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www.ildialogo.org La sacralità della vita,di Mario Mariotti

Editoriale
La sacralità della vita

di Mario Mariotti

A me piace proprio Santa Romana Chiesa… è fortissima…. È troppo bella! Prima, non perde l’occasione di ululare a favore della sacralità della vita, poi lei perde tutte le occasioni, per denunciare il cancro che, per primo, attenta alla sacralità della vita, quella trinità maligna, capitalismo, mercato e competizione, che genera lo sfruttamento, la miseria, la fame e ogni forma di violenza sulla vita di sterminate moltitudini di nostri fratelli, i più esposti dei quali, i piccini devono soccombere a migliaia ogni giorno per mancanza di uno spicciolo.
Prima si è impegnata al massimo per affossare quell’utopia della fratellanza che si proponeva di portare la giustizia e l’uguaglianza sulla terra, togliendola dall’alto dei cieli; adesso starnazza su tutti gli effetti collaterali di quel capitalismo che li include e li genera strutturalmente, e del quale essa stessa è stata sostanziale veicolo di diffusione.
Non ha dato e non dà il nome della malattia, il cancro dell’accumulo, e ben si guarda di dare il nome al rimedio per estirparla, quel socialismo, o economia di comunione, che qualora venisse scelto in libertà e praticato con amore, costituirebbe niente di meno che cristianesimo incarnato!
E d’altra parte non c’è da meravigliarsi di questo: quelli che sono infallibili non possono pontificare ieri che il socialismo era l’ipostatizzazione del Maligno, e oggi che è l’unico rimedio possibile per contrastare il vero Maligno, quella cultura del Beati gli indefinitamente ricchi che è la madre di ogni terrorismo, poiché lascia un miliardo di persone del nostro pianeta a fare i conti con la loro fame quotidiana, col lavoro schiavo perfino dei bambini, con la devastazione dello stesso ecosistema, e il tutto per permettere ad un numero di “cellule cancerose” di accumulare enormi capitali, intrisi della sofferenza e del sangue di coloro che non contano, che restano fuori mercato….
Fatta questa premessa per togliere credibilità a coloro che pontificano sulla sacralità della vita, perché la Verità non può stare in bocca a coloro che la bestemmiano sistematicamente sponsorizzando e benedicendo coloro che antepongono il profitto a tutto il resto, compresa la stessa vita, il problema della sacralità della vita rimane, sussiste, ed è un enorme problema.
Intanto inizierei con una prima considerazione: se la vita è sacra, e lo è dal concepimento alla fine della vita stessa, essa dovrebbe essere, sacra, ad ogni latitudine e longitudine del Pianeta. Cosa accade invece nella realtà? Al sud essa vale meno di uno spicciolo e questo riguarda milioni di piccini ogni anno; poi la durata media della vita delle persone in certi Paesi poveri e quasi solo la metà di quella dei Paesi industrializzati, infine in quelle contrade rimangono endemiche e falcidiano tantissime vite anche quelle malattie che da noi sono state definitivamente debellate, e per le quali esistono efficacissimi rimedi.
Essendo questa la realtà, e avendo i Paesi ricchi a disposizione gli efficacissimi rimedi cui accennavo prima, risultati eccezionali della ricerca scientifica per la cura e la prevenzione delle malattie, in questi ultimi Paesi l’età media della vita si sta innalzando sempre di più, e l’appuntamento con la morte viene sempre di più posticipato. Nelle nostre contrade si fatica a morire, e allora tante volte la morte cerebrale viene prima di quella di tutto l’organismo, per cui succede, soprattutto nei casi di Altzaimer, ma anche in quelli di ictus, o ischemie cerebrali, che abbiamo dei corpi che vivono attaccati alle macchine per anni e anni a una vita solo vegetativa, mentre, come persone, non sussistono più. La sacralità della vita diventa pian piano un assoluto, cui si sacrifica la qualità della vita stessa; la morte viene vista come un negativo assoluto; non si vuol pensare che essa faccia parte, che essa sia una componente strutturale della vita stessa; e mentre si sostengono spese enormi per mantenere in vita soggetti cerebralmente morti per anni ed anni, altrove, sullo stesso pianeta, piccole vite muoiono di stenti, di diarrea, di malattie curabilissime perché non curate, per l’assenza di vaccinazioni e di medicine dai costi irrisori. I ricchi accettano come naturale e fisiologica la morte dei poveri, che è sempre imputata al destino crudele e mai alla propria avidità e indifferenza; ma cercano di contrastare la propria morte con tutti i mezzi possibili, che vanno dai trapianti miracolosi agli ausili più sofisticati per mettere cuore e reni, organi ed apparati, in condizione di continuare a funzionare.
Da una parte la vita è un assoluto, un valore indispensabile, il più sacro di tutti i valori, e dall’altra un accessorio che dipende dalla speculazione finanziaria, dallo sfruttamento blasfemo delle persone a favore del profitto privato, dagli aggiustamenti strutturali che la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale impongono ai Paesi poveri, in modo che gli investitori riescano a realizzare dei significativi guadagni a scapito della miseria, della fame, dello sfruttamento di sterminate moltitudini di persone, la cui vita dovrebbe essere sacra come la nostra, e che noi stessi dovremmo considerare nostri fratelli, perché tutte creature dello stesso Padre.
A questo punto della riflessione vorrei, anche per aiutare me stesso a chiarirmi le idee, provare ad aggettivare la mia posizione, per niente chiara neppure per me. Cercherò di dire cose che possono essere sostenute da quello che faccio. Il mio frequentare per anni, assiduamente, delle persone in difficoltà, delle vite precarie appese ad un filo, mi ha fatto capire tante cose, mi ha fatto leggere la realtà in un modo diverso, nuovo rispetto a come la pensavo prima. Quelle persone, miei eccezionali maestri, operatori inconsapevoli della mia conversione dalla teologia all’etica, o meglio, all’etica teologica, mi hanno fatto capire quale eccezionale miracolo sia la vita stessa, quale capolavoro di intelligenza della materia e dello spirito incarnati essa sia…
Questo tipo di sensibilità acquisita mi porta a nutrire un rifiuto della morte nel più profondo del mio essere: anche una minima, tribolata, scheletrita, contorta vita ha il suo valore, e vedo questa minima vita lottare per continuare ad esistere, e la vedo aggrapparsi a quel poco che c’è, perché non si perda anche quel poco, e a questo punto mi sembra che Dio e Vita siano una cosa sola, e che stiano lottando per rimanere nella terra dei viventi, per continuare ad avere futuro.
Mi sembra che questa logica possa essere rotta solo dalla presenza del dolore. Quando non rimane quasi più niente, e il quasi è torturato dal dolore, ecco che il termine della vita, connesso al termine del dolore, mi pare una cosa accettabile. Il nostro corpo, finché la macchina funziona, è una realtà e ci serve tanto docilmente che quasi non ci accorgiamo che ci sia. Poi, pian piano, noi diventiamo suoi ostaggi, lui comincia a non rispondere, alla fine può succedere che noi restiamo attaccati a lui solo come soggetti-oggetto esposti ad ogni dolore ed umiliazione e nella impossibilità a volte completa, di influire su di lui, a volte anche in stato di coma irreversibile.
A questo punto, facendo agli altri ciò che vorrei venisse fatto a me, lascerei spegnere la macchina e abbandonerei la mia vita, o quella della persona cara, alla pace del non esistere, preda rassegnata dell’ultimo Avversario…. Questo tipo di sensibilità acquisita in rapporto al valore della vita, poi, piano piano, in me è cresciuto in profondità e coerenza, ed ha coinvolto, ha cooptato anche tutto il mondo delle bestioline, e anche quello vegetale.
Oltre ad avere condiviso il mio tempo e le mie risorse sistematicamente, per anni ed anni, coi piccini della grande favela del Sud, brasiliani, palestinesi, sudanesi e via di seguito, sono anche riuscito a far vivere per anni, e con una qualità di vita buona, un gatto cui avevano fracassato e ricomposto il muso, una merlina che mancava della parte superiore del becco, un colombo con un’ala spezzata…
Per me i miracoli sono la procedura di una gattina che partorisce, lava, cura e nutre i suoi cucciolini, o un merlo appallottolato con la testina ritirata nella sfera del suo corpo che dorme appoggiato su di una sua zampetta, un topino che procede guardingo fino a che non arriva su di un pezzetto di pane, lo prende, svolta ad u e corre come un razzo a ripararsi nel suo rifugio… La ricchezza, la complessità, la bellezza della biodiversità dei viventi, di tutti i viventi, è un miracolo eccezionale, e la vita è il miracolo dei miracoli.
Ergo? Ormai da anni non mangio più carne, e sono nella consapevolezza che anche i vegetali sono vita, e spero non sia esposta al dolore.
Ma torniamo nel luogo dove siamo rimasti fin qui, al tema della sacralità della vita.
A questo punto mi sento di aggiungere qualche altra pennellata all’incasinatissimo quadro. Quando si arriva al confine ultimo tra la vita e la morte, io credo che quanto si decide in quei momenti non sia una cosa programmabile preventivamente. È dal profondo di noi stessi che parte il tipo di decisione: si fa così perché si sente di dover fare così. Questo in rapporto alle decisioni che riguardano la vita dei nostri cari. Per quanto riguarda la propria vita, il mio modo di uscire da lei, io non vorrei esistere senza esserci, corpo tenuto in vita dalla macchina e dalla medicina ospitante un cervello irreversibilmente compromesso nelle sue funzioni di coscienza ed autocoscienza.
Come mi sento portato a vedere nella morte degli altri un Nemico da contrastare il più possibile, purché sia assente il dolore fisico il quale non si riesce ad assistere impotenti, così mi sento di accogliere la mia morte non opponendo una resistenza irrazionale…
Ma questo pensiero ha un’attendibilità problematica. A volte mi sento disgustato dalla cattiveria dalla crudeltà, dall’ingiustizia, dall’alienazione, dall’ipocrisia maligna, dall’insensibilità blasfema imperanti in questo nostro schifoso mondo, e mi dico che me ne andrò senza rimpianti, sperando di ritrovare quelli che mi sono stati cari bestioline incluse. Con la morte finirà l’arrabbiatura per il Regno che subisce violenza, ed anche la paura della morte stessa.
A volte non mi sento affatto pronto ad abbandonarmi a lei compagna Morte, perché ci sono, ed io ho ancora tante cose da fare, e queste cose le faccio io, tocca a me farle, non trovo chi le farebbe al mio posto. Come avrete capito, cari lettori, sempre che ci siate, nel mio colombaio, nella parte alta della casa, la mia zucca, c’è una grande confusione. In questa grande confusione, ogni giorno, in un certo senso mi sto preparando a morire bene.
E se io sono in quello che faccio, io spero che ci siano altri a fare quello che faccio io, così non mi lasciano morire…
La mia pennellata, nella vita, nel modo l’avrò data anch’io, ed in essa ci saranno tutti i colori di quelli per i quali io sono stato oggetto di cura e di amore…
Mario Mariotti


Martedì 20 Luglio,2010 Ore: 11:17
 
 
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