai gradini più bassi degli studi”, per così dire.
Dopo quelle riforme “anche l’operaio vuole il figlio dottore” si canterà nei cortei del tempo.
Oggi la ministra Gelmini con la cosiddetta riforma dei licei vuole riportare indietro le ruote della storia. Chi sceglierà a 13 anni il percorso tecnico professionale rispetto a quello liceale difficilmente all’università potrà accedere a qualunque corso di laurea per la preparazione differente che riceverà ( e già oggi le statistiche dicono che negli ultimi anni i figli dei lavoratori che si iscrivono all’università sono passati dal 20% al 12%, con una evidente selezione di classe di ritorno, quella per censo). La stessa Gelmini ha poi fatto una cosa unica al mondo: ha abbassato l’obbligo scolastico a 15 anni dai 16 che erano. Quando tutti sanno che quanto più elevato è l’obbligo scolastico di un paese tanto più esso è democratico e preparato e sensibile alle innovazioni tecnologiche e al loro sviluppo.
Ci stiamo pericolosamente allontanando da quel quadro costituzionale sull’istruzione anche se si guarda al trattamento che si vorrebbe riservare ai figli degli immigrati nelle tante ordinanze discriminatorie di amministratori locali quasi sempre leghisti. Senza dimenticare la crudeltà civile in occasione degli sgomberi degli accampamenti ROM senza alcun riguardo ai suoi bambini (“la scuola è aperta a tutti e l’istruzione inferiore è obbligatoria”. Per tutti dice la Costituzione, ma per i bambini ROM sembra non valere).
Nel 1969 (L. 153) la riforma delle pensioni. Segnò il passaggio dal sistema contributivo a quello retributivo, la presenza maggioritaria di CGIL, CISL, UIL nel Consiglio di Amministrazione dell’INPS, la pensione sociale per tutti i cittadini ultrasessantacinquenni. Ma, come sappiamo, dal 1995, con la L. 335, la cosiddetta riforma DINI siamo di nuovo nel contributivo, con tutti i problemi che ciò comporta per i giovani lavoratori e la crescente precarietà nel lavoro che li accompagna. Ma questa è un’altra storia.
Nel 1978 la riforma della sanità (L. 833). Un nuovo sistema sanitario basato sulla copertura universale e che metteva fine al sistema mutualistico.
Anche questa riforma è sotto tiro da tempo. Con il libro bianco del ministro Sacconi le nubi si fanno però nerissime all’orizzonte. Si lamenta nel testo che la spesa sanitaria diviene ogni anno che passa sempre più insostenibile e che addirittura essa è destinata a raddoppiarsi entro il 2050! Si lancia l’allarme per mettervi mano.
E’ un film già visto con gli allarmi sulla spesa pensionistica che hanno portato alla riforma Dini nel 1995 e dunque occorre prepararsi.
Sempre del 1978 la cosiddetta “Riforma Basaglia”, la L.180, quella che chiuse i manicomi e spianò la strada alla dignità umana dei malati mentali e alla loro cura e reinserimento nella società anche attraverso il lavoro.
Altre importanti riforme costituzionali segnarono quel decennio. Furono istituite le Regioni, vi fu la riforma del diritto di famiglia, la legge sul divorzio ecc. Ma ciò esula dal nostro lavoro.
CONCLUSIONI
Come abbiamo visto dopo un periodo di crescita della corrispondenza tra i diritti del lavoro e le relative previsioni costituzionali, fino a tutti gli anni ’70, è iniziato un periodo di non corrispondenza che oggi appare particolarmente pericoloso.
Permettetemi allora di chiudere con un appello. Leggete e rileggete la Costituzione!
Lo dico a chi non l’ha mai letta e a chi l’ha letta.
Ai primi dico che si tratta di una lettura breve e per certi versi affascinante. Stupisce la semplicità e chiarezza di linguaggio e pur essendo essa la legge fondamentale non usa il linguaggio delle leggi ( salvo gli articoli del riformato Titolo V – gli art. dal 114 al 133- che relativamente al linguaggio si presentano come un vero e proprio “corpo estraneo”, e dunque non biasimerei chi decidesse di saltarli). Proverete inoltre stupore a riscontrare in ogni articolo come questo o quell’episodio della vita quotidiana e della cronaca politica economica sindacale e culturale del paese possa esservi ricondotto, e a misurarne la corrispondenza o non corrispondenza.
A chi invece l’ha già letta dico: rileggetela! Vedrete che ogni volta ne riscoprirete la “profondità”.
Per finire. Costituzione e Statuto dei Lavoratori sono indispensabili al buon sindacalista come si è cercato di mostrare. Si tratta di due testi che, nel bene e nel male, portano anche i segni del nostro lavoro e della nostra storia, di chi è venuto prima di noi e di chi, ci auguriamo di cuore, verrà dopo.
Grazie e buon congresso a tutte e a tutti.
 
Microbibliografia: per chi volesse cominciare ad approfondire su Costituzione e Statuto segnalo :
·        Valerio Onida, “la Costituzione”, ed. Il mulino
·        Giangiulio Ambrosini, “la Costituzione spiegata a mia figlia”, ed. Einaudi
·        Paolo Mereu, Stefano Oriano, “lo Statuto dei lavoratori”, ed. Ediesse


Marted́ 09 Marzo,2010 Ore: 11:51
 
 
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