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www.ildialogo.org Per una società aperta, al di là di una scienza “su palafitte” e di una cecità “preistorica”, necessaria un’altra soggettività.,Un nota di Federico La Sala

Editoriale
Per una società aperta, al di là di una scienza “su palafitte” e di una cecità “preistorica”, necessaria un’altra soggettività.

Un nota di Federico La Sala

Un contributo al XXIII Congresso del Movimento Nonviolento (Brescia, 29-31 ottobre e primo novembre 2010): “La nonviolenza per una città aperta”.


Premessa
TERRA E SANGUE,  VIOLENZA E GUERRA, SONO PERVERSAMENTE ANNIDATE NEL CUORE E NELL’INTELLIGENZA DELL’INTERO GENERE UMANO: IL CAMMINO CHE ABBIAMO FATTO FINO AD OGGI E’ STATO SOLO UN MARCIARE SUL POSTO – UNA LUNGA “PREISTORIA”! 
Da sempre la nonviolenza è in cammino, ma la testa (e l’immaginazione) dell’intero movimento umano è stata sempre e solo governata e guidata  dalla testa  (e dalla immaginazione) dell’ “uomo”. E’ da qui  - da questa parola  e da questa condizione  - che bisogna ripartire, se vogliamo che le nostre ‘teste’ depongano finalmente elmi ed armi , paure e astuzie,  proprie di esseri umani ancora “cavernicoli”: occorre pensare da sé con sé (“come un altro”) e partire da sé, mettersi in cammino con sé   (“come un altro”) – senza armi né bagagli del vecchio “uomo”. 
La nonviolenza per la società aperta non è la via dell’ “uomo”,  ma l’unica via per la città aperta a tutti gli esseri umani (non all’ “uomo”!). Per questa città, nessuno chiede deleghe a nessuno,  e nessuno vuole deleghe da nessuno: richiede autonomia, coraggio, e rispetto della propria e altrui dignità. La via, già alla base stessa della nostra Costituzione, è segnata dalla stella polare degli esseri umani usciti dalla guerra e dalla “cultura” della “terra e del sangue”, che non vogliono più tornare indietro nella giungla e nella caverna. Libertà, uguaglianza, e fraternità  non sono parole scritte sulla bandiera del faraone di turno, ma  vivono, crescono, e riposano solo nella propria consapevolezza critica e nel rispetto della propria e altrui sovranità. Diversamente, non si può entrare e non si può vivere nella città aperta –  questa, altrimenti,  o è un sogno lastricato di buone intenzioni o una trappola di un mentitore, di un faraone,  per ricostruire la sua piramide!
Facoltà di giudizio  e creatività
Ormai è più che evidente: siamo sempre più intelligenti e sempre più creativi, ma anche sempre più stupidi e cretini - pericolosamente! Come mai?!, come è possibile?! Forse vale la pena svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e cercare di raccapezzarci un poco sul problema. Una grande opportunità per cominciare (o ricominciare) a pensarci, è leggere (o rileggere) un importante contributo di Emilio Garroni, intitolato “Creatività”: questo testo, apparso per la prima volta nel 1978 all’interno della “Enciclopedia” Einuadi, è stato ora ripreso in volumetto autonomo, con prefazione di Paolo Virno, dalle edizioni “Quodlibet” di Macerata. In tale saggio, Garroni (morto nel 2005) fornisce alcune indicazioni di straordinaria produttività, che ancora non sono state ben soppesate, e che meritano di essere riconsiderate con grande attenzione.
E, cosa originale e degna di rilievo, è che , al centro del suo discorso al fine di impostare meglio il problema della creatività, emerge in posizione chiave non solo l’indicazione di una sorprendente ipotesi di rilettura di Kant ma anche la ripresa e il rilancio del programma illuministico kantiano dell’uscita dallo stato di minorità. E per questo, oggi più di ieri, abbiamo bisogno non solo di una critica delle idee tradizionali - ancora dominanti e diffuse - sulla “creatività” ma anche e soprattutto della nostra (di esseri umani) decisiva e fondamentale facoltà di giudizio.
Per cominciare, e contribuire a capire tutta la portata del contributo di Emilio Garroni, è da dire che della creatività - la questione di tutte le questioni di tutta l’umanità (non - come la nostra millenaria tradizione vuole - solo del genio, dell’artista, del poeta, del visionario o del metafisico), noi (esseri umani) - ancora oggi - non abbiamo trovato risposte soddisfacenti e siamo ancora incapaci di formularla e rispondervi in modo critico (a tutti i livelli). E così, con una facoltà di giudizio e con un’idea confusa di creatività (e, con essa, di creazione), continuiamo a vivere come sudditi ciechi e zoppi di un’antichissima antropologia (con i suoi riflessi cosmologici e teologici) indegna della nostra stessa umanità (cosmicità e ‘divinità’).
Incapaci di prendere la giusta distanza da noi stessi, di portare noi stessi al di là noi stessi, non sappiamo ancora nulla né di noi, né del nostro mondo, né di Dio. Detto altrimenti, e semplicemente: siamo ancora ignoti a noi stessi (Nietzsche). E la ragione è presto detta: abbiamo preferito e preferiamo più le tenebre che la luce, e, anzi, siamo stati e siamo ancora ben intenti a spegnere in tutti i modi possibili e immaginabili la lampada kantiana del “Sàpere aude!”, del coraggio di servirsi della propria intelligenza! Avendo paura della morte e del nulla, stiamo ancora a trastullarci con l’amletica domanda. (“essere o non essere?”) e non sappiamo nulla (dell’“Essere”) di “Fortebraccio” (Shakespeare, Amleto)!
Si è preferito e si preferisce affidarsi e obbedire al “grande codice” della “creatività” della tradizione occidentale (atea e devota), essere governati dalle sue regole - negare le domande che vengono a noi stessi da noi stessi e seguire noncuranti la corrente, come cadaveri o come robot - senza più alcuna consapevolezza e libertà!
Amici di Platone e di Aristotele, più ch e amici della verità e di noi stessi, continuiamo da secoli e secoli a risolvere i nostri problemi con le regole da loro concepite con la loro grande creatività e abilità! Bisogna riconoscerlo: grazie alla loro creatività, essi hanno codificato regole potentissime per risolvere i problemi del loro mondo e noi siamo stati e siamo così bravi ad applicarle che, facendo esercizi su esercizi, abbiamo saputo estenderle a tutta la Terra (all’intero universo e all’intero aldilà).
Ma ora sta succedendo che il loro mondo - e la loro creatività (basata sul riconoscimento e sul ritrovamento dei loro “modelli” pre-registrati e pre-esistenti, codificati per la eternizzazione del loro mondo e della loro memoria) - ci sta scoppiando intorno, sopra, e dentro la testa, e non sappiamo più che cosa fare. Sempre più ci rendiamo conto che le loro regole per risolvere i nostri problemi sono inadeguate e inadatte per noi stessi e per la nostra stessa sopravvivenza, ma noi insistiamo ad affrontarli - e sempre più stupidamente - come se fossero esercizi da risolvere, con le loro regole - quelle fondate sul codice della creatività del mondo di Platone e Aristotele!
Noi della creatività nel senso pieno del termine - così come di noi stessi, della nostra facoltà di giudizio, e della nostra libertà! - non sappiamo più nulla e ovviamente, non sapendo nulla, ricadiamo continuamente nella loro soluzione e nelle braccia del loro re-filosofo (il visioniario-metafisico di turno). Questo il problema e questa l’urgenza: sapere della creazione, della produzione del nuovo, della creatività del comportamento di tutti gli esseri umani e a tutti i livelli, non limitatamente alla sola “creatività” esecutiva - all’abile intelligenza di sudditi o di animali in trappola - nella “caverna” universale (‘cattolica’) di Platone.
Bisogna pensare in modo nuovo, e in altro modo - e tenere presente che, se pure tutto viene dall’esperienza, non tutto si riduce all’esperienza. Cominciamo da noi stessi, esseri umani dotati di due mani, di due piedi, due occhi, due orecchi, una testa (con due emisferi cerebrali), una bocca ... Limitiamoci a considerare la questione partendo dagli organi della vista, dagli occhi. E’ esperienza comune vedere, ma non è affatto comune - né nella vita culturale né nella vita quotidiana degli esseri umani - pensare nel pieno senso della parola che noi vediamo ciò che vediamo grazie all’azione unitaria e combinata di tutti e due gli occhi; e continuiamo a vedere e a pensare come se - avendo una sola testa (e una sola bocca) - avessimo un solo occhio (un solo orecchio, una sola mano e un solo piede)!
Ci illudiamo di essere tutti e tutte delle grandi ‘volpi’, degli eroi (Ulisse) e delle eroine (Penelope), ma in fondo stiamo solo illudendoci sulla nostra condizione: in verità, siamo solo e ancora degli esseri umani ‘preistorici’, con un solo occhio, un solo orecchio, una sola mano, un solo piede, una sola bocca, una sola testa, e ... un solo genere sessuale - degli esseri ciclopici, che hanno paura di aprire tutti e due gli occhi e pensare davvero con una sola testa - all’altezza del nostro presente storico! Nutriti da ‘bibliche’ e ‘platoniche’ illusioni, continuiamo a vivere come dei bambini e delle bambine che non vogliono crescere e, da millenni, a cantare il ritornello di questa ‘visione’ ballando su un solo piede (non solo a livello del senso comune, ma anche e soprattutto della scienza e della filosofia).
Dopo Copernico, e dopo la rivoluzione copernicana di Kant, ancora non ci siamo imbarcati e ancora non sappiamo nulla dell’esperienza della nave (cfr.: G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi) e, ovviamente, pensiamo e crediamo che ciò (dall’essere più piccolo al più grande - in terra, in cielo, e in ogni luogo e in ogni tempo) che noi vediamo davanti a nostri occhi sia l’“oggetto” e che noi, esseri umani (dal più piccolo al più grande - in terra, in cielo, e in ogni luogo e in ogni tempo), siamo il “soggetto” e il “fondamento” di ciò che vediamo, segniamo e nominiamo, con la nostra testa con un solo occhio, con un solo orecchio, con una sola mano, e con la nostra mono-tona bocca e ... con il nostro unico genere sessuale - quella dell’Adamo terrestre e dell’Adamo celeste, del “dio” in terra e del “Dio” in cielo!
In questo orizzonte sacrale (ateo e devoto), in cui “un uomo più una donna - come ha scritto Franca Ongaro Basaglia - ha prodotto, per secoli, un uomo”, s’inscrive il potere della “creatività” e della “dignità dell’uomo” (Pico della Mirandola) - quella dell’Homo sapiens sapiens (Linneo, 1758), dell’ “uomo supremo” e del “dio supremo”! E questa è la “verità” del geocentrico e antropocentrico (ma più correttamente si dovrebbe dire ‘andro-pocentrico’, perché qui si parla appunto di “andro-pologia”, e di “andr-agathia”, cioè della comunità e del dio degli “uomini valorosi”, degli “uomini virtuosi”) dello Spirito Assoluto occidentale: dell’”Io che è Noi, e Noi che è Io” (Hegel)!
Ora, per capire meglio quanto premesso e, al contempo, la novità del discorso portato avanti da Garroni, conviene partire da questa sua considerazione: “Kant è sicuramente più noto come il filosofo delle “condizioni a priori dell’esperienza”, che non come il teorico della “creatività”: e, anzi, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, svolto soprattutto nella terza Critica e negli scritti adiacenti, egli è stato più volte non del tutto correttamente interpretato o addirittura frainteso”.
Questo il cuore del problema: qui, sotto le vesti di una normale e attenta precisazione filologica, in verità, c’è una dichiarazione di portata enorme: una assunzione di coscienza e di responsabilità decisiva per restituire a Kant tutta la sua grandezza e a noi stessi e a noi stesse la possibilità di diventare esseri umani maggiorenni - uscire da interi millenni di labirinto e da uno stato di minorità di lunghissima durata. E cominciare a capire, infine, quanto questa incomprensione sia stata e sia all’origine della nostra passata e presente catastrofe culturale - la catastrofe dell’intera cultura europea.
Ciò che la considerazione di Garroni mette in evidenza è qualcosa che generazioni e generazioni di studiosi e studiose dell’opera di Kant non hanno ancora colto nel suo pieno senso: l’aver egli inaugurato “un apriorismo di tipo nuovo, caratterizzato dall’istanza di risalire dal condizionato, dai fatti stessi, in un certo senso alle loro condizioni, adeguate e necessarie, di possibilità”, non è un divertimento scolastico di un bravo filosofo, ma l’anima e la premessa del suo progetto illuministico-critico, della sua volontà di restituire alla nostra (di ogni essere umano) “facoltà di giudizio” tutta l’autonomia e tutta la libertà sua propria.
Ciò che traspare dal lavoro di Garroni è, in generale, non solo una certezza, ma anche e più una salutare sollecitazione a svegliarsi e a pensare nuovamente il senso della rivoluzione copernicana di Kant. A ben rifletterci, invero, ciò significa che noi - ancora oggi - non abbiamo affatto capito che i “prolegomeni ad ogni metafisica futura che si vuole come scienza” o, che è lo stesso, i prolegomeni ad ogni scienza futura che si vuole come metafisica, dicono di una svolta ancora tutta da pensare!
Sul filo di indicazioni già di Luigi Scaravelli (cfr.: “Critica del capire”, e, soprattutto, “Scritti kantiani”), il grande merito e il grande contributo di Garroni sta non solo nell’aver cominciato a mettere a fuoco lo stretto legame che corre nella ricerca di Kant, tra il lavoro relativo all’esame delle condizioni a priori che rendono possibile l’esperienza, svolto nella Critica della ragion pura, e il lavoro svolto nella Critica del Giudizio (sulla fondamentale “facoltà di giudizio”, sia del “giudizio determinante” sia del “giudizio riflettente” e, quindi, sia sul problema della scienza e del’arte sia sul “problema della creatività” in generale).
Ma anche e soprattutto - seguendo l’indicazione di Kant - nel cominciare a trarne le conseguenze e nell’attivare coraggiosamente la sua propria “facoltà di giudizio”, cominciando a porre domande su tutto! - e a tutti i livelli (dagli animali agli esseri umani, dalla natura alla cultura - fuori dalle vecchio ordine e dal tradizionale codice della “caverna” platonica e del suo rapporto soggetto-oggetto) - valorizzando contributi e ricerche di scienziati, filosofi e, in particolare, linguisti, che hanno in qualche modo ripreso o riscoperto del tutto autonomamente elementi del programma di Kant e, così, permesso di ricominciare a illuminare meglio il discorso della sua Critica della facoltà del giudizio.
Con Kant, infatti, Garroni comincia ad aprire tutti e due gli occhi, ricomincia a ‘vedere’ meglio, e subito, e con entusiasmo, traccia una mappa per riannodare il filo con la strada della critica e spingersi oltre, e più a fondo! Per lui, ora, tutto comincia a diventare più chiaro, e comincia a dire quanto ha capito: ciò che ha impedito e impedisce il sorgere e “la messa a punto del problema della creatività è uno schema epistemico assai antico, tale per cui l’unica strada praticabile per giustificare, fondare, spiegare, l’osservabile sembrava essere quella di risalire dall’osservato a “qualcosa di anteriore” che ne fornisse per somiglianza il modello. [...] Si tratta - egli continua - di una categoria epistemica profonda, nel senso che è una condizione di possibilità di esplicite espressioni culturali (quasi un’episteme, nel senso di Foucault) ed investe l’orientamento complessivo delle strutture sociali e individuali, non soltanto la loro dimensione intellettuale”. E la sua struttura portante sta “in quella concezione - che viene detta “referenzialismo” - del “segno” come “rappresentante delle “cose”, con la mediazione di stati rappresentativi interni [...] E’ una concezione antichissima, che nasce probabilmente dalla primitiva concezione ontologica del linguaggio (la parola come l’essenza stessa: così che il possesso della parola permetteva il controllo magico della cosa) e risale nella sua forma classica soprattutto ad Aristotele”.
Kant è il punto di svolta : le condizioni di possibilità della conoscenza non vengono “più ricercate in qualcosa di preesistente, in un modello ontologico ideale, o in un luogo di modelli ideali, che - soli - consentono di parlare del mondo reale come appare e come è conosciuto”. Ciò che ancora non abbiamo capito è che Kant va alla radice e ci porta fuori del vecchio programma centrato sul “come conosciamo”: il suo problema - come è possibile la conoscenza scientifica (e non)? - è la risposta più radicale, e più adeguata, all’altezza della nuova Terra e del nuovo Cielo, scoperti dalla nuova fisica, e alla navigazione dell’umanità nell’“oceano celeste” (Keplero a Galilei, 1611).
Garroni comincia a capire meglio il senso del problema di Kant, quanto e come il programma critico-trascendentale sia in continuità con le tensioni del nostro presente, con le ricerche del nostro tempo, con l’acquisizione che “la conoscenza sia - a partire da certe condizioni preliminari di carattere generalissimo (condizioni e non modelli dunque) - una costruzione entro certi limiti “arbitrari” e quindi “creativa”, come lo è per l’epistemologia moderna”.
La conferma di questo legame strettissimo, Garroni lo ritrova in molti protagonisti della ricerca scientifica in tutti i campi (dall’etologia alla linguistica e alla filosofia), ma è con Chomsky e da Chomsky, che più e meglio il discorso sul problema della creatività e “l’avvicinamento a Kant” fa un salto di qualità. E, con l’aiuto degli studi linguistici di Noam Chomsky, di Francesco Antinucci, di Tullio De Mauro, e il contributo (del tutto convincente”) di Wolfram Hogrebe (“Kant e il problema di una semantica trascendentale”, 1974 - opera tradotta in italiano, col titolo dimezzato e mimetizzato: “Per una semantica trascendentale”, con prefazione di Emilio Garroni, Officina edizioni, Roma 1979), riesce a portarsi “al di là del linguaggio” e oltre gli stretti confini dello linguistica (così precisando, in parentesi: “Si intende al di là del linguaggio, non nell’aldilà della speculazione”) e così, con grande lucidità e consapevolezza, a trovare il varco per accedere in modo nuovo all’interno dell’orizzonte kantiano.
Compresa con Chomsky tutta l’importanza della distinzione tra la creatività sotto un codice dato (la “rule-governed creativity”) e la creatività “nel senso pieno del termine” (la “rule-changing creativity”), si rende - sulla spinta dei contributi di Antonucci e De Mauro - di quanto e di come sia necessario portare il problema oltre la chomskiana “struttura profonda”, “in quanto struttura già linguistica”, in una struttura intesa “non più come qualcosa di linguisticamente omogeno, quanto piuttosto come un dispositivo eterogeneo, linguistico e non-linguistico, per esempio anche intellettuale e psicologico”, e così scrive e precisa: “In altre parole, si tratta non di una presa di posizione antichomskiana, o più in generale antigenerativa, ma di un suo approfondimento ulteriore, che tende a portare al di là del linguaggio. (Si intende al di là del linguaggio, non nell’aldilà della speculazione)”. E a questo punto, con il conforto e e la spinta del contributo di Hogrebe, la via a e di Kant è riaperta e ripresa! Non è che l’inizio…
Federico La Sala


Martedì 26 Ottobre,2010 Ore: 11:57
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 26/10/2010 13.15
Titolo:KANT, LO STRANIERO, LA PACE.....
intervista a Umberto Curi

Perché lo straniero ci fa paura

a cura di Paolo Randazzo (Europa, 26.10.2010)

«Ci sono le elezioni... dagli all’immigrato! »: com’è accaduto che un paese di cultura antica come il nostro si sia degradato al punto da accedere a una logica così incivile e brutale nei confronti degli stranieri? È semplice capirlo: è la paura che la attiva. Ma come vincere questa paura? Da quali basi di pensiero e riferimenti teorici muovere per opporre a un fenomeno di dimensioni immani e crescenti qual è l’immigrazione, comportamenti che siano razionali e non derivino dal corto circuito che trova automaticamente nello straniero una minaccia.
- Occorrerebbe volgere in senso comune le parole del cardinal Tettamanzi che giorni fa a Milano, parlando a degli immigrati (rom, asiatici, persone provenienti dall’Africa e dall’Est Europa), ha scandito: «Fatichiamo ad aprirvi la porta, ma la strada dell’integrazione sta davanti a noi. E voi, se incontrate qualche ritrosia, siate coraggiosi e pazienti. La società, l’economia, la cultura hanno bisogno di voi. Siete una risorsa, non una minaccia». Sono anni che il filosofo Umberto Curi ha posto l’alterità al centro della sua riflessione ed è appena da qualche settimana che si trova nelle librerie Straniero, il suo ultimo saggio (Raffaello Cortina editore), in cui su questa tematica continua a indagare. Lo abbiamo incontrato a Siracusa.

Nel suo libro sembra tenersi deliberatamente a distanza da ogni riferimento all’ attualità, eppure è urgente una riflessione sul concetto di “straniero”: si pensi alle polemiche sui rom, alla propaganda sul respingimento dei migranti, alle discussioni sui presupposti della concessione della cittadinanza, ai tentativi di legislazione che entrano nel vivo delle specificità culturali degli stranieri.

È vero, ho evitato ogni riferimento alla contingenza perché credo che ciò che stia mancando di più ad ogni livello, ma drammaticamente nel dibattito politico italiano, è una riflessione teorica sufficientemente approfondita, adeguata alla qualità nuova dei problemi che abbiamo di fronte. Una profezia degli ultimi vent’anni del secolo scorso indicava l’irrimediabile declino della politica; qualcuno s’è spinto ad affermare che ormai la politica non fosse necessaria perché funzionavano meccanismi di autoregolazione sociale che la rendevano superflua.

Quel che poi è accaduto ha mostrato l’inconsistenza di tale profezia, che tuttavia coglieva un punto importante, cioè che su molti temi tradizionali dell’iniziativa politica oggi la società riesce a fornire delle risposte indipendentemente dalla politica. Eppure vi sono questioni in cui è ancora indispensabile l’intervento di quella che si chiama la “grande politica”. Una politica capace d’interpretare e guidare i processi storici di trasformazione.

Fra questi problemi il più rilevante è quello dell’immigrazione, che non riguarda solo l’Italia, che non è riducibile a una sola dimensione sociale, economica o politica e che sarà il problema che le democrazie occidentali affronteranno per decenni.

Paragonata all’importanza di tale problema, alla sua incidenza e pervasività, l’attrezzatura teorica delle forze politiche, un po’ di tutte le forze politiche, è deprimente.

Lei scrive che superare la paura dell’“altro” significa riconoscere che «la relazione con l’altro costituisce la condizione senza la quale non è possibile il riconoscimento e l’affermazione della propria identità». Ha riflettuto sul perché i rom e, in generale, i nomadi siano sempre così temuti e fonte d’inquietudine?

Anzitutto c’è una sottolineatura statistica da fare: secondo dati recenti le persone d’etnia rom o sinti nel nostro paese sono circa duecentoquarantamila e di queste solo ventiseimila sono nomadi e cioè la stragrande maggioranza di queste persone vivono nel nostro paese integrate, stanziali, con i figli che vanno a scuola.
- Si pensi alla comunità sinti di Venezia. Una comunità per la quale l’ex sindaco Cacciari, con tenacia, ha provveduto alla costruzione di un nuovo villaggio dove s’è trasferita, muovendo da una realtà degradata nella quale aveva vissuto negli ultimi decenni. Questo riferimento è utile per offrire una dimensione concreta del problema e capire come troppo spesso vi sia su di esso un’enfasi sproporzionata. Tutto ciò che appare altro da noi non può che avere una carica inquietante e quindi è normale, quasi fisiologico, che l’altro susciti apprensione e persino paura.
- Il problema è trattare in chiave politica questa paura: l’esperienza di questi anni dimostra che da un lato vi sono alcuni che speculano su tale paura per costruire le loro fortune politiche, mentre resta troppo debole la voce di coloro che nei confronti di questa paura testimoniano che essa altro non è che l’effetto dell’incontro con un’alterità che bisogna affrontare sapendo che essa è in noi e implica anche una minaccia, ma cercando di inquadrarla sotto il profilo di categorie razionali.

Nelle pagine dedicate all’opera di Kant, Per la pace perpetua, lei dimostra che nell’opzione “giuridica” del filosofo c’è una riflessione sull’irriducibilità dell’altro da noi.

La questione del rapporto con lo straniero viene impostata da Kant proprio in quell’opera che dedica alla delineazione di un progetto di pace perpetua.
- Sembrerebbe trattarsi di temi diversi: la pace, come la guerra, parrebbe pertinente alle relazioni politiche tra stati, mentre il rapporto con lo straniero parrebbe riguardare la questione dei rapporti individuali. Kant dimostra che la relazione con lo straniero è uno dei modi fondamentali attraverso cui si può raggiungere l’obiettivo di una pace stabile.
- È significativo che in Kant questi due livelli siano saldati. Ciò vuol dire che il dialogo, dal punto di vista culturale, è una delle condizioni per la costruzione di un ordine giuridico internazionale.

È dialogo il metodo attraverso cui si può raggiungere l’obiettivo della pace: anche etimologicamente la parola dialogo include il senso del confronto, anche assai aspro, ma condotto tra logoi. In greco logos significa non solo discorso, ma anche pensiero, il dialogo è quindi primariamente un confronto tra pensieri diversi, talora opposti, ma pacifico, disarmato, capace di far prevalere il logos migliore. Non solo non dovremmo temere questo confronto, ma anzi dovremmo valorizzarlo e considerarlo il luogo stesso in cui si costruisce la pace.

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