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www.ildialogo.org "21° secolo: l'economia del terrore?",di Agostino Spataro

"21° secolo: l'economia del terrore?"

Alcune pagine del libro "Osservatore del Pci nella Libia di Gheddafi", di Agostino Spataro


di Agostino Spataro

LA GUERRA PER LE MATERIE PRIME: L’ECONOMIA DEL TERRORE?
La corsa per il controllo delle riserve libiche d’idrocarburi
Dalla fine della seconda guerra mondiale, al tempo del bipolarismo (Usa- Urss), in varie parti del Pianeta sono scoppiati conflitti (anche più sanguinosi di quelli recenti o attuali) con il loro contorno di terroristi, dittatori, profittatori, falsi eroi, ecc. Eppure, sempre (tranne per il conflitto israelo - palestinese) si è giunti a una soluzione di pace, equa e durevole, mediante il negoziato.
Oggi, invece, di fronte a una crisi devastante del sistema delle relazioni internazionale, sembra siano state accantonate le vie politiche, diploma-tiche, a favore dell’opzione militare che produce mor-te, distruzioni e… nuovo terrorismo.
La politica estera è sempre più “militarizzata”. La soluzione dei conflitti non è più affidata a quel mastodonte semifallito che è l’Onu, ma a micidiali interventi militari nei quali sono impiegati (an-che a fini pubblicitari) nuovi sistemi d’arma, missili e proiettili di un’efficacia terrificante.
Ai “caschi blu”sono subentrati i moderni eserciti professionalizzati, le nuove “compagnie di ventu-ra” (contractors”) che hanno fatto della guerra il loro lucroso mestiere.
Una realtà drammatica che non può essere celata sotto il manto della retorica patriottarda. Patria vuol dire “terra dei padri”. Nel nostro caso, la “patria” è l’Italia che ogni cittadino, in armi o meno, ha il dovere- come recita la Costituzione- di difendere da eventuali attacchi esterni. Punto.
Perciò, è tempo di dire pane al pane ossia che il vero “nemico” che i nostri “ragazzi”(nella quasi totalità figli del Sud e del popolo lavoratore) vanno a combattere in Afghanistan non è il talebano, ma la disoccupazione che li affligge in Italia. I “grandi della Patria”, se sono dei veri patrioti, diano un lavoro degno a questi ragazzi e nessuno di loro vorrà più vendere la vita per una buona paga!
Ma, forse, proprio per questo non si decidono a risolvere il dramma della disoccupazione.
E così, continuiamo a vedere partire “missioni umanitarie” verso gli angoli più remoti della Terra, eserciti, corazzate e forze aeree, verso luoghi lontani diverse migliaia di chilometri dalla patria.
E siccome una guerra tira l’altra, stiamo assistendo, sgomenti, a una sorta di “guerra infinita” contro il “terrorismo”, vero e/o presunto, la quale, invece di debellarlo, nei fatti, lo sta aiutando a crescere e a diffondersi in Paesi dove prima non era riuscito ad allignare.
Domanda: tutto ciò accade per caso o per una sorta d’impazzi-mento generale degli alti comandi politici e militari dei Paesi della Nato? O per altre, più recondite ragioni?
In realtà, si tratta di una nuova versione della competizione commerciale, di una guerra econo-mica combattuta con i missili e con i droni, per conseguire la supremazia strategica nell’approvvi-gionamento delle materie prime e nel controllo dei mercati e delle principali vie di comunicazione.
La Nato è morta, ma… bombarda
A tale scopo, è stato modificato, di soppiatto, il fine istituzionale della Nato: da organismo di difesa euro-atlantica da eventuali aggressioni esterne a micidiale strumento aggressivo e d’inge-renza negli affari interni di Stati terzi sovrani.
Come scrive il generale Fabio Mini, già capo-missione militare dell’Onu in Kosovo, nel suo saggio, eloquentemente, titolato “La Nato è morta”:
La Nato che c’è non ha più nulla dell’idea originaria, ma con una struttura consolidata in 60 anni di guerre finte, di soldi e poltrone si presta e si appresta a diventare la Nato che non serve la sicurezza, ma gli interessi: una Spa controllata dalla holding Usa…La sicurezza internazionale non è più la mission del gruppo e nemmeno il suo dividendo: è il pretesto per sollecitare una sottoscrizione obbligazionaria con la quale garantire profitti alle solite quattro corporazioni e lobby.”
(Fabio Mini, “La Nato è morta” in Rivista Limes, 6 aprile 2009)
Un uso, dunque, arbitrario, deviato della Nato la cui esistenza non si giustifica dopo l’auto-liquidazione del Patto di Varsavia.
Com’è noto, la Nato fu creata nel 1949, prima del Patto di Varsavia, come misura preventiva, per difendere i confini degli Stati membri da un eventuale attacco esterno (leggi Urss).
Da oltre un ventennio, il Patto di Varsavia non c’è più, ma la Nato continua a esistere, addirittura con compiti che fuoriescono dalla originaria missione di difesa e dai limiti politici e geografici.
Oggi, si ostina a restare in Afghanistan dove- sostiene il generale Mini- “non si riconosce che gli Stati Uniti hanno commesso una serie di errori madornali che hanno via via reso più complicata qualsiasi soluzione, compresa quella di forza. La Nato si è inserita in Afghanistan in maniera surrettizia trasformando, senza alcuna preventiva autorizzazione dell’Onu e con la compiacente acquiescenza di tutti, una missione di assistenza in una missione di guerra ad oltranza.” 1
In forme più o meno camuffate, la Nato è presente in altri Paesi del M.O., mentre si appresta a insediarsi, addirittura, in Colombia, in sud America, col cui governo sono in corso trattative per un accordo di assistenza militare. Insomma, si vuole portare la Nato in regioni così lontane, fino ad oggi risparmiate da tutte le folli guerre europee, africane e mediorientali.
Non si capisce dove si voglia arrivare. Non esiste una minaccia così distruttiva verso l’Europa e gli Usa, tale, cioè, da giustificare la permanenza di un’organizzazione militare così potente e aggres-siva. Meglio sarebbe se la Nato si sciogliesse e che l’Europa si dotasse di uno strumento militare comune, dimensionato alle sue legittime esigenze di difesa. Non di attacco!
L’economia del terrore?
  1. La gente non capisce le ragioni di queste guerre in serie, disastrose, assassine, costosissime, ammantate di falso umanitarismo. E, soprattutto, si chiede: a chi convengono?
Sicuramente non ai popoli destinatari “delle missioni umanitarie” che ne pagano lo scotto in termini di perdite di vite umane e di distruzioni rovinose e nemmeno ai popoli dei Paesi da cui si originano che le pagano in termini di sicurezza, di riduzione dei livelli di libertà, dei servizi sociali, anche indispensabili, di aumento di tasse e balzelli, ecc.
Questa “guerra infinita” provoca morti e devastazioni, milioni di profughi e di deportati, tagli delle spese sociali che immiseriscono le condizioni di vita delle masse popolari; di con-verso, producono dividendi (di guerra) che stanno arricchendo, spudoratamente, ristretti gruppi di potere economico e finanziario.
Peccato che giornali e tv quasi mai si occupano di tali scandalosi aspetti, preferendo il gossip e i facili attacchi alla “casta” dei politici! Mai alla casta dei padroni dei (loro) giornali e delle televisioni!
Eppure, tutto gira intorno a tali gruppi di potere multinazionali che ricorrono alle minacce, alla guerra per lucrare affari e guadagni favolosi, per creare una sorta di “economia del terrore”, basata sull’ideologia della paura e della violenza, per conseguire il massimo profitto e arraffare tutto quel che luccica, in valore venale, nei Paesi presi di mira.
Un po’ sul modello delle economie dominate dalla criminalità o, se si preferisce, sullo schema brutale praticato dall’impero assiro già mille anni a.C.
  1. In primo luogo, si cercano nuovi mercati e materie prime strategiche da sottrarre ai paesi poveri per alimentare l’assurdo modello di sviluppo occidentale che sta portando l’umanità alla guerra e la Terra alla distruzione. Le società occidentali cosiddette “evolute” (ma sempre più scarse di risorse proprie) vivono nell’angos-cia di vedere allargarsi la forbice tra consumi e riserve nazionali.
Sotto questo profilo, il caso degli Stati Uniti è perfino drammatico.
L’obiettivo è l’approvvigionamento, a prezzi ragionevoli (ragionevoli, per chi?) delle materie prime tradizionali, in particolare energetiche. Da qui, le guerre e la corsa oggi estesa alle “materie prime rare” (quali: rame, uranio, litio, platino, oro, diamanti, manganese, alluminio, ecc) necessarie per alimentare lo sviluppo dei settori tecnologici più avanzati (telefonia satellitare, comunicazioni, conduttori, media, fotografia, computer, ecc).
Per altro, con l’entrata in campo delle nuove potenze industriali del terzo mondo (i BRICS ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud-Africa) il fabbisogno totale di materie prime è in crescita esponen-ziale e pertanto si è intensificata la corsa per l’accaparramento. Le grandi catene multi-nazionali non guardano in faccia a nessuno, non vanno tanto per il sottile: intrigano, corrompono e quando non ries-cono a spuntarla con tali metodi, attizzano le guerre civili, tribali, i terrorismi di ogni colore, invocano l’intervento degli eserciti della “madrepatria”.
Sono sorti, così, potenti gruppi di pressione, lobby con il compito d’indurre i governi ad agire, anche mediante l’intervento militare, per assicurarsi gli stock necessari.
  1. Persino in Germania, dove ancora persiste un certo pudore verso la guerra, le più grandi imprese hanno costituito addirittura una “Alleanza per le materie prime”. Si tratta di una lobby potentissima che sta premendo sul governo, sul parlamento, sui media e sull’opinione pubblica per spingere i governanti a promuovere e/o a partecipare a tutti gli “interventi” (anche militari) finalizzati al reperimento, al controllo e all’importazione di materie prime strategiche insistenti in territori anche molto lontani.
La grande industria tedesca, la “locomotiva europea”, forte impor-tatrice e trasformatrice di materie prime, accusa difficoltà a competere con le multinazionali concorrenti (Francia, Gran Bretagna, Usa, ecc) che le materie prime le vanno a prendere con i droni, con i missili e con i carri armati.
La grande industria tedesca, per bocca di Dierk Paskert, direttore dell' "Alleanza per le materie prime", ha chiesto un impegno per garantirsi l'accesso alle risorse e alle materie prime. Anche militare. Tema scottante per un Paese il cui Presidente si dimise nel 2010 dopo aver ammesso che i tedeschi combattevano in Afghanistan anche per tutelare i propri interessi economici. Di questa "alleanza" fanno parte fra gli altri Bayer, Bmw e Bosch e Thyssen Krupp, affamate di risorse che la Germania non possiede. La politica estera si fa anche con le armi? Le dichiarazioni di Paskert mostrano che "il re è nudo".” 2
Credo che a nessuno sfuggano i rischi che potrebbero correre l’Europa, il Mediterraneo, il mondo se la Germania, la più importante econo-mia europea, già presente in Afghanistan, decidesse di “armarsi e partire” alla ricerca di materie prime strategiche.
  1. Questo e altri esempi confermano la tendenza alla militarizzazione delle relazioni economiche internazionali e spiegano le strampalate teorie sulle “guerre preventive”, sulla “lotta infinita al terrorismo”, sulla “esportazione della democrazia”, sulle (in)giuste “ingerenze umanitarie”, ecc. Tutte corbellerie per spiriti semplici.
La verità è che la politica estera non la fanno più i politici, gli statisti e le cancellerie, ma gli apparati industriali e militari, le banche legate a tali affari, i servizi segreti con i loro oscuri intrighi. La fanno i media con la loro disinformazione che, come un “burqa” afghano, avvolge le farisaiche false coscienze di una certa opinione pubblica occidentale che si commuove quando vede partire una “missione di pace” e non trova una parola di pietà per le migliaia di vittime innocenti che tali “missioni” provocano.
A ben pensarci, queste guerre sono anche la dimostrazione del fallimento dell’attuale modello politico, un atto di accusa nei confronti dei gruppi dominanti incapaci di modificare il perverso modello produttivo basato sullo sfruttamento della forza lavoro, sul consumismo esasperato e sulla dissipazione delle risorse. Sono la follia di questo neocapitalismo liberista, anonimo e arrogante, che sta conducendo l’umanità verso una nuova catastrofe.
Secolo 21: la “guerra infinita” per le materie prime
  1. L’intervento della Nato in Libia è anche la conferma di una preoccupazione diffusa secondo la quale questo XXI potrebbe caratterizzarsi come il secolo della “guerra infinita” per il controllo della produzione e della commercializzazione delle materie prime.
L’ipotesi non è per nulla peregrina. Già in questa prima decade si è verificata una successione di eventi terribili: l’attentato alle “Torri gemelle” di New York, le invasioni dell’Afghanistan, del-l’Iraq, l’insurrezione in Libia e in Siria e una serie di conflitti in Africa altrettanto sanguinosi ma presto dimenticati. Altri “interventi” sono stati pianificati e programmati e sono pronti per essere attuati.
Al centro vi sono enormi interessi economici, finanziari e commerciali che non lasciano presagire nulla di buono.
Se non dovessero intervenire radicali mutamenti nei modelli di consumo e nelle politiche di approvvigionamento e di diversificazione delle fonti energetiche, potrebbe aggravarsi quel micidiale combinato disposto fra crescita dei consumi e riduzione delle risorse proprie disponibili. La corsa per accaparrarsi i nuovi grandi giacimenti di materie prime è partita ed è difficile rallentarla, fermarla. Oltre che di petrolio e di gas, nel mondo c’è anche uno spasmodico bisogno di uranio, litio, oro, diamanti, di foreste, di terre incolte o feraci, di acqua, ecc. Le risorse primarie della Terra non sono più “beni comuni”, diritti primari dell’umanità, ma merci da vendere e da comprare.
Simili a famelici avvoltoi, le borse europee e nordamericane comprano e vendono di tutto. Dove non è possibile comprare si passa alla rapina a… mano armata.
Com’era prevedibile, in questo gioco pericoloso si sono inseriti, (senza, però, ricorrere agli interventi militari) le imprese e i governi dei BRICS e di altri minori. Soprattutto, i cinesi sono presenti in varie parti del sud del mondo per assicurarsi enormi quantitativi di materie prime, energetiche e di altro tipo, per supportare il loro gigantesco sviluppo industriale.
  1. Le pratiche più diffuse per realizzare le transazioni con i governi dei Paesi detentori di materie prime sono quelle della corruzione e della vendita di sistemi d’arma sempre più sofisticate e micidiali.
Sul piano sociale interno, tali processi provocano scandalosi arricchimenti e inaccettabili disparità che si traducono in nuove povertà.
Com’è noto, i capitali, le ricchezze accumulati, frutto di tali losche pratiche, ritornano, in gran parte, nel circuito della finanza internazionale che li ha generati. E così il ciclo riprende a funzionare, sempre a favore delle economie dei paesi consumatori delle materie prime. Alcuni paesi arabi del Golfo, grandi produttori di petrolio e di gas, sono un esempio fin troppo eloquente di tale perversa logica economica e finanziaria.
Quando tale meccanismo minaccia d’incepparsi, allora si attizza una “gloriosa” guerra tribale e/o religiosa per esportare in quel dato paese la democrazia, la libertà e…un bel po’ di armi. Si cambia il dittatore usurato, testardo con uno nuovo più malleabile, magari fresco di laurea a Oxford o ad Haward, e il gioco riprende a funzio-nare.
Corruzione e aggressioni sono i metodi più praticati dai paesi gran-di consumatori.
Fra questi c’è la Cina cui bisogna dare atto di prediligere (almeno fino ad oggi) forme di cooperazione basata sulla realizzazione (chiavi in mano) di grandi infrastrutture. Per quanto “interessata” potrà essere questo tipo di cooperazione, non c’è dubbio che è un metodo preferibile alla guerra. Pur con differenze di metodo e di approccio, il dato politico generale, oggi, emergente è quello che i popoli possessori di materie prime appetibili, invece di gioire e guardare speranzosi al futuro, devono temere che, da un momento all’altro, arrivi loro addosso “una missione umanitaria” della Nato o “un programma di cooperazione” dei cinesi.
Inclusione o esclusione: questo è il problema
In questa competizione globale per l’accaparramento delle materie prime, c’è anche da considerare un’altra differenza sostanziale fra il sistema cinese e quello occidentale: al comando della Cina c’è una “testa politica”, per quanto autoritaria, mentre in Occidente domina “una testa finanziaria”.
La crisi che oggi investe l’Occidente è anche una spia evidente dell’incapacità della finanza di gestire il potere economico e politico di cui si è impossessata. Il predominio dei banchieri e dei grandi speculatori si è dimostrato inadatto al governo degli Stati e delle nazioni e rischia di portare al disastro tre quarti dell’umanità.
Per altro, tale realtà critica stride col dualismo polarizzante che si sta affermando nel mondo fra l’area dell’esclusione sociale, dominante in Occidente e nei paesi satelliti, provocata dalle politiche neoliberiste portatrici di un modello che non genera sviluppo ma consumi superflui e lussuosi, speculazioni, concentrazione apicale della ricchezza e nuove povertà; e l’area dell’inclusione prevalente in quasi tutti i Paesi dell’America del Sud, sottoposti per primi e con esiti catastrofici alla cura neoliberista.
Oggi, le forze progressiste democratiche sudamericane, al governo, stanno realizzando, pur con limiti e contraddizioni, una politica di più equa ripartizione della ricchezza nazionale (per altro in forte crescita), per la fuoriuscita di decine di milioni di esseri umani dalla fascia della povertà e dell’indigenza. Anche in Cina e in In-dia s’include, ma quelli sono casi a se stanti.
Insomma, mentre in America del sud s’include, in Occidente si esclude, si tagliano le spese sociali a favore di quelle militari, si consentono sui “sacri mercati” le più spudorate speculazioni sulle monete, sul debito pubblico, si tollerano fenomeni abnormi di evasione fiscale, ecc.
Soprattutto in Europa, si sta creando il clima adatto per alimentare, innescare nuove paure, insicurezze, nazionalismi e populismi esasperati, per iniettare i germi dell’odio sociale, del-l’antipolitica, dell'ingovernabilità e rafforzare la tentazione autoritaria di un “nuovo ordine” che rimetta a posto le cose.
Prima che sia troppo tardi, s’impone un cambio di prospettiva, di modello economico e sociale e di classi dirigenti.
L’Occidente deve limitare la sua potenza. Deve dare prova di tolleranza e riconoscere che l’altro possiede una parte della verità…” ci ricorda il già citato Laidi.
E qui mi fermo, perché desidero tornare alla Libia che, disponendo di enormi giacimenti d’idrocarburi, è stata sottoposta al “trattamento” di questo micidiale meccanismo.
1 Fabio Mini, op. cit.
2 da“Nessun luogo è lontano”, trasmissione “Radio24” del 23/2/2013



Martedì 03 Dicembre,2013 Ore: 18:22
 
 
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