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www.ildialogo.org Lavoro e dignità,di Giovanni Sarubbi

Editoriale
Lavoro e dignità

di Giovanni Sarubbi

Manifestazione dei lavoratori dell'ILVA di TarantoLa produzione deve andare avanti, costi quello che costi. L'ILVA ed i suoi proprietari vanno difesi senza se e senza ma. Se non si fa così è a rischio «la stessa vocazione industriale del nostro paese». Parola di Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria, le cui dichiarazioni sul sequestro degli impianti siderurgici dell'ILVA di Taranto sono state riportate con grande evidenza, manco a dirlo, da “Il sole 24 ore” che è il quotidiano della Confindustria. Squinzi ha anche manifestato «solidarietà e affetto a Emilio, a Nicola Riva e ai manager dell'azienda destinatari dei provvedimenti cautelari». Il presidente degli industriali si aspetta che sia «garantita la continuità dei processi produttivi dello stabilimento di Taranto e difesa l'ILVA nella sua interezza». Squinzi ha però dimenticato di chiedere la santificazione immediata della famiglia Riva, ma diamo tempo al tempo.

Ciò che sta capitando a Taranto è tutto racchiuso in queste dichiarazioni del presidente della Confindustria. Le imprese italiane non vogliono avere limiti di alcun tipo né legali né politici né sociali. Se per fare profitti bisogna inquinare lo si deve poter fare liberamente e nessun magistrato può mettere in discussione quello che per la Confindustria è un diritto intoccabile. La libertà di impresa, alias libertà di profitti sulla pelle dei lavoratori e delle popolazioni, è per la Confindustria un dogma intoccabile che non può essere messo in discussione da alcuno. Questo è il pensiero che ha prodotto il disastro ambientale di Taranto, ma prima di Taranto e solo per citarne alcuni, quello della Eternit di Casale Monferrato, o della Marlane di Praia a Mare, o della Isochimica di Avellino, o quello che ha ridotto alcune zone della Campania ad una discarica di rifiuti tossici industriali gestiti dalla camorra, o quello che sta distruggendo la Val D'Agri in Basilicata, dove l'ENI sta estraendo petrolio.

Ed è questo “pensiero unico” che domina i comportamenti nelle aziende e nella società di quegli stessi operai a cui viene di solito affidato il lavoro sporco. Sono infatti gli operai a compiere l'ultimo gesto, quello che diffonde veleni nell'ambiente. In tutti i casi di inquinamento ambientale che sono venuti a galla finora è sempre stato così. C'è un padrone che fissa le direttive e le sue aspettative di guadagno, poi c'è un dirigente che da delle disposizioni, un impiegato intermedio che fa da tramite, uno o più operai che materialmente inquinano, immettendo sostanze nocive nel terreno, in mare, nei fiumi, nei laghi o nell'aria. E le denunce arrivano quasi sempre quando qualcuno di questi operai si ammala e anche allora con grandi cautele e paura, perché gli operai sono la parte più debole e ricattabile del sistema economico capitalistico.

Ed è sempre questo “pensiero unico” che coinvolge e corrompe (sia ideologicamente che materialmente) le forze politiche e sociali, i partiti o i sindacati, i responsabili delle agenzie che dovrebbero combattere l'inquinamento e quella pletora di funzionari, di professori, di giornalisti o di avvocati che difendono a spada tratta i diritti delle imprese a fare quello che vogliono. Ovviamente ci sono le dovute eccezioni e fra queste non vi è quella del Governatore della Puglia Nichi Vendola che ha dichiarato: “Noi ci siamo sempre opposti ad un ambientalismo fondamentalista ed isterico di chi pensa che tra i beni da tutelare non ci debba essere il bene lavoro”. Non ci siamo accorti, finora, della decisa opposizione di Vendola contro quello che lui ha definito, con il suo linguaggio aulico e pomposo, “industrialismo cieco” quindi il suo è un attacco a senso unico contro gli ambientalisti (Vedi qui). Il “lavoro” diventa così un ricatto, non un modo per promuovere la dignità delle persone ma per consentire a chi il lavoro sfrutta di fare quello che vuole, calpestando tutto, dalle persone alle regole di convivenza civile sancite dalla nostra Costituzione.

In un paese dove i cittadini si sentono ripetere come una litania che non ci sono soldi per alcunché riguardi il bene comune (sanità, scuola, servizi sociali) spuntano dal nulla 300milioni di euro per consentire all'ILVA di continuare con la sua produzione. Ventimila posti di lavoro a rischio è lo spauracchio che viene agitato per impedire che i responsabili del disastro ambientale di Taranto paghino per ciò che hanno fatto. Cosa è questo se non completa subordinazione agli interessi del padrone dell'ILVA che dovrebbe di tasca sua procedere sia alla bonifica del territorio inquinato sia alla modifica sostanziale degli impianti?

Lo sciopero immediato degli operai di Taranto dopo la decisione della magistratura di sequestrare gli impianti dell'ILVA, è il segno evidente del prevalere di una ideologia e di comportamenti disumani anche fra chi è sfruttato nel modo peggiore possibile, come sono certamente gli operai siderurgici. Si difende il proprio diritto al lavoro ma, nel migliore dei casi, ci si astiene dal prendere posizione contro l'inquinamento ambientale che quel "lavoro" produce.

Stando alle statistiche diffuse in questi giorni, a Taranto ogni mese muoiono una decina di persone per malattie tumorali causate dall'inquinamento. Ho sentito dire a qualcuno che l'uomo non è eterno e che prima o poi si muore. Altri hanno parlato di “percentuali” di morti in linea con la media nazionale. Qualcun altro ha detto, comodamente seduto dietro alla propria scrivania, che “qualcuno deve pur farlo questo lavoro altrimenti niente progresso”. Come dire:«il sazio non crede a chi è affamato».

Si può chiamare lavoro quello che costringe gli operai a mettere a repentaglio la propria vita e quella di una intera popolazione e/o di un intero ecosistema? E che sindacato è quel sindacato che sulle questioni ambientali chiude tutti e due gli occhi le orecchie e la bocca proprio prendendo a pretesto la questione del “lavoro”? E che partiti sono quelli che per soddisfare l'ingordigia di qualche imprenditore calpestano la carta fondamentale del vivere civile rappresentata dalla nostra Costituzione per la quale l'attività economica «Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»? Ha più un senso la parola “dignità”?

Recuperare la coscienza e l'eticità delle proprie azioni, ecco il compito che sta davanti a chi voglia veramente dare un futuro a questo nostro paese e a questa nostra umanità. Business è uguale a morte, disastri ambientali, guerre. E' ora di cambiare.

Giovanni Sarubbi



Sabato 28 Luglio,2012 Ore: 16:21
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 28/7/2012 18.05
Titolo:Il grande ricatto tra lavoro e salute ...
Il grande ricatto tra lavoro e salute

di Guglielmo Ragozzino (il manifesto, 27.07.2012)

Cosa avrà deciso ieri pomeriggio il gip Patrizia Todisco? Avrà davvero firmato «il provvedimento di sequestro (senza facoltà d’uso) degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto, oppure avrà accolto i miti, unanimi consigli di governo, padronato, sindacato metalmeccanico, ricamati sul giornale della Confindustria? Si sarà fidata dei mediatori della Regione? Per una volta, il giornale non aveva rampogne, ma comprensione e sostegno ai lavoratori che bloccavano le strade nazionali e il centro della Città, si addensavano intorno alle sedi della giustizia e della politica, per difendere il proprio lavoro e insieme l’azienda e i proprietari Riva. Dal canto loro, i verdi - il presidente Bonelli è consigliere comunale a Taranto - descrivono una città divisa tra gli operai e chi non vuole morire di cancro.

Se i sindacati vogliono «fare presto», è per prendere la guida delle manifestazioni ed evitare che la situazione degeneri e diventi ingovernabile: in effetti si aspettano che la decisione del gip sarà contro di loro. I lavoratori sanno che il fermo dell’area a caldo bloccherà l’intera acciaieria e quindi porterà in un breve futuro al loro licenziamento; altre prospettive di lavoro - a Taranto! - non riescono a immaginarne. Tanto meno riescono a immaginare una città o forse un civiltà prive del loro prodotto, del loro orgoglioso lavoro: fare acciaio, base di tutto il resto che esiste al mondo. Riva è un pessimo padrone, dicono i metalmeccanici; ma spetta a noi dirlo, a nessun altro. Per competente che sia, un giudice non può condannare Riva e costringerlo a chiudere la fabbrica. La fabbrica è anche nostra che lavoriamo, che viviamo lì dentro. «Noi non meritiamo condanne».

D’altra parte la fabbrica di Riva è pericolosa da sempre e sono gli operai i primi a morirne. Nell’udienza preliminare di maggio per 30 dirigenti dell’Italsider, vecchio nome, poi mutato in quello ancora più vecchio di Ilva, risuona l’accusa di aver provocato la morte di 15 operai facendoli lavorare senza protezione in ambienti di gas tossici e amianto.

La risposta, a nome di tutti difensori della «fabbrica siderurgica più grande d’Europa», la fornisce in un’intervista lo stesso ministro dell’ambiente Clini che una volta di più parla all’incontrario su Il Sole 24 Ore: non si può condannare uno per vicende passate. «L’Ilva di Taranto non va fermata. Il giudizio sui rischi connessi ai processi industriali dello stabilimento va attualizzato». Qualche mese prima, in gennaio, dalla perizia veniva anche un’accusa un po’ diversa. Emergeva «la quantità rilevante di polveri rilasciata dagli impianti, anche dopo gli interventi di adeguamento».

Uno Stato padrone di sé avrebbe imposto un ciclo di riconversione degli impianti, con molti lavori in cui impiegare lavoratori competenti per tutto il tempo necessario. Il nostro Stato è pezzente e incatenato; quel poco che aveva lo ha ceduto all’Europa che lo costringe a non fare niente e poi lo rimprovera per non avere fatto niente. Possiamo sperare che un giudice più potente rovesci la decisione di Patrizia Todisco e si dia così, secondo il modello consueto, «tempo al tempo»?

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