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www.ildialogo.org Marxisti ticinesi e italiani si confrontano sull’analisi della crisi economica e geopolitica,da sinistra.ch

Marxisti ticinesi e italiani si confrontano sull’analisi della crisi economica e geopolitica

da sinistra.ch

Da: www.sinistra.ch/?p=2486

www.sinistra.ch

22 gennaio 2013

Si è tenuta sabato scorso 19 gennaio, presso la Casa Rossa di Milano, una conferenza pubblica intitolata “Il mondo dopo il congresso del Partito Comunista Cinese e le elezioni USA”. L’evento, organizzato dall’associazione “Primo Ottobre” di amicizia italo-cinese e della sezione “Laika” del Partito dei Comunisti Italiani, voleva ricordare Gianfranco Bellini, promotore dell’associazione, venuto a mancare recentemente. Figura su cui Sinistra.ch ha già pubblicato un articolo. In sala vi erano anche oltre ad Alessandro Lucchini e Nicolas Fransioli, esponenti del Dipartimento della politica economica del Partito Comunista ticinese, anche Massimiliano Ay, segretario dello stesso Partito. Sul fronte sindacale si è registrata la presenza di Janosch Schnider, coordinatore del SISA. Presenti anche membri delle istituzioni, come Leonardo Cribio e Vladimiro Merlin, esponenti della Federazione della Sinistra.

Nadia Schavecher, moderatrice della giornata, che nell’apertura dei lavori è apparsa visibilmente emozionata, ha lasciato anzitutto la parola al medico Paolo Paparella, amico e compagno di Gianfranco Bellini. Il pubblico in sala ha così potuto comprendere come, nella persone dell’economista milanese da poco scomparso, fosse viva un’impetuosa carica politica che non si spegneva in nessun frangente quotidiano: era un comunista in qualunque caso e in qualunque momento. E questa qualità gli dava la possibilità di entrare con dovizia metodologica, con spirito critico e propositivo, in ogni situazione della vita, fornendo sempre a coloro che avevano la fortuna di trovarsi con lui, una scomposizione analitica di spessore. Nell’ambito del suo lavoro di indagine della realtà – passata e presente – Gianfranco Bellini stava per ultimare uno scritto centrale per comprendere le dinamiche dell’attuale crisi economica. Le prime bozze sparse erano già state integrate ma il destino ha voluto che l’autore non potesse completare l’operazione: l’onere, ma anche l’onore, di rimaneggiarne e completarne la versione ultima sarà quindi compito dei suoi più stretti collaboratori e ben presto una casa editrice italiana si occuperà della stampa.

Il secondo relatore, Fulvio Bellini, fratello minore di Gianfranco, si è occupato di fornire un contributo che giungesse specificatamente da “dietro le quinte”, descrivendo il fratello come una fonte vivida e inesauribile di analisi alternative al pensiero dominante, la cui lucidità e profondità era determinata da una modalità scientifica di ragionare che si integrava ad un apparato conoscitivo e bibliografico immenso. Insomma, un’eredità di conoscenza che è ora fondamentale valorizzare in tutte le sue forme.

IL DECLINO DELL’EGEMONIA USA

Mattia Tagliaferri, membro di Segreteria del Partito Comunista del Canton Ticino (PC), ha in seguito fornito un’analisi geo-economica della situazione in cui attualmente si trovano gli Stati Uniti d’America. Da quanto si legge sui giornali parrebbe che la crisi dell’Euro e dell’Europa sia motivata da cause strettamente continentali. Tuttavia, se è corretto affermare che all’interno dell’Unione Europea vi sono contraddizioni interne – causate dall’aggregazione di economie profondamente diverse – fonti di squilibri strutturali, è altresì doveroso inquadrare l’attuale impasse europea in un contesto più ampio, nel quale sia preso in considerazione il ruolo degli USA, che si trovano in una crisi sia dal lato dell’egemonia geo-politica, sia da quello monetario.

Dal 1971, data in cui sono stati rotti gli accordi di Bretton Woods, abbiamo a che fare, infatti, con un sistema monetario privo di riferimento aureo. Il Dollar Standard, introdotto dallo Smithsonian Agreement (1971), un sistema di cambi flessibili che ha come base il dollaro statunitense (utilizzato come principale moneta negli scambi internazionali), mette gli USA in una posizione di potere maggiore rispetto agli altri paesi. Gli USA, tramite la Federal Reserve (Fed), nell’ultimo trentennio, hanno potuto stampare quantità di dollari in modo illimitato dato che, rispetto al passato, l’emissione monetaria non è più stata vincolata da un corrispettivo di oro detenuto.

Si è così avviata un’importante produzione del cosiddetto capitale fittizio che, nelle grandezze che sono state riscontrate, mai prima era stata messa in pratica. Tale particolare tipologia di capitale, per definizione, deriva da un processo improduttivo di ricchezza e, teoricamente, potrebbe essere anche percepita come priva di valore. In tal senso, i rapporti di forza detenuti dagli USA sono appunto consistiti nella facoltà di poterla imporre, senza ricevere rimostranze da parte di quegli stati che si trovavano a riceverla. L’Iraq di Saddam Hussein, non a caso, è stato invaso nel 2003 proprio per aver deciso di ridefinire il proprio petrolio in euro anziché in dollari. In tal senso, nella logica dell’imperialismo a stelle e strisce, le forzature politico-monetarie, vengono integrate dialetticamente con la forza militare.

La produzione di capitale fittizio – se era già attestata nel secolo scorso (non a caso Karl Marx la tratta nel terzo libro de “Il Capitale”) – è aumentata fortemente – imponendosi in modo sostanziale dal 1971. In questo frangente gli USA hanno voluto e dovuto imporre tale “carta straccia” ai paesi con cui intrattenevano rapporti commerciali. Questi ultimi, tuttavia, l’hanno impiegata per creare valore effettivo attraverso il suo investimento nei periodici cicli di accumulazione interni, i quali, tra le altre cose, hanno comportato una progressiva crescita economica interna.

L’EMERGERE DI NUOVE POTENZE

Oggi nello scacchiere internazionale, anche e soprattutto in conseguenza di questi sviluppi, ci sono delle economie (i cosiddetti BRICS, e la Cina in particolare) che, in virtù dell’importante crescita registrata negli ultimi decenni, hanno potuto raggiungere una posizione contrattuale tale da rifiutare progressivamente i dollari statunitensi. È alquanto significativo, per esempio, il fatto che da ottobre, il petrolio che la Cina acquisterà da Iran e Russia sarà pagato in Renminbi, la valuta cinese. Si tratta di una decisione di una colossale rilevanza: il dollaro, infatti, non si trova più al centro di questo strategico scambio commerciale. Appare inoltre evidente come per gli Usa – date le oggettive forze militari potenzialmente in campo – non sia più possibile rapportarsi agli attori in gioco come fatto con l’Iraq nel 2003. Un ulteriore indizio di questo nuovo contesto internazionale – che si smarca dalla forzosa orbita statunitense – è individuabile in una particolare scelta della Cina. Infatti, nel 2007, quando il vortice tumultuoso della crisi finanziaria imponeva la necessità di impedire la mancata realizzazione dei titoli, il gigante asiatico si rifiutò di comprare quelli detenuti da Fannie Mae e Freddie Mac. Ed è in tal senso innegabile che esso sottintenda anche una parallela valutazione dei rapporti di forza favorevoli acquisiti con il passare del tempo.

LA MINACCIA DI ROMNEY E LA RISPOSTA CINESE

L’edificazione di un vero e proprio “castello di carta” privo di fondamenta stabili portò alla crisi finanziaria del 2007-2008, che successivamente diventò una crisi dell’economia reale, colpendo progressivamente e con virulenza, gli Stati europei più vulnerabili. Questi ultimi sono poi stati bollati dalle agenzie di rating legate a filo doppio con banche ed establishment statunitense, come tendenti all’insolvibilità. Andrebbe qui osservato – per farsi un’idea dell’inaffidabilità e della faziosità di tali agenzie – come ancora nel luglio 2007 esse indicassero con la “tripla A” moltissime delle obbligazioni strutturate basate su pezzi di mutui subprime. In tale contesto, Mitt Romney, durante la scorsa campagna elettorale presidenziale negli USA, parlò apertamente di ritorno del suo Paese a un forma di Gold Standard. Ciò comporterebbe una forte svalutazione del dollaro e, contemporaneamente, un’iper-valutazione delle altre monete nazionali. In tal senso, anche se il candidato repubblicano alla Casa Bianca non è risultato eletto, nell’establishment statunitense sono evidentemente in discussione azioni che spingono in tale direzione. Questi potenziali sviluppi non andrebbero certo verso un ordine mondiale di tipo multipolare, ma approfondirebbero ulteriormente una concezione dello scacchiere internazionale in termini egemonici e imperialisti, destinato ineluttabilmente all’instabilità. La Cina, dal canto suo, pur affermando apertamente come un sistema basato sulla centralità del dollaro non possa più funzionare, sembra cosciente di non potersi (e di non volersi) sostituire al ruolo odioso finora ricoperto dagli USA. La proposta di Pechino consiste nell’indicazione di un paniere di valute – che riunisca Renminbi, Dollaro, Euro e altre monete strategiche – che possa cominciare a traghettare lo scenario economico internazionale verso una maggiore stabilità.

IL FISCAL CLIFF

Gli USA sono nel frattempo impegnati con il cosiddetto Fiscal Cliff (letteralmente “dirupo fiscale”), una questione dolente che concerne il superamento del tetto del debito. Dal modo in cui la situazione è stata gestita dall’establishment statunitense e da come ci è stata veicolata dai mezzi d’informazione, sembrerebbe che si tratti di un mero problema legislativo e che, dunque, occorra semplicemente cambiare alcune norme per risolvere l’inghippo. Evidentemente la questione non è così sbrigativa. All’impasse sono infatti sottese dinamiche strutturali che ruotano attorno al deterioramento dell’economia USA che, se internamente vive grandi contraddizioni ed è reduce da una grave crisi economica, a livello internazionale non è in grado – come invece nel passato – di penetrare con successo le diverse regioni del mondo. Per tale ragione è necessario osservare con occhio particolare la Cina, i suoi sviluppi interni ed esterni, sarà infatti essa a giocare un ruolo primario nelle future congiunture internazionali.

LA CINA DI OGGI CHE RESTA SOCIALISTA

Ed è proprio sugli sviluppi cinesi che Diego Angelo Bertozzi, storico del movimento operaio e collaboratore scientifico dell’Associazione politico-culturale “Marx 21”, ha costruito il proprio intervento.

In Occidente era alquanto diffusa la convinzione che dal 18° Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC) sarebbe fuoriuscita una svolta decisiva. Nei giorni che hanno preceduto questo importante appuntamento abbondavano – non a caso – i gossip che documentavano presunte divisioni presenti all’interno del Partito. Occorre tuttavia guardare al contesto cinese e, nel caso specifico, a questo Congresso, con maggiore profondità analitica, badando sempre a inserire i fenomeni osservati nel contesto nazionale e geo-politico di riferimento.

I lavori congressuali hanno indicato la necessità, per il PCC, di aumentare la capacità di governare il paese e le profonde contraddizioni che naturalmente, in una società che si è aperta al mercato, sono all’ordine del giorno. Il PCC, pur non mettendo in discussione il proprio ruolo centrale di guida politica, ha da tempo messo in atto la teoria della triplice rappresentanza: il PCC deve rappresentare i produttori, la cultura avanzata, gli ampi interessi delle masse e incoraggiarne la massima partecipazione. Esso, in tal senso, è diventato avanguardia non più solo della classe operaia, ma dell’intera società. Una tesi, questa di Bertozzi, che ha suscitato la reazione di Vladimiro Merlin, il quale ha sottolineato i rischi di una tale impostazione ideologica, molto simile al revisionismo moderno che ha caratterizzato l’Unione Sovietica kruscioviana a partire dal XX Congresso del 1956.

Bertozzi ha descritto l’esistenza di una classe borghese in Cina come una classe “non antagonista” e quindi non la lotta di classe rappresenterebbe la contraddizione principale, ma la lotta contro la subordinazione all’Occidente capitalistico. In pratica, con l’entrata di parte della borghesia nazionale – una minoranza sotto controllo – nelle fila del PCC, sta avvenendo il contrario di quello che è successo in Occidente dove la borghesia ha cooptato dei leader del movimento operaio nello schieramento borghese per tenerli sotto controllo. Nello specifico, l’attenzione va rivolta verso la necessità di sviluppare forze produttive che siano in grado di soddisfare pienamente i bisogni del popolo e di coprire le sacche di povertà ancora esistenti. Lo sviluppo non caotico delle forze produttive che, progressivamente, dovrà erodere il divario tra bisogni popolari incombenti e livelli di produzione ancora arretrati, va dunque integrandosi a una strategia di fronte unito a livello politico che passa, per esempio, dalla volontà di rivitalizzare l’assemblea del popolo, dove siedono non solo i comunisti ma anche deputati di altri partiti politici in rappresentanza dei vari ambiti della società: il tutto anche nell’ottica dello sviluppo dialettico della democrazia popolare. Il nuovo principio guida dello sviluppo scientifico umano integrale – nel nome della sostenibilità – tiene in stretta considerazione la necessità di collegare lo sviluppo produttivo a quello sociale e culturale.

Ha inoltre assunto una sostanziale centralità – all’interno del processo di modernizzazione – lo sviluppo delle infrastrutture e dell’istruzione (che, nelle università, amplierà gli ambiti di studio, dalle nuove tecnologie alla sostenibilità ambientale). Correlato a tali linee guida si pone la priorità conferita allo sviluppo e al potenziamento del mercato interno. Infatti, l’economia cinese (mezzi di produzione e sistema bancario), che rimane prevalentemente di competenza statale, a dispetto di quanto si potrebbe credere leggendo i giornali occidentali, si basa sul consumo interno ed è dunque falso affermare – come spesso di sente – che la Cina si basi solo sull’export. La crescita economica inoltre si integra con un approccio strategico di lungo periodo che mira ad attenuare gli squilibri sociali e regionali. Non a caso, depurati del dato inflattivo, i salari reali degli operai non qualificati in Cina sono aumentati, tra il 2003 e il 2008, in media del 10% ogni anno: nel settore manifatturiero del 10,5%, mentre nelle costruzioni del 9,8%.
A sostegno della crescita del salario degli operai cinesi giunge anche, a partire dal 2009 e con un trend nei prossimi anni, l’aumento costante del salario minimo dei lavoratori che viene stabilito dalle autorità centrali e locali della Repubblica Popolare. Tra il 2009 ed il 2011, infatti, ogni anno il salario minimo è stato incrementato mediamente di ben il 20%, con punte che nelle regioni meno avanzate ha toccato il 25%.

Il pensiero e la figura di Mao – a dispetto dei commenti che erano circolati prima del Congresso, che avrebbero voluto delineare uno scenario ideologicamente liquidazionista – rimane come guida nella Costituzione e, inoltre, viene riaffermata la centralità del marxismo-leninismo.

LA PROSPETTIVA EURO-ASIATICA

Roberto Sidoli, redattore del portale on-line “La Cina Rossa”, ha concluso la giornata con il proprio intervento. Con un riferimento a Gianfranco Bellini, che rifletteva prima di morire di una rete euro-asiatica (organizzata in tre segmenti: Cina-Russia; Russia-Germania; Cina-Germania), cioè – dato che si pone strategicamente in contrapposizione agli USA – un paradigma geo-economico sostanzialmente alternativo agli attuali assetti, si è approfondito il ruolo internazionale svolto dalla Cina.

LA “TEORIA DEL MAGNETE”

Attraverso una strategia pacifica, non imperialista e soprattutto cooperativa, il gigante asiatico si muove in direzione della progressiva pacifica costruzione di un nuovo ordine planetario multipolare e, allo stesso tempo, facilita l’avvio – in forme innovative – di un graduale processo di transizione al socialismo in altre regioni del mondo. Un’importanza fondamentale, in tal senso, è ricoperta dalla cosiddetta ”teoria del magnete” (l’origine di ciò che in campo internazionale verrà poi definito “Soft Power”).

Rielaborata creativamente, questa teoria, che si pone come alternativa concreta all’esportazione delle rivoluzione, postula la possibilità di porre come esempio attrattivo e positivo i successi economici relativi al socialismo con caratteristiche cinesi – nel quale, assieme allo sviluppo delle forze produttive, anche la povertà sia progressivamente eliminata – nei confronti delle masse popolari degli stati capitalistici. Cambiare se stessi per influenzare il mondo è certamente una sfida notevole che i comunisti cinesi hanno accettato con coraggio.

La Cina possiede inoltre nel marxismo-leninismo e nella propria storia nazionale fonti di inesauribile valore: non casualmente, la prevalenza di linee strategiche che pongono l’attenzione sulle componenti soft a vantaggio di quelle hard – come ha insegnato Deng Xiaoping sulla politica estera – non è una trovata dell’ultima ora, ma si basa su di un profondo radicamento nella cultura e nella tradizione cinese.

NUOVE FORME COOPERATIVE

Nel contesto ritratto dalla relazione di Roberto Sidoli, oltre alla strategia dell’attrattività, molta importanza è conferita anche a rapporti economico-commerciali radicalmente diversi da quelli occidentali. In tal senso la Cina, fin dal 1989/91, ha avviato un processo multilaterale di interscambi sia commerciali sia finanziari con i paesi in via di sviluppo, del tutto subalterni fino ad allora all’imperialismo. Essa era ed è tuttora imperniata sull’assenza di sfruttamento in campo produttivo e sul (riuscito) tentativo di favorire in ogni modo un processo di crescita economica stabile al loro interno, partendo innanzitutto dalla costruzione in loco delle indispensabili infrastrutture e servizi sociali, oltre che attraverso un flusso di finanziamenti a un tasso pari quasi a zero, con tempi assai lunghi di rimborso, quando non addirittura di annullamento del debito.

Aris Della Fontana, coordinatore della Gioventù Comunista della Svizzera Italiana

FONTE: www.sinistra.ch




Sabato 02 Febbraio,2013 Ore: 22:53
 
 
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