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www.ildialogo.org Tutto il resto è tradimento,di Giovanni Sarubbi

Editoriale
Tutto il resto è tradimento

di Giovanni Sarubbi

Perdere un referendum 60 a 40 è come per un pugile perdere per KO. Si va giù al tappeto dopo aver ricevuto una sventola di quelle che non perdonano. Ci si rialza poi a fatica, si è rintronati, si farfugliano parole senza senso. «Ma come è stato possibile, eppure mi ero preparato a dovere, ci avevo pure scommesso, mi ero fatto un mutuo...», ma niente, sei andato giù come un sacco pieno di pietre.
È quello che sta accadendo a tantissimi amici o compagni o semplici conoscenti che hanno votato SÌ e che si trovano a fare i conti con la vittoria del NO. Sono per lo più increduli, storditi, incapaci di capire cosa è successo. Ho ricevuto lettere che traspiravano dolore, incredulità per la fine di quello che si può ben definire “il sogno renziano”, ma anche complimenti ed incoraggiamenti a continuare per Renzi, dipinto quasi come un martire di persone “rancorose e piene di settarismo, odio e volgarità”. Lettere spesso più realiste del Re.
Un vero psicodramma
Nel PD poi siamo allo psicodramma con il linciaggio, per ora solo virtuale, della minoranza che ha votato NO. Per chi, come me, ha qualche anno in più e ricorda i fiumi di parole che sono state scritte contro il “centralismo democratico”, che vigeva nel PCI, viene da ridere a leggere le dichiarazioni attuali di quella parte del gruppo dirigente del PD che chiede la testa di Bersani, D’Alema & C. ed ha organizzato le manifestazioni degli scritti, riprese dalle TV, davanti alla sede del partito nei giorni successivi al voto a sostegno di Renzi. Manifestazioni che mettono in evidenza come nella testa della maggioranza degli iscritti al PD ci fosse la convinzione che si stesse votando per il governo guidato dal proprio segretario nazionale e non sulla Costituzione. Confusione esiziale e foriera di scontri feroci e di violenze inconsulte.
Ma queste manifestazioni mettono anche in evidenza come la diffusione dello spirito maggioritario (chi piglia anche un solo voto in più rispetto ai concorrenti piglia tutto) abbia oramai invaso tutti i corpi sociali e innanzitutto la vita stessa dei partiti. Lo spirito del “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, sancito dall’art. 49 della Costituzione, che assegna a tutti i cittadini il diritto di associarsi in partiti, è stato spazzato via. Non si concorre più, si prende tutto. Lo sforzo della politica fatta di ragionamenti e confronto per convincere con la forza della ragione è stata oramai spazzata via. Siamo oramai, già da molto tempo, alla patologia della politica, dominata dalla logica che il segretario di un partito ne è il padrone assoluto. La parola democrazia non ha più senso e c’è sempre bisogno di ricorrere al vocabolario per spiegarne il significato oramai svanito nella cultura dominante.
Promemoria di una politica golpista
Tutta l’operazione di modifica della Costituzione, lo abbiamo più volte scritto, si può ben qualificare come un vero e proprio tentativo di colpo di stato e di soppressione di quella sovranità popolare sancita dall’art.1 della nostra Costituzione. È opportuno ricordarne sinteticamente i motivi.
  1. l’iniziativa della riforma è stata presa dal Governo che su tale materia non può avere alcun ruolo. La nostra Costituzione si basa, infatti, sulla tripartizione dei poteri in potere legislativo, esecutivo, giudiziario, senza alcuna possibilità di invasione dell’uno rispetto all’altro. Il primo approva le leggi, il secondo le esegue, il terzo ne garantisce l’applicazione. L’art. 138, che regola le procedure per la modifica della Costituzione, assegna questo compito alle sole Camere. Il governo non ha alcun ruolo nella modifica della Costituzione che appartiene solo al potere legislativo. Più volte è stato richiamato come all’atto della realizzazione della Costituzione nel 1947 “i banchi del governo erano vuoti” a significare il rispetto sostanziale della divisione dei poteri. Inoltre, cosa che viene quasi sempre dimenticata, i governi e tutti i rappresentanti istituzionali, dai sindaci in su, giurano fedeltà alla Costituzione vigente e non a quella che essi hanno in testa. Un giuramento, previsto dall’art. 54, che impegna chi assume funzioni pubbliche ad “adempierle con disciplina ed onore”. Non è un giuramento formale, fatto tanto per farlo. Chi giura ma è convinto di altro è uno spergiuro. E noi ne abbiamo avuto troppi negli ultimi 25 anni. Chi giura non giura su un pezzo di carta ma su tutto ciò che quel pezzo di carta rappresenta. Si giura su tutti coloro che hanno dato la loro vita per la sua realizzazione. Si giura su una storia che nessuno può impunemente tradire.
  2. La sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato la legge elettorale cosiddetta Porcellum, con la quale è stato eletto l’attuale parlamento, non è stata eseguita, cosa che doveva essere fatta dal Presidente della Repubblica e dai presidenti della Camera e del Senato. Bisognava effettuare la ripartizione proporzionale dei seggi eliminando così il premio di maggioranza bocciato dalla Corte. Non averlo fatto ha reso illegittimo l’attuale parlamento e i governi da esso votati. Né il governo né il parlamento così eletto erano legittimati a modificare alcunché. Chi lo ha fatto ha attentato alla nostra libertà e alla democrazia su cui è basato il nostro Stato.
  3. L’approvazione della legge elettorale cosiddetta Italicum è altresì una palese violazione della legalità costituzionale perché non rispetta in alcunché la sentenza della Corte Costituzionale sul Porcellum. L’Italicum ha, infatti, reintrodotto un premio di maggioranza peggiore di quello della cosiddetta legge Acerbo del regime fascista del 1923[1]. La legge Acerbo prevedeva il superamento di un tetto del 25% per l’assegnazione dei 2/3 sei seggi al partito che l’avesse superato; l’Italicum non prevede alcun tetto ed è teoricamente possibile avere la maggioranza assoluta dei seggi con pochissimi voti. Il cosiddetto Italicum, peraltro, è stato fatto per la sola Camera dei deputati, dando per scontato l’esito positivo del referendum confermativo sulle modifiche della Costituzione. Col risultato che se oggi dovessimo andare di nuovo al voto esso sarebbe inficiato sia dalla evidente incostituzionalità, sia dal fatto che la legge per il senato è diversa da quella per la Camera. Un vero e proprio attentato alle nostre istituzioni.
  4. Si è proceduto allo scioglimento delle province e alla soppressione delle elezioni per i consigli provinciali, demandando le stesse ai soli componenti dei consigli comunali della provincia, pur essendo le provincie ancora organi costituzionalmente garantiti.
  5. Il Ministero dell'Istruzione non ha eccepito alcunché alla pubblicazione di libri di testo per il prossimo anno scolastico contenenti una descrizione delle nostre istituzioni basata non sulla Costituzione vigente, ma su quella sottoposta al referendum. La “sovranità appartiene al popolo” di nuovo stracciata anche nei libri scolastici.
  6. Aver legato le sorti del referendum alla prosecuzione dell’azione del governo è stato, infine, l’ultimo attentato alle nostre istituzioni perché, per la prima volta, un governo si è dimesso non avendo ricevuto alcun voto di sfiducia e per motivi non attinenti alla sua azione.
Lavoro e sovranità popolare i valori da riaffermare
Ho provato qui ad elencare quelli che a mio avviso sono i motivi essenziali che ci hanno indotto a parlare di governo golpista su cui invitiamo tutti a riflettere, sia quelli che hanno votato NO, sia quelli che hanno votato SÌ. Si tratta di fatti oggettivi difficilmente contestabili. Occorre, passata la fase elettorale, riflettere con calma perché comportarsi in modo scorretto non può avere giustificazioni. La Costituzione è un bene comune di tutti i cittadini Italiani e non può essere oggetto di incursioni da parte di chicchessia. Ciò che è stato messo in campo non è una volontà di aggiornamento, legittima, della Costituzione, ma un suo stravolgimento perché si sono fatte delle vere e proprie forzature che hanno mirato al cuore stesso della sovranità popolare, abusando anche dei mass-media. Ciò che la riforma proposta metteva in discussione era proprio la sovranità popolare.
E proprio su tale aspetto, art. 1 della Costituzione, ho ricevuto una critica su cui voglio infine concludere questa mia riflessione.
Un lettore ha commentato il mio ultimo editoriale[2] scrivendo: «Mi permetto di osservare che non è vero che "Il popolo italiano ha respinto la riforma costituzionale golpista del governo degli apprendisti stregoni". Lo schierarsi dei cittadini in fronde per il Sì e per il No, certamente provocato da Renzi ma perseguito proprio da coloro che, nell'intento di contrastare "le forze politico-economiche che condizionano la vita dei partiti e delle istituzioni a tutti i livelli", invece di aprire il dialogo fra i cittadini, li hanno chiusi nei propri ghetti identitari, per cui oggi non abbiamo la più pallida idea dei motivi per cui si sia schierato per il No il 70% dei cagliaritani e la maggioranza dei torinesi, i più dei romani e degli anconetani ecc. In sostanza: se chiedessimo a tutti di metter mano alla Costituzione allo scopo di adeguarla all' essere la nostra democrazia fondata su un lavoro che non è più quello del 1946, possiamo addormentarci tra due cuscini al pensiero che certamente scriverebbero la stessa, o saremmo assillati dall'ansia perchè scoppierebbe una guerra fratricida?»
Alla mia risposta che sottolineava come “il concetto di lavoro è lo stesso oggi come nel 1946”, egli ha così replicato: «credo che ci sia un'incomprensione, forse dettata dalle differenti visioni. Il lavoro non "sarebbe" cambiato. Lo è. Le aziende, ad esempio, si stanno più o meno velocemente deterritorializzando. Posso avere un cliente a Nuova Delhi che ordina a Milano una macchina il cui progetto viene realizzato in Germania, i cui disegni tecnici si fanno in Cina e la realizzazione dei cui componenti si fanno con macchine 3D in Svizzera, ecc. Il concetto di solidarietà tradizionalmente appartenente alla classe operaia si trasforma in concorrenza tra sconosciuti. Non le sembra che il concetto di diritto e di lavoro siano un po' mutati? Non è quindi una riforma in sè, indipendentemente dal fatto che sia fatta bene o male, a stravolgere la Costituzione, ma è la realtà che impone ad una democrazia che voglia dirsi tale di seguire i mutamenti di ciò che intende per popolo».
La realtà produttiva cambia e così avremmo il dovere di cambiare la Costituzione. La solidarietà caratteristica della classe operaia si è trasformata in concorrenza, quindi perché richiamare il lavoro nel primo articolo della Costituzione? Sono questi alcuni degli argomenti che hanno portato il governo alla realizzazione del cosiddetto “Jobs act”.
Innanzitutto non è vero che non si sa perché gli italiani, nella loro grande maggioranza, hanno votato NO. C’è chi, come l’istituto Cattaneo, ha fatto un’analisi dei flussi elettorali che consentono di capire che cosa abbia orientato il voto degli italiani. È banale dire che non possiamo essere certi al 100% ma a me sembra chiaro che ha pesato molto la situazione economica, visto che le percentuali di NO più alte si sono verificate nelle zone più povere e marginali del paese, di cui la Sardegna è certamente parte. Da un lato c’era il “sogno renziano”, quello concretizzatosi nel “jobs act”, dall’altro la realtà, fatta di disoccupazione e miseria diffusa, come i dati Istat, diffusi subito dopo il referendum, mettono in evidenza[3]. Ed è proprio il “Jobs act” a cui ha fatto riferimento una delle lettere che mi sono giunte. «Da due anni, non sentivo più parlare di suicidi – scrive una nostra lettrice - , si era avviata una lenta ripresa, mia figlia che lavora in banca a Bologna, aveva sentito di tanti giovani assunti grazie al Job Act… Le imprese negli ultimi nove mesi erano cresciute di 9000 unità…». Questa è la propaganda del “sogno renziano”. La realtà è diversa ed è fatta di migliaia di persone licenziate, magari assunte a “tempo indeterminato”, per consentire alle imprese di fruire degli incentivi previsti dal “jobs act”, ma poi licenziate dopo pochi mesi, perché in realtà il contratto a tempo indeterminato non esiste più. Ti possono licenziare in qualsiasi momento. E sono migliaia e migliaia i licenziati.
Non solo, ma la realtà è fatta di 'buoni lavoro', i cosiddetti voucher, che sono oramai diventati la forma prevalente di retribuzione che svalutano ancora di più il lavoro. E poi ci sono turni di lavoro massacranti. Ci sono settori della sanità in cui gli addetti, infermieri o medici, sono costretti a fare turni di 24 ore e con retribuzioni che sono quasi un optional. Mi riferisco a tutte quelle “cooperative” o “associazioni onlus”, che nulla hanno di cooperativo o di onlus, che operano nel settore delicatissimo dell’emergenza in regioni come il Lazio.
E a proposito del “Jobs Act”, segnalo che questa legge è letteralmente sparita dalla conferenza stampa di Matteo Renzi sui 1000 giorni del suo governo. Non c’è nelle slide della sua presentazione, non c’è nella email (Enews 456 - mercoledì 7 dicembre 2016 inviata da matteo@partitodemocratico.it ) che ci è giunta. C’è un lungo elenco di cose realizzate dal governo Renzi, non c’è il “Jobs act”. Sarà forse perché è quello che gli ha fatto perdere il referendum e alienato tutte le simpatie dei giovani che in maggioranza hanno votato NO?
La situazione di quella che il nostro lettore chiama deterritorializzazione delle imprese, spacciata come una novità assoluta, non è in realtà una cosa nuova. È una cosa che va avanti da oltre un secolo, risalendo alla seconda metà del 19° secolo, periodo nel quale cominciò la fase di concentrazione delle imprese capitalistiche, con la costituzione dei primi monopoli e con la loro progressiva internazionalizzazione. Quando fu scritta la Costituzione nel 1947, questi fenomeni erano già molto consolidati. Anzi sono stati proprio i monopoli di fine ‘800 ad essere i responsabili delle prime due guerre mondiali del ‘900. E sono stati proprio questi monopoli quelli che con le guerre si sono arricchiti.
Neppure mettere lavoratori di un paese contro lavoratori di altri paesi è una cosa nuova, anzi al contrario essa è vecchissima, risale ai tempi del “Manifesto del Partito Comunista” di Marx-Engels (1848), che si conclude proprio con l’appello “proletari di tutti i paesi unitevi”.
La stessa descrizione di cosa fanno oggi le grandi imprese multinazionali, che hanno i loro uffici e le loro fabbriche sparse in giro per il mondo, non mette in discussione la centralità del lavoro che è posta a base della nostra Costituzione, anzi è esattamente il contrario.
Ho esperienza diretta di processi produttivi come quello indicato dal nostro lettore e so che essi sono dettati solo ed esclusivamente dalla ricerca del massimo profitto,  che viene ottenuto sia a scapito dei lavoratori che svolgono l’intero ciclo produttivo, sia a scapito della stessa qualità del prodotto finito. I processi descritti dal nostro lettore, portano in genere alla perdita di controllo dell’intero processo produttivo che quasi sempre si traduce in un aumento dei tempi ed in perdita di conoscenza. È quello che tutti possono comprendere quando hanno, per esempio, fatto la segnalazione di un guasto sulla linea telefonica della propria abitazione. Quando tutto era nelle mani di una sola impresa la risoluzione del problema era abbastanza veloce perché le conoscenze erano concentrate. Oggi fra call center e ditte di appalto varie che gestiscono le centrali e le linee telefoniche, possono passare anche varie settimane o mesi per la risoluzione del problema. Ma è quello che si verifica anche in grandi processi industriali come quello, ad esempio, dell’aeronautica sia civile che militare. Importanti progetti multinazionali hanno avuto ritardi di anni o hanno avuto problemi tecnici gravi proprio per l’eccessiva parcellizzazione del lavoro che la deterritorializzazione comporta. In realtà quello della deterritorializzazione è un altro dei sogni del capitalismo imperialistico attuale che ancora domina sulla scena sociale mondiale ma che è destinato ad una fine miserevole. E questo perché fino a quando il lavoro sarà legato all’opera dell’uomo, alla sua cultura o alla sua manualità, il lavoro non potrà mai essere slegato da un ben preciso territorio, perché l’uomo (nel senso di maschio e femmina) vive in un determinato territorio e non potrà mai staccarsi dal suo contesto sociale, da affetti, da rapporti familiari e sociali, da una cultura e da quant’altro caratterizza la specie umana. In più l’uomo è un animale politico (Aristotele) «e in quanto tale è portato per natura a unirsi ai propri simili per formare delle comunità»[4].
Allora mettere il lavoro come punto fondante del nostro essere comunità nazionale, significa mettere al centro l’umanità che il lavoro ha insito in se. Al contrario la deterritorializzazione sancisce la insignificanza dell’uomo a favore dei profitti. Può una società umana fare a meno dell’uomo e non metterlo al centro della sua vita? Domanda ovviamente retorica!
L'art. 41 della nostra Costituzione stabilisce invece il principio che l'attività economica “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Stabilisce anche che apposite leggi avrebbero dovuto rendere concreto tale principio[5].
Si può sognare ovviamente quello che si vuole, ma io chiedo che senso ha una economia che non sia finalizzata all’utilità sociale ma solo al perseguimento della ricchezza da parte di coloro che detengono i mezzi di produzione (fabbriche e soldi)? O il profitto esclusivo per pochi o l’utilità sociale, c’è poco da fare. O una economia che dia a tutti di che vivere in modo equo, oppure la concentrazione di immense risorse economiche, e quindi anche politiche, in pochissime mani, con tutto quello che questo significa in termini di distruzione dell’ambiente e di ripetuti conflitti mondiali con possibile autodistruzione dell’umanità. Cioè quello che è oggi sotto i nostri occhi quotidianamente.
La nostra Costituzione indica la strada dell’utilità sociale dell’economia e quindi pone al suo centro il lavoro e non il suo sfruttamento selvaggio, come si sta oramai realizzando da troppi anni nel nostro paese.
Occorre allora riflettere su tutto questo. Il NO allo stravolgimento della Costituzione non può essere che la riaffermazione dei suoi principi fondamentali che devono trovare applicazione in tutte le istituzioni. Occorre dunque coniugare lavoro e sovranità popolare, come recita l’art. 1. Tutto il resto è tradimento.
Giovanni Sarubbi

NOTE
3Vedi «Istat: in Italia oltre una persona su quattro a rischio povertà o esclusione» ilsole24ore.com e istat.it
5Vedi Pillole di Costituzione(3) ildialogo.org



Domenica 11 Dicembre,2016 Ore: 17:52
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Mauro Matteucci Pistoia 12/12/2016 21.34
Titolo:
Caro Giovanni,
                   non posso ancora una volta che esprimere la più totale adesione al tuo puntuale e illuminante articolo. Vorrei aggiungere per i nostri delusi renziani solo il pensiero di un mio - e anche dell'ex-premier, che però si è ben guardato dal leggerlo - conterraneo toscano, Niccolò Machiavelli: i popoli, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedono, quando da uomo degno di fede è detto loro il vero. Certamente non era questo,  il caso del politico di Rignano!
Mauro Matteucci
 

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