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www.ildialogo.org La pių Grande Depressione della storia?,di Antonio Pagliarone

Economia
La pių Grande Depressione della storia?

di Antonio Pagliarone

Apparso sul n. 1 della rivista Connessioni


La più Grande Depressione della storia?

Antonio Pagliarone

Noi sappiamo bene che occorrono condizioni assolutamente determinate

perché sia possibile l'abbattimento del capitale. La volontà del

proletariato non basta, giacché se non esistono queste condizioni

determinate tale volontà non può svilupparsi affatto (Paul Mattick Crisi

Mondiale e Movimento Operaio, 1933).

Vedrai, vedrai… vedrai che cambierà…forse non sarà

domani ma un bel giorno cambierà (Luigi Tenco 1965)

Gli economisti più disparati e gli osservatori di ogni genere insistono nel definire l’attuale corso economico come una delle tante recessioni che hanno caratterizzato l’ultimo secolo, ma ben pochi hanno il coraggio di descrivere quella che potremmo forse qualificare come la più grande Depressione della storia. Per poter sostenere tale affermazione occorre prendere in considerazione le stime relative alle diverse grandezze economiche utili per fotografare una sistema economico e sociale che non è più in grado di riprodursi, un organismo seriamente malato di fronte al quale non si riescono ad applicare le solite terapie che in passato lo hanno rigenerato. Un malato terminale in via di decomposizione.

Uno dei protagonisti sorti alla ribalta dell’economia moderna è l’indebitamento.

Il debito accumulato negli Stati Uniti nel 2011 ammontava a poco più di 15 trilioni di dollari superando di poco il PIL dello stesso anno mentre nel pieno della crisi finanziaria del 2008 era di 9,6 trilioni Il debito al consumo delle famiglie americane, pur essendo declinato dal 2008, che era pari a 14 trilioni, registra nel 2011 un ammontare di 11,66 trilioni. La Figura 1 riporta l’andamento del debito complessivo rispetto al PIL nel quale si nota che nel 2009 ha raggiunto il 369.7 % mentre il picco del 1933 era del 299,8%

Figura 1

USA: Debito Totale rispetto al PIL dal 1870 al 2010

Fonte: BEA, Federal Riserve, Census Bureau: Historical Statistics of United States, Colonial Time

Condizioni di indebitamento ormai divenute inverosimili si rilevano anche negli altri paesi maggiormente industrializzati come il Giappone che nel 2009 ha registrato un rapporto debito/PIL del 571%, ma lo stesso anno nel Regno Unito era al 466%, in Spagna al 366%, nella Corea del Sud al 333%, in Francia 323%, in Italia al 315%, in Svizzera al 313%, in Germania al 285% ed in Canada al 259%. La figura 2, tratta da Global Finance, mostra il rapporto debito PIL in vari paesi ed è interessante notare la distinzione tra il debito del Governo, delle Imprese non finanziarie, del settore finanziario e delle famiglie1. In Italia il debito delle famiglie nel 2011 ammontava a 503 miliardi di euro ed è aumentato del 36,4% rispetto al 2008.

Figura 2

Debito Totale, come percentuale del PIL, nei vari paesi suddiviso per settori

Possiamo rilevare una curiosità che mette in discussione molti luoghi comuni. Infatti spesso si imputa un aggravamento dell’ammontare del debito al numero elevato di impieghi statali che peserebbero sul bilancio dello stato. Ebbene dai dati forniti dall’ILO (International Labour Office) risulta che il rapporto tra lavoratori pubblici rispetto alla popolazione attiva totale nell’arco del periodo 2000-2009 è più elevato in Finlandia (23%), Francia (22%), Belgio 17%, mentre in Italia è poco meno del 15%, in Portogallo, Olanda, Spagna è al 13%, in Germania all’ 11% mentre il fanalino di coda è rappresentato dalla Grecia con il 7,5%. Se tra i dipendenti pubblici consideriamo anche quelli impiegati nelle imprese dello stato allora scopriamo che in Francia e in Finlandia il rapporto con la popolazione attiva è poco meno del 25%, in Belgio, Grecia ed Olanda siamo attorno al 20% mentre in Italia e in Germania non toccano il 15%, con la Spagna al 14%. Questi dati mettono definitivamente in discussione l’idea che il risanamento del debito possa passare attraverso i tagli all’occupazione pubblica.

La crescita economica che gli Stati Uniti hanno vantato nel passato è divenuta ormai un vago ricordo. Come sottolinea Paolo Giussani l’andamento crescente del PIL, dopo il crash del 2008, è stato un artefatto realizzato inserendo nei calcoli “il giro d’affari del settore finanziario che assieme ad altre voci viene aggiunto indebitamente al PIL che deprivato dell’ iniziale effetto del cosiddetto stimolo fiscale si trova ora a tendere verso un punto di pura e semplice stagnazione produttiva, a voler essere benevoli”. La Figura 3 2, messa gentilmente a disposizione da Paolo Giussani, rivela il netto crollo della produzione negli ultimi quarant’anni rispetto all’epoca d’oro del secondo dopoguerra per gli Stati Uniti e per il resto del mondo.

Figura 3

Mondo e USA Tassi Medi di Crescita Annua del PIL

Il Giappone, la seconda potenza economica mondiale, ha registrato nel 2011 una crescita del PIL pari all’1,4% e se consideriamo il periodo che va dal 1980 al 2011 la crescita media è stata solo dello 0,52%, ma basta osservare il dato drammatico del 2009 con un record di – 4,9% per poter affermare che il termine stagnazione è a dir poco ottimista. La recessione giapponese nello stesso anno è stata accompagnata da un declino del PIL nell’area OCSE mediamente pari al 5,8%. In Europa dal 1995 al 2011 si è registrato un incremento medio del PIL pari allo 0.42% con un record negativo di -2,50% nel marzo 2009. La figura 4 mostra il declino del PIL in vari paesi europei (è presente anche il dato per la Corea del Sud) tra il 2007 ed il 2010.

Figura 4

Declino del PIL, espresso in miliardi di dollari (a prezzi e tassi di cambio correnti), tra il 2007 ed il 2010 in vari paesi

Il Regno Unito tra il 2007 ed il 2010 ha subito una diminuzione del PIL pari al 20%, mentre l’Irlanda del 18,4%, l’Italia del 3,1%, la Spagna del 2,4%, la Germania dell’1,3% e la Francia dello 0.9%. Nel suo complesso l’Unione Europea ha registrato una diminuzione del PIL nello stesso periodo pari al 4,3%.

Il tasso di disoccupazione ufficiale negli Stati Uniti è dell’8,5% ma in realtà se si tiene conto dei criteri piuttosto elastici nel calcolare l’occupazione, grazie all’Hedonic System, si raggiunge il valore dell’11,4% ma rilevazioni alternative, che inglobano nei senza lavoro gli scoraggiati, i lavori a breve termine e quelli part-time, fanno innalzare il tasso di disoccupazione al 22,7%3. Tanto per intenderci durante il periodo della Grande Depressione il picco massimo di disoccupazione si è raggiunto nel 1933 con il 25%. La figura 5 mostra l’andamento del tasso di disoccupazione negli USA dal 1995 al 2012 secondo le stime ufficiali e quelle alternative dell’SGS (Shadows Government Statistics di John Williams)

Figura 5

Il Giappone ha registrato nel 2010 una disoccupazione ufficiale del 5,2%. Non esistono stime alternative ma possiamo sottolineare che il metodo utilizzato per la rilevazione è a dir poco sconcertante ed ha fatto da apripista ai criteri introdotti negli altri paesi OCSE. Infatti nel paese del Sol Levante chiunque lavori almeno 1 ora alla settimana od una settimana al mese viene considerato occupato a tutti gli effetti, senza considerare i lavori part-time o gli scoraggiati che porterebbero almeno a triplicare il tasso di occupazione ufficiale. Il gruppo di analisti di Nomura hanno stabilito che il tasso di disoccupazione reale è attualmente del 12,2%. Ma gli osservatori di Nomura ci riferiscono inoltre che in Giappone si è verificata una diminuzione generalizzata dell’orario di lavoro e quindi dei salari per poter mantenere basso il tasso di disoccupazione, evitando così alle Conglomerate di mandare sulla strada larghe masse di lavoratori, grazie ad una sorta di solidarietà “nazionale” sostenuta anche dal Governo che partecipa al pagamento di parte del salario. Alcuni studiosi hanno ricavato dai dati della popolazione attiva rispetto a quella “in età da lavoro” che in Giappone porta il tasso di disoccupazione effettivo al 25,5%.

Il tasso di disoccupazione ufficiale nel Regno Unito è attualmente dell’8% ma le stime alternative operate con gli stessi criteri dell’SGS mostrano un dato del tutto diverso che è pari al 21% della forza lavoro attiva, decisamente peggiore di quello degli anni 30. Nel resto della Europa il tasso di disoccupazione è mediamente del 10% ma se osserviamo i dati Eurostat, che si è decisa a tenere in considerazione tutti gli aspetti particolari evidenziati nelle rilevazioni alternative, riscontriamo valori piuttosto drammatici non solo per la Spagna, con la palma d’oro del 30%, ma anche per la tanto esaltata Germania con il suo 15% ma con il record di lavori part-time4, da notare che il picco della disoccupazione durante la crisi di Weimar ha toccato il 25% nel 19325.

Il valore invidiabile dell’Olanda è determinato esclusivamente da una flessibilità che dura da moltissimi anni. La Figura 6 mostra chiaramente la composizione della disoccupazione nei vari paesi dell’eurozona

Figura 6

Tasso di Disoccupazione nell’Area Europea (2010)

In realtà se poniamo a confronto il tasso di disoccupazione dei maggiori paesi europei esso supera il 15%, valore destinato a crescere nei prossimi mesi grazie alle ulteriori “riforme” che non interessano esclusivamente l’Italia. Un dato interessante da notare è il sottoutilizzo della forza lavoro che ha accompagnato la fase di crescita della disoccupazione. I lavoratori occupati in ogni senso raramente riescono ad essere collocati in mansioni adeguate alla loro professionalità per cui risultano sottooccupati.

Se osserviamo il grafico di Figura 7 relativo all’andamento della quota dei salari sul reddito nazionale negli Stati Uniti notiamo chiaramente che la quota dei salari percepiti dai lavoratori delle Corporation e quelli dell’economia nel suo complesso stanno declinando dal 19806.

Figura 7 USA, Quota Salari sul Reddito Nazionale 1948-2009

Lo stesso fenomeno più o meno pronunciato si è verificato in tutti i paesi dell’Europa Unita a parte il picco del Regno Unito del 1991 seguito da una discesa più pronunciata come si nota dal grafico sottostante7. Scopriamo così che il salario dei lavoratori italiani è il più basso del Continente Europeo.

Gli investimenti in capitale fisso delle imprese americane hanno iniziato a declinare dal 1977 ma occorre anche precisare che sin dagli anni 50 del secolo scorso non si riscontrano incrementi nella occupazione in relazione agli investimenti fissi operati dalle corporation americane; per cui i teorici dello “sviluppo” fordista hanno ben pochi elementi per sostenere una fase di trasformazione radicale nel modo di produzione nel “periodo d’oro” delle lotte operaie.

Il grafico di figura 8 presenta l’andamento dell’ammontare degli investimenti in capitale fisso rispetto al PIL negli Stati Uniti dove risulta evidente che a partire dalla crisi degli anni 70, con un picco di massima del 18,7% nel 1979, assistiamo, nonostante le oscillazioni8, ad un declino che prosegue sino al 2007 e che continua tutt’ora (nel 2010 è pari all’11,7%).

Figura 8

USA: Formazione di Capitale Fisso Lordo come percentuale del PIL a dollaro corrente

(Calcolati a partire dai dati del BEA (Bureau of Economic Analysis) NIPA)

Un andamento analogo viene presentato dal grafico di Figura 9 relativo al rapporto tra investimenti fissi e Pil in Europa nel quale è evidente il declino a partire dai primi anni 70. Infatti si può verificare nel 1973 un picco del 25 %, nella fase finale del Golden Age postbellico, per raggiungere il 18,2% nel 2010.

Figura 9

Europa: Formazione di Capitale Fisso Lordo come percentuale del PIL

(calcolati dai dati OCSE)

Persino la Germania, secondo i dati rielaborati dalla Banca Mondiale e dall’OCSE, ha conosciuto un declino del rapporto tra investimenti fissi e PIL a partire dal 1971 pari al 28%, mentre nel 2009 si è passati al 17,2% nonostante la crescita della bilancia commerciale sia superiore a tale valore; il che dimostra una notevole intensificazione del lavoro. Un andamento analogo si riscontra in Giappone che ha presentato un picco di massima nel 1973 con il 36,6% che è andato diminuendo continuamente nonostante la ripresa del 1991 (31,8%) sino a raggiungere il 21,2% nel 2009.

Un indicatore molto importante che rivela lo stato della produzione è rappresentato dal grado di utilizzo della capacità produttiva che per gli Stati Uniti ha subito, pur in presenza delle inevitabili fluttuazioni, un declino lineare sul lungo periodo che va dal 1967 al 2009. La Figura 10, fornito gentilmente da Paolo Giussani, ne mostra l’andamento nel periodo considerato.

Figura 10

USA Tasso di Utilizzo della Capacità Produttiva (1967-2010)

Per misurare correttamente il grado di utilizzo della capacità bisogna tener conto delle variazioni dell’output in relazione all’andamento dello stock di capitale sul lungo periodo, ma Anwar Shaikh propone una rilevazione alternativa, basata sul consumo di energia elettrica destinata alle imprese, che dovrebbe fornire dati più realistici9 Osservando i grafici proposti da Shaikh, messi a confronto con quelli del FMI, per i maggiori paesi industrializzati si nota un declino più o meno pronunciato dell’utilizzo della capacità con l’eccezione della Germania.

Per gli Stati Uniti e per il Regno Unito la stessa indagine mostra i grafici del grado di utilizzo della capacità rapportata al capitale investito nell’intervallo dal 1970 al 2000 che rivelano una caduta molto più evidente. Ciò dimostra chiaramente che se la capacità produttiva è sottoutilizzata non vi è alcuna spinta verso investimenti orientati all’innovazione tecnologica.

Secondo i dati del BLS negli Stati Uniti la produttività intesa come output per lavoratore è progressivamente aumentata dal 1987 al 2010, con una crescita del 3,6% tra il 2009 ed il 2010, ma se la confrontiamo con quella calcolata dal rapporto tra output per unità di capitale investito essa permane su valori negativi per tutto il periodo ad eccezione del 2009-2010 che vede un aumento del 3%10. Queste rilevazioni mostrano chiaramente che gli incrementi di produttività sono dovuti ad un maggiore sfruttamento della forza lavoro.

Il grafico di Figura 11 mostra gli incrementi di produttività per i singoli paesi tra il 1991 ed il 2007

Figura 11

Andamento della produttività, calcolata come output per operaio, nei vari paesi dal 1991 al 2007

Si notano aumenti nel complesso sempre meno importanti specie a partire dal 2003. Fanno eccezione la Gran Bretagna che presenta incrementi superiori agli altri paesi ed il Giappone con una crescita più pronunciata a partire dal 1998 ma su valori inferiori alle altre nazioni economicamente sviluppate. Nel 2009 il paese del Sol Levante ha però subito un declino del 3% nel numero di ore medie lavorate, in linea coi paesi OCSE, che ha portato ad un decremento della produttività pari al 4,8%, il dato peggiore tra tutte le nazioni sviluppate.

Nonostante i dati ufficiali mostrino una situazione di crescita moderata della inflazione, secondo rilevazioni alternative, che prevedono aggiustamenti sui consumi reali, negli Stati Uniti si è verificato tra il 2010 ed il 2011 un aumento dei prezzi pari al 5,8%, un valore molto vicino all’inflazione degli anni 70. Per l’Eurozona il tasso di inflazione varia da paese a paese infatti nel 2010 si passa dal 5,2% della Grecia e al 3,7% della Gran Bretagna, all’Irlanda che al contrario sta vivendo una fase deflattiva. L’inflazione ufficiale rilevata dall’Eurostat nei paesi dell’eurozona è pari al 2,7% in risalita dopo il crollo del 2009 che la vedeva su valori negativi. Secondo alcuni osservatori gli incrementi dei prezzi al consumo sono determinati esclusivamente dall’aumento dei prezzi delle materie prime ingaggiate nella produzione che a loro volta sono condizionati dalla speculazione operata sui mercati di Chicago e di Londra11. Per avere un’idea degli aumenti spropositati di alcune materie prime possiamo osservare che il prezzo del Cromo dal 2000 al 2008 è aumentato del 265%, del Rame 190%, del Ferro 132%, del Manganese 227%, Tungsteno 239% , Vanadio 547% ecc. Tra i non metalli lo zolfo ha fatto nello stesso periodo un balzo del 750%, il Potassio 230% per citarne alcuni. Il prezzo del Carbone tra il 2000 ed il 2008 è aumentato del 59%, quello del gas naturale del 156% mentre il petrolio nello stesso periodo è aumentato del 244%. Attualmente sono stati superati i 101 dollari al barile ma il prezzo è destinato a salire. Dati di questo genere mostrano chiaramente che le rilevazioni ufficiali sull’andamento dei prezzi al consumo sono totalmente artefatti12. Il rapporto della Banca Mondiale del Febbraio 2011 riporta che “Nei paesi economicamente sviluppati l’aumento dei prezzi dei beni alimentari ha gettato nella povertà quasi 44 milioni di persone”.

La recessione sta colpendo anche la Russia di Putin, paese che merita qualche considerazione a parte rispetto alle altre economie dato il carattere oligarchico di un sistema caratterizzato da una spaventosa concentrazione e monopolizzazione delle attività industriali dove continua a ristagnare il progresso tecnico rendendole non competitive sul mercato internazionale e con un settore bancario ancora molto arretrato . In realtà dopo la crisi finanziaria del 2008, durante la quale è tornato protagonista il prezzo del petrolio, è seguita una recessione nel 2009 con un crollo del PIL reale pari al 7,8% ( nel 2008 il PIL era a + 5,8%) ed un aumento della disoccupazione del 9,3% nel 2010. La produzione industriale nel 2008 ha subito una caduta del 19%; un record storico per la Russia, ma la ripresa del PIL al 4-4,5% negli ultimi due anni non ha certamente bilanciato il livello dell’8,5% del 2007 l’anno che precede la crisi. Occorre poi sottolineare che la produzione industriale opera attualmente utilizzando buona parte della capacità creata durante il “socialismo”13. La produttività è andata crescendo sino al 2007 ma con la crisi del 2008 assistiamo ad una brusca inversione di tendenza toccando il valore negativo di -8,2% del 2009.

L’inflazione ufficiale che ha raggiunto il 14% nel 2008 attualmente si è attestata al 9,3%. Tra il 2006 ed il 2010 nel settore agricolo è stato eliminato un lavoratore su cinque mentre nelle industrie russe, durante lo stesso periodo, vi sono stati tagli alla occupazione del 16,9% , nonostante ciò il tasso ufficiale di disoccupazione registrato nel 2010 è del 7,5%. La NezavisimayaGazeta del marzo 2011 comunque riportava che il 20-25% della popolazione lavorativa era occupata “informalmente” il che comportava la mancanza di ogni diritto sociale e legale. In una condizione del genere si possono realizzare alti profitti per un pugno di oligarchi14, impegnati nella speculazione, che hanno preso nelle loro mani il settore bancario e la produzione di materie prime e i cui privilegi vengono garantiti dallo stato. Ciò ha portano di conseguenza ad una estrema polarizzazione della società caratterizzata da una povertà di massa

Vorrei concludere riportando una considerazione decisamente condivisibile “La crisi non ha risolto né cancellato nulla, l’indebitamento resta altissimo e l’associata probabilità di nuovi crack altrettanto elevata. In queste condizioni non solo è vieppiù una chimera una crescita economica di qualche rilevanza, ma men che meno può riprendere nessuna seria fase speculativa, o meglio lo può fare solo riproducendo molto presto condizioni peggiori di quelle esistenti alla fine della fase precedente. Non è insensato pensare che una seconda scossa del tipo e magnitudo di quella di due anni e mezzo fa possa produrre grandissime sorprese”15

 NOTE

1 Per quanto riguarda gli Stati Uniti non sono stati inseriti gli ABS (Asset Backed Securities), titoli simili alle obbligazioni derivanti da operazioni di cartolarizzazione, che porterebbero il debito complessivo ad un valore superiore del 360% nel 2009.

2 Questo come altri grafici sono stati presentati da P. Giussani alla Conferenza di Casa Piana del 2010.

3 ZeroHedge riporta che nell’ultimo mese hanno perso il lavoro 1 milione e duecentomila americani, un record storico che mette definitivamente in dubbio i dati forniti dal BLS (Bureau of Labor Statistics) che al contrario registra un aumento seppur modesto della occupazione.

4 Occorre notare poi che dal 2001 con l’introduzione della riforma Hartz sono aumentati vertiginosamente i lavoratori sottopagati e dequalificati secondo modalità paragonabili a quelle della Cina (vedi il Rapporto redatto da Thorsten Kalina e Claudia Weinkopf dell’ Institut Arbeit und Qualifikation) che attualmente ammontano al 20% della forza lavoro. Nel 2011 la popolazione tedesca al disotto della soglia di povertà ammontava a più del 15% e con il declino delle esportazioni si prevede un ulteriore taglio della occupazione e dei salari per i prossimi anni. Il governo Merkel –Schäuble ha preparato un documento di bilancio per il 2013 che prevede nuovi tagli alla sanità, alle pensioni ed allo stato sociale, attraverso una manovra di 10 miliardi di euro, giustificato dallo slogan “diamo l’esempio” indirizzato ai paesi “meno virtuosi” della Comunità Europea.

5N. H. DIMSDALE, N. HORSEWOOD e A. VAN RIEL Unemploiment and Real Wages in Weimar Germany University of Oxford Discussion Papers in Economic and Social History Number 56, October 2004

6 P. Giussani alla Conferenza di Casa Piana, 2010

7 P. Giussani ibidem.

8 Tali oscillazioni possono facilmente essere imputate all’inserimento dei supporti informatici in quello che definiamo capitale fisso lordo.

9 Per un approfondimento sui criteri di rilevazione vedi il paper Anwar M. Shaikh, Jamee K. Moudud Measuring Capacity Utilization in OECD Countries: A Cointegration Method November 2004

10 Per una analisi dell’andamento della produttività e dei limiti relativi al suo calcolo vedi: Antonio Pagliarone Qualche riferimento al rapporto tra Information Technology e produttività

11 Sulla dinamica dei prezzi delle materie prime vedi Antonio Pagliarone “Dalla Fame di Speculazione alla Speculazione sulla fame.

12 Con buona pace dei keynesiani più rozzi che imputavano l’aumento dell’inflazione al pieno impiego mentre osserviamo attualmente un incremento dei prezzi in una fase di alta disoccupazione e declino generalizzato dei salari.

13 Khanin e Formin in un articolo del 2007 mostrano empiricamente una declino annuale del capitale fisso utilizzato per la produzione di beni pari al 2,6-2,7% a partire dal 2002.G.I Khanin , D.A. Fomin Accumulation and Consumption of Fixed Capital in Russia in Studies on Russian Economic Development Vol 18 n 1. (2007)

14 Le grandi compagnie petrolifere controllate da questa elite di delinquenti sono Gazprom, Lukoil Rosneft, TNK-BP, Surgutneftegas, il Complesso Industriale di Norilsk costituito dalle miniere di Nichel e di altri metalli, e la Sberbank costituita da una serie di banche regionali

15 Paolo Giussani Capitalism is Dead



Martedė 24 Aprile,2012 Ore: 23:14
 
 
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