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www.ildialogo.org L’ETICA DEL FURTO,di Enrico Peyretti

CAPITALISMO CRIMINALE
L’ETICA DEL FURTO

di Enrico Peyretti

Guido Rossi (Università Bocconi, già presidente Consob e senatore, autore di molti studi di economia) pubblica, insieme a Paolo Prodi (storico della giustizia e del potere), Non rubare, Il Mulino 2010, pp. 169, € 12 (in una collana sui dieci comandamenti).
Il contributo di Paolo Prodi è storico, fino ad affacciarsi sull’età contemporanea. La parte di Guido Rossi (pp. 107-169) termina così: «L’amara conclusione che oggi possiamo trarre è che con l’abbondare dei “codici etici”, a giustificare denaro e mercati, con le loro molteplici degenerazioni (eccessive anche rispetto all’oggetto ormai espanso e globalizzato del settimo comandamento), ha, nell’insostenibile pluralismo della morale, toccato l’ultima deriva in un inquietante ossimoro: l’etica del furto» (p. 167, sottolineatura mia).
Chi vuole, potrà leggere l’analisi di Guido Rossi. Il furto «ora sono le stesse regole del mercato che tendono a legittimarlo». È ciò che avviene nella «nuova rivoluzione ancor più dirompente: la rivoluzione finanziaria» (p. 108). «Il maggior strumento di creazione di ricchezza è diventato il debito» (p. 110). «Le ricchezze si sono autoalimentate, riprodotte con una partenogenesi talmente mostruosa da apparire dettata da una pulsione di morte, con la quale è stata identificata l’accumulazione finanziaria del capitalismo». Keynes, nel 1936, «aveva prospettato come soluzione finale del capitalismo l’eutanasia del rentier [persona che vive di rendita]» (p.111). Ciò ha dato «l’illusione che i debiti si possano non pagare (…) e ha cambiato il concetto e le dimensioni del furto e il senso profondo del settimo comandamento» (p. 111-112).
La società per azioni si è ridotta a nexus of contracts, coacervo di contratti scollegati fra azionisti, «sicché qualsivoglia appropriazione indebita di beni sociali non può certo essere qualificata come un “furto” nei confronti degli azionisti» (p. 114). La proprietà non più dissociata dal controllo, diventa virtuale, e rende quasi attuale il paradosso di Proudhon: «La propriété c’est le vol. La proprietà è il furto».
Nelle ideologie di moda, il mercato si basa sull’uguaglianza di tutti gli attori, ma è vero il contrario: il mercato stimola e premia solo la disuguaglianza fra gli attori del sistema. Il mito degli eguali, base della democrazia, è l’opposto del mito del mercato. L’ordine dell’egoismo ha il sopravvento sull’ordine degli eguali, in una deriva di civiltà. «La convinzione che l’economia di mercato prima o poi sia di stimolo e propulsione a regimi di democrazia politica risulta anche storicamente una grossolana sciocchezza» (p. 116). «Il capitalismo finanziario ha avuto il suo recente grave fallimento con la più grande recessione, dopo quella degli anni ’30, dovuta non certo a politiche governative sbagliate, quanto invece al fallimento del mercato» (p. 117).
Non insisto nelle citazioni. Se vi piace, vedete cosa dicono dei “derivati” quelli che li gestiscono: sono armi che premiano l’omicida. È inquietante – commenta Guido Rossi - che «le più temibili realizzazioni del “furto” avvengono non nella violenza, ma nel pieno rispetto delle regole del mercato finanziario» (p. 119). C’è «una nuova e diversa dimensione del furto: la speculazione» (p. 122). Il denaro illecito (corruzione, furto, crimine organizzato, manipolazioni finanziarie) ha come caratteristica l’opacità, che è «furto occulto, ma tipico, del capitalismo finanziario» (p. 124). «Nel capitalismo finanziario (…) il ricco sottrae ricchezze comuni al povero» (p. 125).
«Sembra corretto affermare che il capitalismo finanziario della globalizzazione ha sconfitto definitivamente, almeno per ora, il diritto» (si veda il contesto a p. 135 e 136). Nella lex mercatoria si individuava bene il furto, ma ora il mercato è stato «largamente scavalcato». «Potremmo forse concludere che il capitalismo finanziario ha distrutto il mercato seppellendolo nell’opacità di un “contromercato”» (p. 137 e 138).
Un paragrafo è dedicato a “L’avidità dei manager e la sottrazione di ricchezza” (pp. 140-154). «Arricchirsi, impoverendo subdolamente altri, attraverso complicate esercitazioni di ingegneria finanziaria, è certo una raffinata estensione del concetto di furto nell’ultima rivoluzione del sistema capitalista» (p. 145). «Di fronte all’imbroglio dell’etica degli affari (…) a me pare che ogni riforma dovrebbe avere come norma fondamentale il comandamento: “Settimo non rubare”» (p. 154).
Guido Rossi chiede «se le nuove strutture del capitalismo, che Max Weber voleva far nascere dall’etica protestante, abbiano rovesciato completamente tale presunta genesi, non solo fino a negarla, ma addirittura a fare della non-etica la sua base di consolidamento. E la crisi recente sarebbe dunque la prova che la non-etica del sistema è emersa travolgendolo?» (p. 154-155).
Benjamin Franklin pose il guadagno come scopo della vita. La “Scuola di Chicago” vede il mercato come valore assoluto e per Milton Friedman «la responsabilità sociale (…) è solo quella di aumentare i profitti». Questa «moda ideologica e arrogante» ha creduto di trovare in Adam Smith, filosofo e fondatore della scienza economica, la storiella della “mano invisibile”, che ripartisce in equilibrio nel bene comune la ricerca esclusiva dell’interesse privato. Emma Rothschild ha dimostrato che l’espressione, nata in tutt’altro contesto e senso, «è un’idea assai poco smithiana» (si veda pp. 156-157).
Si ricorre di necessità al concetto di “etica-tampone”, per tentare di impedire che la fase terminale del capitalismo lo autodistrugga togliendogli il consenso e la legittimazione sociale. Ma i contenuti dell’etica-tampone nulla hanno a che vedere col settimo comandamento (p. 159).
Nel supercapitalismo l’impresa non fa beneficenza. Ci pensino i governi a fare il bene comune. Google per restare in Cina accetta di oscurare i siti contrari al governo, pur essendo pronta a ritirarsi nel timore di invasione degli hackers cinesi. «Una falsa democrazia ha invaso l’ultima fase del capitalismo» (p. 161).  
Non è questione di morale. Il capitalismo non è né morale né immorale. Mancando leggi e regole che definiscano la responsabilità sociale, il problema riguarda la cosiddetta morale giuridica, i codici etici. La stessa esistenza del diritto è un fatto morale, perché, in sua mancanza, i comportamenti umani (secondo Guido Rossi) sarebbero solo quelli da lupo a lupo, come pensa Hobbes (p. 163).
Già il 12 dicembre 1988 il Comitato di Basilea per le regolamentazioni bancarie impegnava con preoccupazione le banche a seguire «principi etici», ma le autorità di vigilanza dormirono e «il sistema del capitalismo finanziario divampò nello scoppio più imponente di tutti gli scandali finanziari». «La copertura retorica dell’etica maschera o nasconde la grande epidemia di conflitti di interesse e le frodi e manipolazioni dei mercati finanziari al di fuori della loro liceità». Un pasticciato connubio tra principio morale e norma giuridica (pp. 164-165).
L’etica-tampone è usata in tutti i settori, dalla politica allo sport all’arte agli affari alla politica estera: qui serve a «giustificare le guerre “giuste”, anch’esse come il terrorismo pericolosamente legate alla globalizzazione e alla rivoluzione finanziaria» (p.166). Max Weber nel 1894 paragonava la borsa e i capitali delle grandi banche ai fucili e ai cannoni.
L’etica-tampone ha sostituito «anche la sanzione di vergogna che dovrebbe per prima colpire la criminalità economica» (p. 166-167).
«L’aver posto il denaro a sostituire ogni altro valore, persino quello estetico nel giudizio sull’arte contemporanea, ha fatto sparire ogni criterio e, per il crimine economico, anche la sanzione reputazionale. Il denaro, comunque acquisito, è così il nuovo generale criterio di valutazione della civiltà finanziaria» (p. 167).
L’ultima deriva, che abbiamo indicato all’inizio, è «l’etica del furto». Che Dio ci aiuti, anche a caro prezzo, a reagire.
Enrico Peyretti, 22 agosto 2010


Venerd́ 03 Settembre,2010 Ore: 15:07
 
 
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