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www.ildialogo.org UNA QUESTIONE NON SOLO LINGUISTICA DA DON MILANI A DANILO DOLCI LA LINGUA E IL VIRUS DEL DOMINIO,A cura di Raffaello Saffioti

VERSO I REFERENDUM - “BUONA SCUOLA” O “SCUOLA BUONA”?
UNA QUESTIONE NON SOLO LINGUISTICA DA DON MILANI A DANILO DOLCI LA LINGUA E IL VIRUS DEL DOMINIO

 TRA FILOSOFIA POLITICA ED EDUCAZIONE


A cura di Raffaello Saffioti

LA STAGIONE DEI REFERENDUM: COME INTERPRETARLA?
La già avviata “stagione dei referendum” inaugura una nuova fase della vita politica e c’è da chiedersi come interpretarla. Sono vari i temi oggetto dei quesiti referendari: scuola, ambiente, lavoro, beni comuni. Non hanno tutti la stessa importanza. Forse il più importante è quello che avrà luogo nel prossimo mese di ottobre e riguarda la riforma della Costituzione.
Anche senza volere definire la “stagione dei referendum”, come è stato fatto, “un passaggio epocale”, più modestamente è possibile interpretarla come una risposta della società civile e dei suoi movimenti alla crisi della democrazia rappresentativa, come esercizio della sovranità popolare, con la voglia di partecipazione dei cittadini alla vita politica.
Sarà una nuova stagione per la democrazia? Sarà l’esito dei referendum a dirlo.
IL REFERENDUM SULLA LEGGE DI RIFORMA DELLA SCUOLA
Uno dei referendum riguarda la Legge n. 107 del 13 luglio 2015: “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti”.
E’ una delle tanto sbandierate leggi di riforma del Governo Renzi, detta ormai volgarmente e scorrettamente “legge della buona scuola”. Prima e dopo la sua approvazione non sono mancate le contestazioni all’interno del mondo della scuola, sia da parte degli insegnanti che degli studenti, che hanno creato un vero movimento di protesta, con la messa in discussione della legittimità costituzionale della legge.
I poteri del dirigente scolastico, il comitato di valutazione dei docenti, l’alternanza scuola-lavoro: alcuni dei punti più contestati.
Ho già scritto di questa legge, prima della sua approvazione.[1]
Ora riprendo il tema della legge di riforma della scuola da un altro punto di vista: quello della ricerca del senso delle parole e della loro falsificazione.
Un esempio di anatomia lessicale-concettuale
Non è indifferente usare l’aggettivo “buona” prima o dopo la parola “scuola”. Cioè, non ha lo stesso significato dire “buona scuola” o “scuola buona”. Come, per esempio, non ha lo stesso significato dire “buona donna” o “donna buona”.
Il “Glossario delle frasi fatte” dice che è un insulto dire “buona donna”, che è un eufemismo per “prostituta”. Lo stesso significato si trova nel “Dizionario dei Modi di Dire”.
E’ un eufemismo dire “prostituta” per la scuola riformata del Governo Renzi?
QUANDO DICIAMO “SCUOLA”
DON LORENZO MILANI E LA “SCUOLA BUONA”
La locuzione “scuola buona”, invece, appartiene a don LORENZO MILANI che l’ha usata nella famosa Lettera ai Giudici (del 18 ottobre 1965).
Don MILANI scrisse la Lettera per difendersi dall’accusa di apologia di reato, nel processo intentatogli dai Cappellani Militari Toscani, per avere egli difeso gli obiettori di coscienza al servizio militare.
Nella Lettera don Milani cercò di “spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola”, per rispondere alla domanda “che cos’è la scuola” e dire chi è il maestro.
Se il Presidente del Consiglio avesse letto don Milani, avrebbe evitato di battezzare la sua Legge col nome di “buona scuola”. Il suo dizionario è chiaramente significativo della sua cultura.
La concezione della scuola, la filosofia dell’educazione e quella politica del Presidente del Consiglio, sono lontanissime, se non antitetiche, a quelle del Priore di Barbiana.
Nel nostro tempo siamo continuamente minacciati da una forma di inquinamento, culturale-mentale, particolarmente pericolosa. Per resistere e difendersi, è necessario divenirne consapevoli, attraverso l’educazione linguistica. Bisogna imparare a usare il vocabolario, per esprimersi ed intendere il senso autentico delle parole.
Come dire: imparare a comunicare.
DA DON MILANI A DANILO DOLCI
DOLCI (1924-1997) è ormai considerato uno dei più grandi Maestri della nonviolenza del ventesimo secolo e si è guadagnato un posto nella storia dell’educazione.
Nella mia Lettera al Direttore de “il dialogo” del 3 aprile scorso, col titolo “Danilo Dolci dal trasmettere al comunicare” ho ricordato il discorso da lui fatto ricevendo la laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione dall’Università di Bologna nel 1996, l’anno prima della sua morte.
In quella occasione denunciò lo stato confusionale, proprio in senso medico, in cui versa oggi l’umanità, secondo la diagnosi di psicologi, psichiatri e neurologi. E disse di alcune chiavi per diagnosticare uno “stato confusionale”.
Per esempio, indicò come non si sappia distinguere potere da dominio e trasmettere da comunicare.
L’opera Comunicare, legge della vita (a cura di Danilo Dolci) venne pubblicata da La Nuova Italia, nel 1997, nella collana “Educatori Antichi e Moderni”.
L’opera è un Manifesto in fieri sul tema comunicare.
Essa condensa la ricerca-azione degli ultimi dieci anni della vita di Dolci, può essere considerata come un testamento spirituale e rivela la sua attualità a circa vent’anni dalla sua pubblicazione.
Più che da leggere, l’opera è da studiare. Dato il suo valore educativo, può essere proposta per l’adozione nelle scuole come classico di pedagogia.
Nella Premessa Dolci ha scritto:
Scontrando l’andazzo di camuffare la trasmissione per comunicazione, di camuffare il dominio spacciandolo per potere, si diagnostica nel dominio – che restaura strategie, strumenti ed apparati, modernamente – la profonda patogenesi, virale, dei nostri mali: il dominio infetta i rapporti, è un guasto parassitico. Analizzando le caratteristiche essenziali di questo virus nella sua formula moderna, si mira a identificare le concrete terapie, i profondi interventi necessari ai diversi livelli personali e strutturali per apprendere a comunicare.
Questo libro (nato da conversazioni con amici preoccupati dello stato confusionale del mondo: particolarmente Noam Chomsky, Paulo Freire, Mario Luzi e Jurgen Habermas) prova umilmente ad ampliare nelle diverse lingue culture una complessa chiarificazione indispensabile a rianimare la crescita della vita nel nostro pianeta.
Un testo che propone di osservare da inusuali punti di vista invitandoci a scrostare la mente, ad una prima lettura non può risultarci che strano, arduo. Il semplice, sovente, non è facile: tanto meno il complesso, nelle ipotesi da verificare. (p. IX)
L’APPENDICE a questo articolo riporta una serie di passi scelti da Comunicare, legge della vita, sotto il titolo “SCUOLA POLITICA EDUCAZIONE”, e il sottotitolo “PER IMPARARE A COMUNICARE”.
Roma, 10 aprile 2016
Raffaello Saffioti
Centro Gandhi
Associazione Florense per lo Sviluppo Creativo
P.S. E’ da notare che questo scritto si collega con due miei scritti precedenti, pubblicati da “il dialogo”:
1) “La scuola buona (e quella cattiva). Rileggendo la Lettera a una professoressa” (25 giugno 2015);
2) “Danilo Dolci dal trasmettere al comunicare” (3 aprile 2016).
APPENDICE
SCUOLA POLITICA EDUCAZIONE
PER IMPARARE A COMUNICARE
Passi scelti da: DANILO DOLCI (a cura di), Comunicare, legge della vita, La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Fi), 1997
I
Il vocabolario è anche uno specchio: per valorizzarlo, ad esprimersi e intendere, occorre imparare a scegliere. Quale il senso delle nostre parole? Che ci significano? (p. 3)
II
Il verbo potere esprime «avere la possibilità di», «essere capace di», «avere il diritto di», «essere probabile», «essere desiderabile e augurabile», «essere in condizione di», «riuscire a», «avere la forza di», «essere efficace a», «riuscire a».
Come sostantivo, potere indica «potenzialità», «forza», «virtù», «facoltà di operare», «attitudine a influenzare situazioni», «quanto è consentito dalla volontà e dalla disponibilità del soggetto». Imparare a esprimere il potere personale è per ognuno un bisogno, pratico e intimo, a diversi livelli, connesso all’esigenza di essere creativo.
Il concetto di forza, energia, connesso a quello di potere, accentua l’attitudine a reggere e resistere, il vigore naturale dell’uomo sano, la capacità di modificare l’inerzia, la capacità di reagire, la validità.
(p. 3)
III
Se nonviolento, il potere considera anche la responsabilità dell’agire nei riguardi del futuro. Fonte del potere è il senso della generativa necessità che si esprime, in ogni energia, dall’albero della vita.
Il potere personale o di gruppo, come la libertà, valorizza la propria forza vitale fin ove inizia la profonda necessità dell’altro, degli altri, e in collaborazione con l’altro. Quando pretende sottomettere l’altro, diviene dominio. (p. 4)
IV
Un sano potere non è in antitesi con la natura (quale natura?) ma ne valorizza e integra i pur diversi slanci rapportandosi (anche in conflitto) nonviolentemente. Necessità e profondi desideri cercano strutturarsi: il potere di ognuno cerca esprimersi, liberarsi, imparando a integrarsi. (p. 4)
V
La malattia del potere, la malattia della forza, l’uso insano della forza e del potere sono appunto violenza, dominio, dispotismo. Non si può realizzare una società civile senza imparare a distinguere forza-potere da violenza-dominio. (p. 4)
VI
La parola assume il senso suo interpretando il mondo, nel tentativo di esprimere una visione della vita. Vi è un maturare dei significati e un involversi. (p. 5)
VII
Non il culto della debolezza ci serve, il rifiuto di conoscere (che erompe dilagando proprio dalle scuole in cui si esercita l’imposizione e il dominio), il rifiuto di valorizzare il necessario potere. Potere nonviolento non è affatto rinunzia. Sovente il dominio vince dove il potere potenziale abdica, rinunzia (per mancanza di chiarezza, fiducia, coraggio? O di esperienza, nuova prospettiva?).
La forza, oltre ogni sua specie brutale o magica, viene eticamente avvertito, si esprime più pura nell’agire dell’amore in cui anche il debole è evocato e confortato a esistere. (pp. 5-6)
VIII
Correggersi dalla losca confusione fra potere e dominio non finisce mai, sempre occorre distinguere scoprendo.
… Sovente il potere può scadere nel dominio senza che i partecipanti ai rapporti ne abbiano coscienza. Tipico è il caso degli adepti di un ammirato guru, anche “politico” o “religioso”, se la gente china la testa ad ascoltare “come si fa”, ad imparare “come si deve fare” eventualmente scrivendo appunti per non dimenticare, spegnendo implicitamente nell’imitazione la propria critica creatività. E’ uno dei modi di diffondersi del conformismo. Ma, come è stato acutamente osservato, mentre al potere occorre rinnovarsi e personalizzarsi, “i funzionari del dominio divengono sostituibili, la funzione del dominio permane”. (p. 6)
IX
Oltre “l’aspettativa del bottino”, strumento fondamentale del dominio diviene il sistema clientelare-mafioso – talora assunto anche a livello di partito politico – che, con le sue norme e le sue regole, dietro il cartello di democrazia tende a eliminare i concorrenti. (p. 6)
X
Interessante è il rapporto critico-esegetico con la parola dominio usata nella Genesi biblica. Il comandamento di soggiogare e dominare la terra e ogni essere vivente viene ora rimediato. E’ stato recentemente osservato che i termini ebraici kàbas e ràda, «le espressioni più aspre e brutali di dominio», significano effettivamente calpestare e camminare sopra: ma l’interpretazione “pentita” spiega che qui il dominare «comprende le eccezioni di guidare, reggere, comandare, pascolare» nella antica prospettiva che vedeva i re come pastori di popoli.
E’ un “pentimento” che si arrampica sui vetri dell’“aggiornamento” nei riguardi della proposta nonviolenta ecologica? Perché no? Importante è che questa essenziale revisione, pure se è per certi aspetti alla retroguardia della scoperta, pure se ancora insufficiente, cerchi avvenire ampliandosi. (p. 6)
XI
Nel cercare di dominare, anche a livello mondiale, vi è pure una insana componente culturale, finché il dominio è riguardato come un valore, invece di vergognarsene.
Come dovremmo ormai sapere, estremamente pericoloso è concentrare poteri, illimitati o quasi, nelle mani di pochi: sovente rovinoso. Il dominare, perversione di origine psicopatologica, distorce, rattrappisce e parassita l’interesse delle creature, passivizzate, se non sanno resistervi. (p. 7)
XII
Se vivere è imparare ad adattarsi adattando, l’invenzione e l’impiego di un nuovo nostro potere costituiscono la creatività (ha la stessa origine di crescere): «connettere il preesistente in modo nuovo», «concepire», «suscitare generando». Chi asserve non sa, non può, costruire la città e la politica. (p. 8)
XIII
Mentre il trasmettere può essere violento o nonviolento, inquinante o no, il comunicare essenzialmente è sincero e nonviolento, pure quando conflittuale. Mentre esiste un trasmettere che tende al comunicare (ad es. la domanda, la proposta d’amore), un rapporto esclusivamente e continuativamente unidirezionale tra una persona e un’altra, tra una persona e altre, nel tempo risulta – di fatto – violento: non esiste né può esistere alcuna comunicazione esclusivamente unidirezionale.
Uno scambio (se compro ad esempio un giornale e ne do il prezzo) non è ancora comunicare: e talora è solo «prendere una persona o una cosa per un’altra, per errore, distrazione e sim.». (p. 8)
XIV
Comunicare è intimamente connesso a creatività e a crescere: non si può essere creativi senza comunicare, né si può comunicare senza essere creativi. Silenzioso o esplicito, il vero comunicare non altera ma potenzia l’intimo segreto di ognuno; esercitare il proprio sano potere (radicato nel conoscere), essere creativi, è una necessità per ognuno: tutti abbiamo bisogno che ognuno sia creativo, comunicante, pur coraggiosamente. Il chiudersi (individuale, di gruppo, collettivo) inaridisce vite e prospettive.
Pur se può avviarsi da un impulso, il comunicare autentico matura solo se e quando cresce almeno tra due creature una specifica interazione che nel reciproco fecondarsi non esclude ma implica contemplativamente il resto del mondo. L’interagire comunicativo comprende il dialogo (dia-logos attraverso il logos: la parola-scienza si verifica nell’esperienza del confronto) ma non vi si identifica. (p. 8)
XV
Al desiderio di comunicare occorre un codice comune, pur non verbale, ma non basta: occorre anche una certa esperienza e un minimo concepire affine, disponibile ad ampliarsi nel confronto. Sincero, dice l’antica esperienza, è chi tende a crescere insieme; sincerità è provare a divenire uno. La struttura dell’esprimersi non dipende solo dalla profondità dell’intimo radicarsi meditativo, ma anche dalla integrativa coerenza della relazione in cui, maturando, si esplicita. Consentire o no, distinguere il più vero dal meno vero o dal falso, non è solo operazione linguistica. Il comunicare è anche modo di esistere, operare, vivere poetico. In tutte le implicazioni, anche economiche. Il falso e l’inquinante ritardano e, talora, bloccano la vita; per guarire, quando si riesce, talora occorre la fatica di anni, secoli. (pp. 8-9)
XVI
E’ soprattutto l’attitudine al comunicare strutturante che favorisce l’evoluzione della specie. E in particolare dell’uomo, anche attraverso il linguaggio, materia-creatura che sopravvive a chi l’inventa, espressione della scoperta coorganizzata, espressione mentale-emozionale che riesce a «scatenare mutualmente anche cambiamenti ormonali e fisiologici», riesce a influenzare il coerente sistema nervoso di ognuno. (p. 9)
XVII
In questa epoca si insalda nel mondo la tendenza per cui, con l’impiego strategico di potenti quanto sottili strumenti unidirezionali (la scuola trasmissiva che confeziona ragazzi in serie, la televisione inoculatrice, la propaganda-pubblicità che incide elettronicamente il cervello ecc.), pochi gruppi di scaltri guidano colonizzando l’esistenza delle maggioranze rendendole passive, succubi. Questo dominio parassitario, antica malattia virale rimodernata, sta ora investendo prestigiosamente non soltanto gli uomini ma tutta la natura. Mentre è stato ampiamente accertato nell’ultimo secolo che anche lo sviluppo cognitivo è per massima parte correlato alla effettiva capacità di interagire, comunicare, scoprire. (p. 9)
XVIII
Il dominio deforma a poco a poco al proprio uso il concepire, succhia il valore alle parole vive. (p. 10)
XIX
Ricordiamo Silone, in Pane e vino: «In nessun secolo la parola è stata così pervertita, come ora lo è, dal suo scopo naturale, che è quello di far comunicare gli uomini».
… per interpretare – e interagire opportunamente con – un messaggio, occorre riconoscere la profonda struttura espressa dalle parole chiave di quel messaggio, di quella lingua. Peggio della moneta falsa è la parola falsa: soprattutto se usata per insegnarla. Infamando la lingua, infamiamo noi e la terra. (p. 11)
XX
Chi è cronicamente passivizzato risulta, anche in senso medico, depresso, pur non sapendolo, pur non conoscendone le cause: è compromessa la sua capacità di vivere, e non soltanto la sua. (p. 12)
XXI
Oggi più che mai saper distinguere trasmettere da comunicare è operazione non solo mentalmente essenziale alla crescita democratica del mondo: la creatività di ognuno, se valorizzata comunitariamente, acquista un enorme potere ora in massima parte sprecato. (p. 13)
XXII
NON DOBBIAMO TEMERE LA DIAGNOSI
Una malattia ci intossica e impedisce: la vita del mondo è affetta dal virus del dominio, pericolosamente soffre di rapporti sbagliati.
… Talmente abituati siamo a questa malattia, che ci è arduo concepire la salute. Sappiamo quale mondo vogliamo?
L’antico virus va tramando strategie inedite. Una frode sottile ma vasta degenera il mondo, acuta, sistematica, mentre il rapporto esclusivamente unidirezionale nel tempo tende a passivizzare l’altro, gli altri, e a divenire violento. Ove le bombe non bastano, l’inoculazione, la trasmissione propagandistica vengono più e più camuffate da comunicazione.
Malgrado puntuali denunce, finora inadeguate, questa strategia (condotta da persone, gruppi, Stati) subdolamente tende a strumentalizzare le gente, rendendola indifesa e acquiescente. Il bambino, il giovane, il passante nella strada difficilmente può difendersi dalla ingegneria del consenso finché non sa che esiste, e come ordisce, sostenuta da apparati e investimenti smisurati. (p. 17)
XXIII
I maggiormente pericolosi predatori e parassiti umani perlopiù ragnano legalmente o nell’oscuro. Svariati i modi del manipolare – e del dipendere. Sovente l’usurpatore e i suoi strumenti vengono esaltati e incentivati dagli stessi oppressi. Insano è frodare, ma anche lasciarsi parassitare, divenendo complici. L’adeguarsi all’ordine del dominio implica sia la responsabilità del dominatore che quella di chi si lascia dominare.
Tanto più a fondo questo contagio penetra quanto più riesce ad assoldare anche notevole parte degli istituti universitari, accademici e scolastici, oltre ai quadri politico-industriali direttamente implicati e, ovviamente, gli stessi loro mezzi di informazione: spacciandosi, talora con inconscio cinismo, per scientifico progresso. (pp. 17-18)
XXIV
Molti strumenti del dominio sfuggono al controllo democratico, sfuggono alla coscienza popolare.
La massima parte dell’informazione mondiale entro poco tempo rischia di essere concentrata, filtrata e adulterata da pochi gruppi dominanti. Il falsare erode, corrompe, disintegra la vita.
Arduo è liberarsi dall’inganno che diventa norma. Chi non medita, non pensa liberamente, non distingue fra l’ipnotizzante trasmettere e il comunicare. (p. 18)
XXV
Il rilassarsi degli inconsci schiavi combinato all’inoculato armarsi di chi domina, ormai guasta il mondo. Non poter esprimersi, non poter comunicare, ammala, uccide. Il non saper comunicare occorre sia studiato come malattia da guarire. (p. 19)
XXVI
Tra i muri della scuola in cui manchi l’educatore autentico, si trasmettono dati, tecniche, ma la conoscenza è un processo che ognuno deve ricrearsi e comparare nel rispetto del senso critico: se l’insegnante inculca, ammaestra ed esamina (e talora la lingua gli diventa una bacchetta), non cresce il dialogo della ricerca, nemmeno ci si conosce. Quando una scuola pretende insegnare valori mentre praticamente li rinnega, invece di favorire in ognuno un coerente rapporto critico verso il mondo in cui viviamo; se una scuola reclamizza l’amore mentre abitua a giustificare i privilegi e a dominare le creature; se una scuola non educa alla necessaria lotta nonviolenta, mentre spegne ai poveri la creatività necessaria per risanare il mondo: questa scuola corrompe, ammaestrando all’ipocrisia. (p. 20)
XXVII
Ove non riesca a inserirsi la coraggiosa iniziativa organizzata di autentici educatori, chi domina fa addomesticare “scientificamente” anche nelle scuole ragazzi e giovani (seppure in modo più complesso, non differentemente da come vengono riguardati, ammaestrati e plagiati gli altri animali domestici): teme e distrugge a poco a poco la crescita della loro creatività e della loro organica unità. Abitua a poco a poco, castrando abitua a “oggettivarsi”. (p. 23)
XXVIII
Se si osservano attentamente le maggiori sofferenze nelle scuole di ogni parte del mondo, le più gravi difficoltà alla crescita dei giovani, si può rilevare una costante: i giovani non vi imparano né a comunicare davvero né a esercitare il proprio potere. Imparano usualmente a divenire esecutori. (p. 23)
XXIX
Mentre schiere di precettori continuano ad insegnare la propria ignoranza, già all’inizio del secolo Maria Montessori aveva dichiarato:
La nuova educazione è una rivoluzione nonviolenta.
Costruire la pace è opera dell’educazione. (p. 24)
XXX
Arduo è scrostarci la mente da quanto i precettori succubi del dominio, giorno per giorno in decenni, secoli, millenni, sono riusciti a somministrarci: scrostarci e liberarci dai dogmi storici che ci impediscono di rinnovare il sistema dei nostri rapporti. (p. 27)
XXXI
Moltiplicare ovunque possibile la sperimentazione di metodologie relazionali che favoriscano lo sviluppo della individualità personale e collettiva, imparando a connettere fecondamente le ‘teste di ponte’ in un valido fronte: non è una impellente necessità alla salute del mondo? (p. 28)
XXXII
Non certo indottrinando moltitudini: non vi è liberazione, mondo nuovo, senza impegno maieutico, per sé e ciascun altro. (p. 29)
XXXIII
Per lo smascheramento del sistema di dominio non si può generalmente contare sull’aiuto dei cosiddetti “mass media”, espressione unidirezionale di una deformante cultura (le fonti che si dichiarano libere potranno quindi trovare un pubblico banco di prova della loro effettiva autonomia): tendono a trasmettere televisivamente finanche corsi universitari e messe (che dovrebbero consistere in spazi di ricerca e iniziativa comunitaria), a ridurre a spettacolo sia lo sport che l’evento religioso, snaturando la Festa che degenera nel massificante teleassorbire.
Spettacoli elettronici, pilotati da esperti in confezioni di immagini vincenti, più e più sostituiscono l’effettivo approfondimento del radicato dibattito politico, e avvezzano a dipendere dal dominante. (p. 42)
XXXIV
Rivoluzione autentica non è mobilitare processi maieutici in cui cresca, dall’organizzazione, la forza necessaria per cambiare? Il potenziale del comunicare maieutico è soltanto al suo inizio, in scala planetaria è da scoprire: contro ogni preteso monopolio annunzia la responsabilità di una nuova rivoluzione, immensa, per ogni prossima generazione. La fissità dell’ammaestramento unidirezionale, screpolata da secoli, comincia a vacillare. Guardare il mondo tenendo presente le possibilità della struttura maieutica, è un po’ come il vedere di Galileo al nuovo telescopio. (p. 45)
***
A cura di Raffaello Saffioti
Roma, 10 aprile 2016

NOTE

1 RAFFAELLO SAFFIOTI, “La scuola buona (e quella cattiva). Rileggendo la Lettera a una professoressa”, nel giornale on line “il dialogo” del 25 giugno 2015.
 



Lunedì 11 Aprile,2016 Ore: 16:47
 
 
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