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www.ildialogo.org “La Cina e la “teoria del magnete” - parte prima-,di R. Sidoli, M. Leoni e D. Burgio

“La Cina e la “teoria del magnete” - parte prima-

di R. Sidoli, M. Leoni e D. Burgio

Capitolo settimo


Vi inviamo una parte del capitolo Settimo del nuovo libro “Ipotesi Hong Kong o Armageddon?” di R. Sidoli, M. Leoni e D. Burgio, che potete consultare e scaricare gratuitamente già da ora dal sito www.robertosidoli.net

Auguriamo a tutti una buona lettura.

La politica estera della principale potenza economica a livello mondiale, sempre tenendo conto del criterio della parità del potere d’acquisto, si articola su quattro livelli diversi, seppur interconnessi tra loro da analisi, progettualità e pratica politica comune: la Cina (prevalentemente) socialista all’inizio del 2012 ha cristallizzato da lungo tempo, almeno a partire dal 2001/2003, una strategia di lungo termine per i prossimi decenni che ha per oggetto le relazioni interstatali su scala mondiale, ovviamente legata dialetticamente con l’orientamento e la dinamica generale di sviluppo del gigantesco paese asiatico.

Si tratta di una strategia innanzitutto di matrice pacifica, non-egemonica e cooperativa, determinata sia da sincere spinte ideali che da concomitanti e paralleli interessi geopolitici; ma che allo stesso tempo risulta assai ambiziosa e lungimirante, perché tende alla progressiva e pacifica costruzione sia di un nuovo ordine planetario che a facilitare l’avvio di un processo graduale e pacifico di transizione al socialismo su scala mondiale, in forme originali ed innovative rispetto alla precedente (e fallimentare, nell’ultimo periodo) esperienza sovietica, rielaborando creativamente la teoria e pratica politica prodotta via via sulle relazioni internazionali dal movimento comunista fin dal 12 settembre del 1882, con la splendida lettera di Engels a Karl Kautsky sulla possibile/auspicabile dinamica di sviluppo del processo rivoluzionario mondiale (ancora vivo ed operante Marx…).

In ultima analisi, siamo in presenza di un grande disegno che ha per oggetto una sorta di “via economica/pacifica” al socialismo su scala mondiale, sorretta e proposta da una “superpotenza anomala”, in termini di progettualità profondamente diversa da quella sovietica: e soprattutto, per la materia oggetto del presente lavoro, di una strategia di lungo periodo che risulta a nostro avviso perfettamente compatibile con l’“ipotesi Hong Kong” e che anzi non può che averla al suo centro, nel caso di una crisi disastrosa dell’economia e della finanza pubblica degli Stati Uniti.

Ma prima di entrare nel merito, risulta necessario una preventiva chiarificazione sulla natura socioproduttiva della Cina contemporanea, demolendo la tesi (ancora assai diffusa nella sinistra occidentale) che essa sia diventata invece una forma più o meno originale di capitalismo di stato: come si era già notato nel “Il ruggito del dragone”, serve sotto questo profilo uno shock salutare per molti onesti militanti anticapitalisti.

Va subito notato come siano state proprio le autorità politiche statunitensi a riconoscere nei fatti la diversità del sistema socioproduttivo (e sociopolitico) cinese, quando ad esempio il sottosegretario al Tesoro L. Brainard chiese a Pechino nell’estate del 2011 di “smantellare l’insieme di controlli finanziari che tendono a canalizzare credito a basso costo alle imprese statali” cinesi, ponendole a suo avviso in una situazione di vantaggio rispetto alle imprese private, autoctone o straniere; oppure quando il sottosegretario di Stato R. Hormats si lamentò pubblicamente sempre nello stesso periodo, delle “moltitudini di vantaggi” goduti dalle aziende pubbliche cinesi nella loro terra d’origine. ( D. Palmes, “Rise of China state-owned firms rattle U.S. companies”, 17 agosto 2011, in www. Reuters.com).

Inoltre una fonte anticomunista come il quotidiano inglese “The Guardian” ammetteva, il 27 aprile 2011, che non solo “l’economia cinese risulta in gran parte legata allo stato, con il governo che controlla l’insieme del sistema finanziario” e la proprietà (pubblica) delle principali imprese industriali, ma che tale profonda diversità con il reale e contemporaneo capitalismo di stato occidentale, operante dagli Usa all’Italia (= egemonia della finanza privata e dei monopoli privati sul processo produttivo, “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”, “socialismo dei ricchi” in caso di loro crisi, profitti su ampia scala sia delle imprese private del complesso militare-industriale che di quelle collegate agli appalti pubblici, ecc) spiega simultaneamente perché “la Cina sia stata capace di superare” la recessione mondiale” (del 2008-2009) “con una crescita del suo prodotto interno lordo del 9,8” (nel 2010), “nonostante avesse perso circa il 3,7% del suo PIL a causa della caduta globale delle sue esportazioni” verso i disastrati paesi occidentali, espressione ormai chimicamente quasi pura del reale, concreto e non immaginario capitalismo di stato contemporaneo.1

Sono reperibili anche numerose altre testimonianze, di matrice quasi sempre apertamente anticomunista, che attestano la netta prevalenza dei rapporti di produzione collettivistici e della “linea rossa” nella composita e “sdoppiata” formazione economico-sociale cinese dell’inizio del terzo millennio.

In un rapporto relativo alle 500 principali imprese operanti in Cina nel 2010, rilasciato agli inizi di settembre del 2011, si notava che esse fatturavano nel 2010 più dell’83% del PIL cinese, ed emergeva soprattutto che le imprese di proprietà pubblica, in tutto o in larga parte statali, avevano un volume d’affari pari a ben l’82,84% del totale: più di quattro quinti del fatturato della “top 500” del 2010 in Cina derivava pertanto da aziende non-capitalistiche, in mano al settore pubblico in tutto o in buona parte.

Il 16 novembre del 2010 J. Dean scriveva sul Wall Street Journal, la “bibbia” dei capitalisti di tutto il mondo, rilevando con preoccupazione come il governo e lo stato cinese possiedano “tutte le maggiori banche in Cina, le tre maggiori compagnie del settore petrolifero e delle telecomunicazioni, le più grandi aziende nei mass media”. Sempre il Wall Street Journal ha notato che i beni di proprietà delle imprese statali nel 2008 equivalevano a ben 6.000 miliardi di dollari, il 133% del prodotto nazionale lordo cinese di quello stesso anno, e in percentuale più di cinque volte del valore accumulato dalle imprese pubbliche (ferrovie, ecc.) francesi, il paese a sua volta più “dirigista” del mondo occidentale.

Una seconda sorpresa è arrivata il 7 luglio del 2010. Un professore dell’università di Yale, Chen Zhiwu, ha rilevato sull’International Herald Tribune (pag. 18) che “lo stato cinese controlla tre quarti della ricchezza in Cina…”: il 75%, quindi, non lo 0,1% del processo produttivo del gigantesco paese asiatico.

A sua volta il giornalista Isaac Stone Fish, sulla rivista statunitense Newsweek del 12 luglio 2010, ha attirato l’attenzione sulle “imprese di proprietà statale, che dominano in modo crescente l’economia cinese…”: pertanto negli ultimi anni si assiste a un processo di incremento del peso specifico del settore pubblico all’interno della Cina, non certo alla sua riduzione. 2

Altro microshock. Il 28 settembre del 2009 il sito China Stakes rilevava che, tra l’aprile e il settembre di quell’anno, il governo e le autorità locali della provincia dello Shanxi, (la “capitale del carbone” della Cina) avevano nazionalizzato ben 2840 miniere appartenenti in precedenza a investitori privati, autoctoni o stranieri, con indennizzi di regola ritenuti da questi ultimi “insoddisfacenti”.

Tang Xiangyang, sulla rivista Economic Observer News del settembre 2009, ha preso in esame dal canto suo l’elenco che viene diffuso ogni anno in Cina sulle 500 principali aziende del paese, edito tra l’altro a partire dal 2002 da un organismo che comprende al suo interno anche tutte le principali imprese private, autoctone o multinazionali, che operano in esso.

Con tono sconsolato, Tang Xiangyang ha dovuto intitolare il suo articolo “I monopoli di stato dominano la top 500 della Cina”, notando subito che durante il 2008 tutte le prime 43 posizioni nell’elenco in oggetto erano occupate… da aziende, industrie e banche statali, completamente o a maggioranza in mano al settore pubblico. Le imprese private e i monopoli capitalistici, tanto decantati in occidente, svolgevano il ruolo di “cenerentola” nel processo produttivo cinese, tanto che Tang Xiangyang è stato costretto a rilevare con una certa angoscia come la più grande azienda privata cinese, la Huawei Tecnologies con base a Shenzen, occupasse solo il 44° posto nella lista; dato ancora peggiore per il povero Tang, solo un quinto e solo cento delle “top 500” in Cina erano aziende capitalistiche, la cui percentuale sull’importo globale delle vendite ottenute nel 2008 dalle prime cinquecento imprese risultava pari circa a un deludente… 10%, a un modesto decimo del reddito globale espresso da queste ultime nella Cina del 2008.3

Nella classifica relativa alle 500 imprese più grandi al mondo, pubblicata dalla rivista Fortune nel luglio del 2010, risultano a loro volta presenti 42 imprese della Cina continentale (con esclusione di Taiwan, Hong Kong e Macao): e su queste 42 (a partire dalla statale Sinopec, numero sette per dimensioni su scala planetaria) gigantesche aziende cinesi, risultano essere di proprietà pubblica, in tutto o in larga parte, addirittura quarantuno società, banche e istituti finanziari compresi.

A sua volta Dick Morris, giornalista di sicura fede anticomunista, nel luglio del 2009 intitolava un suo articolo “Il socialismo non funziona nemmeno in Cina” lamentandosi (dal suo punto di vista) che in Cina ben l’80% di tutte le attività di investimento venisse finanziato da banche statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica, e che (orrore ancora maggiore) le imprese di stato cinesi esprimessero ben il 70% dell’insieme degli investimenti di capitali in Cina.

Percentuale tra l’altro in crescita progressiva, protestava con vigore l’indignato Dick Morris, e che ingiustamente favoriva la “triste storia del settore socialista in Cina”, sempre a giudizio del pubblicista occidentale.4

Quarantatré società statali ai primi quarantatré posti nella “top 500” del 2008, il 70% degli investimenti produttivi cinesi da imprese pubbliche: anche a prima vista, non si tratta certo di “residui” socioproduttivi di marca socialista dei (presunti) “bei tempi passati”.5

All’interno della Cina contemporanea risaltano ed operano congiuntamente quattro anelli principali, su cui si articola l’egemonia contrastata della “linea rossa” socioproduttiva, costituita dal ruolo determinante svolto dalle aziende/banche statali, dalla proprietà pubblica del suolo cinese, dall’enorme estensione assunta dal settore cooperativo (ivi compreso quello agricolo) e dal “tesorone” pubblico formato dall’enorme massa di monete e titoli esteri in mano all’apparato pubblico cinese.

Ma oltre ai “quattro anelli” sopra descritti, la supremazia (contrastata) del settore socialista nell’insieme dell’economia cinese viene garantita e rappresentata da numerosi altri strumenti, allo stesso tempo politici ed economici, quali:

  • il possesso e controllo statale della stragrande maggioranza delle risorse naturali del paese, a partire da quelle idriche ed energetiche;

  • il quasi totale monopolio statale del settore militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni;

  • la presenza di numerose imprese municipalizzate in quasi tutte le città cinesi, aziende possedute e controllate dagli organismi politici locali;

  • la politica demografica del “figlio unico” (non applicata alle minoranze etniche del paese), con i suoi positivi riflessi sia sull’economia che sul processo complessivo di riproduzione della forza lavoro del gigantesco paese asiatico;

  • il processo partigiano e unidirezionale di concessione dei prestiti bancari, denunciato non a caso da Dick Morris; essi vengono destinati nella loro grande maggioranza a favore del settore statale e cooperativo, mentre solo per una porzione secondaria vanno alla sfera privata; 6

  • l’utilizzo del sistema finanziario principalmente al servizio dello stato, che se ne serve anche “per scopi come la lotta all’evasione fiscale” riconosciuti persino da studiosi anticomunisti;7

  • il progressivo aumento, negli ultimi dieci anni, della quota del PIL cinese amministrata direttamente dallo stato: percentuale passata dall’11% circa del 1998 fino al 23% del 2007;8

  • il processo, relativamente esteso da parte cinese, di riacquisto dell’intera proprietà di alcune delle joint venture formatesi tra imprese statali e multinazionali, come testimoniato anche da Luigi Vinci (Rifondazione Comunista) in un suo articolo sulla dinamica politico-sociale cinese; 9

  • molte delle principali multinazionali straniere che operano in Cina sono state costrette ad accettare di costruire joint venture alla pari con le aziende statali, per poter operare in terra cinese fuori dalle “zone speciali” economiche: ad esempio la Volkswagen ha creato (fin dal 1984) una joint venture paritaria con l’azienda statale SAIC che durerà almeno fino al 2030, imitata in questo senso dalla General Motors, da Microsoft, ecc;

  • l’intreccio spesso creatosi in Cina tra azionisti privati e proprietà pubblica, all’interno di imprese apparentemente solo capitalistiche, a volte può ingannare: basti pensare che se la Lenovo, una delle più importanti imprese al mondo nella produzione di computer, agli occhi occidentali rappresenta una compagnia privata, alla fine del febbraio 2008 almeno il 30% delle sue azioni risultava in mano statale;

  • il potere reale di fissare “dall’alto” e per via politica i prezzi di alcuni beni e servizi, come è successo nei primi mesi del 2008 per benzina, grano, latte e uova, al fine di combattere l’allora crescente inflazione (misure analoghe vennero prese nel 1996 e 2003);

  • il pieno controllo statale su decisive condizioni generali della produzione quali dighe, centrali elettriche, canali di irrigazione, porti, sistema ferroviario e stradale, rete di internet, ricerca scientifica e settore high-tech, ecc;

  • il potere statale di aumentare per legge (e scelta politica) i salari minimi, potere applicato concretamente e più volte nel corso degli ultimi decenni. Ad esempio, l’insospettabile International Herald Tribune (28 dicembre 2010, pag 18) ha ammesso che “il salario minimo crescerà a Pechino del 21% a partire dal 1 gennaio del 2011, “dopo un 20% di incremento avuto appena sei mesi fa” a metà del 2010;

  • il sistema fiscale cinese è basato su delle aliquote fortemente progressive, che vanno dallo zero per i redditi più bassi ad arrivare al 45% per le entrate superiori ai 100.000 yuan mensili, pari a circa 12.000 euro al mese.10

La differenza tra la formazione economico-sociale cinese attuale, prevalentemente, di matrice collettivistica, ed i reali, concreti capitalismi monopolistici di stato contemporanei (a partire da quello statunitense, britannico, italiano, ecc.) diventa inoltre ancora più evidente e vistosa se si prende in considerazione un altro importante elemento, economico e socioproduttivo: l’assenza clamorosa di un ruolo significativo dei derivati creditizi nel processo di riproduzione dell’economia cinese, l’assenza del “capitale fittizio” (Marx) investito nel processo di circolazione di opzioni e derivati finanziari in terra cinese. Come si vedrà meglio in seguito, nelle metropoli imperialistiche tale processo di interscambio finanziario fin dal 1990 ha raggiunto proporzioni abnormi, arrivando attualmente a superare per valore (fittizio…) circa dieci volte l’intero Pil mondiale: ma se questo fenomeno risulta da ormai due decenni un elemento chiave all’interno delle economie capitalistiche di stato, a partire da quella statunitense, esso viceversa non gioca praticamente alcun ruolo, non ha praticamente spazio e peso specifico reale in un economia gigantesca come quella cinese che, a partire dal 2009, ha ormai sorpassato quella americana utilizzando il criterio della parità del potere d’acquisto.

Un “fatto testardo” (Lenin), da tener ben in conto.

Per quanto riguarda invece la progettualità interna, a breve e medio termine, del partito comunista (PCC) e degli apparati statali cinesi, attraverso il 12° piano quinquennale (2011-2016) la direzione del partito ha utilizzato l’occasione/pericolo della grave depressione che dal 2008 colpisce il mondo capitalistico per progettare, e soprattutto mettere in campo un salto di qualità decisivo nel modello di sviluppo di lungo periodo della formazione economico-sociale cinese. Un balzo qualitativo di grande portata che, in estrema sintesi, si articola su tre elementi centrali:

  • maggiori consumi popolari, meno risorse destinate all’accumulazione;

  • più alta tecnologia, meno settori a bassa composizione organica del capitale;

  • più energia verde rinnovabile, meno fonti energetiche inquinanti e non rinnovabili.

È stata, infatti, elaborata la progettualità/praxis tesa a creare una nuova fase nella dinamica del socialismo in Cina, che coniughi l’aumento ancora più rapido del tenore di vita operaio e contadino con la tutela ambientale e la sostenibilità del processo di sviluppo interno, l’enorme accelerazione dell’utilizzo delle energie rinnovabili con l’innalzamento esponenziale del livello qualitativo della scienza e tecnica cinese, la riduzione progressiva della dipendenza (relativa) dalle esportazioni con la crescita della domanda endogena di beni di consumo accompagnata alla riduzione dell’elevatissimo tasso di risparmio dei lavoratori cinesi, sia urbani che rurali.

Il progetto di lungo periodo enucleato dopo il 2007, di portata epocale per la Cina e il mondo intero, ha trovato la sua principale forma di cristallizzazione pratica quando, a metà ottobre del 2010, il Comitato Centrale del PCC ha approvato le linee guida del 12° piano quinquennale, elaborato per il gigantesco paese asiatico ed in vigore dal 2011 al 2015.

Il primo elemento importante è che viene riconfermato il ruolo assai significativo svolto dalla pianificazione e dall’intervento politico (sia dal centro che dalle “periferie”, dalle diverse municipalità e regioni) all’interno del processo di riproduzione complessiva dell’economia cinese: il dominio del cosiddetto libero mercato, con le sue presunte “virtù”, i dirigenti del PCC preferiscono giustamente lasciarlo in esclusiva al declinante capitalismo occidentale con i suoi recenti fallimenti economici e crack finanziari generalizzati. In seconda battuta, l’obiettivo finale del dodicesimo piano quinquennale consiste nel raggiungimento di una crescita del 50% in cinque anni, a un ritmo annuale di quasi il 9%, in grado di consentire alla Cina di ottenere nel 2015 un prodotto nazionale lordo pari a 8000 miliardi di dollari, contro i circa 5000 del 2009: si tratta del mezzo indispensabile per avviare uno “sviluppo inclusivo” affinché, come evidenzia il documento del PCC “tutti i cittadini […] possano vivere in una condizione di benessere”. Anche il giornalista anticomunista A. Paglia ha ammesso che il dodicesimo piano “prevede, come d’incanto, lo stop all’inflazione, il taglio delle tasse ai ceti bassi e l’aumento generale degli stipendi. Nel 2011 i salari minimi aumenteranno di un altro 20%, come l’anno scorso, ma con punte del 75% nelle regioni interne. Un operaio passerà da 124 a 146 euro al mese. Nelle città la busta paga media sarà di 2000 euro all’anno, rispetto ai 600 guadagnati nelle zone rurali”.

Benessere diffuso e collettivo, dunque, con la centralità attribuita allo sviluppo e alla domanda interna rispetto al settore dell’esportazione collegata ad alcune priorità sociali:

  • estendere e migliorare notevolmente il sistema di protezione sociale ed il welfare state cinese, a partire dal settore sanitario e scolastico;

  • incrementare enormemente la produzione per mano pubblica di case a basso prezzo per le masse popolari urbane: è prevista la costruzione di ben 35 milioni di immobili a basso prezzo entro il 2015. Sotto questo profilo, il premier cinese Wen Jiabao ha affermato nell’aprile del 2011 nel rapporto di lavoro del governo che “quest’anno inizieremo la costruzione di dieci milioni di appartamenti derivati dalla ristrutturazione delle case popolari. Vogliamo concentrarci sugli appartamenti pubblici. Il bilancio delle forze centrali ha in programma di versare 10,3 miliardi di RMB come fondi di sovvenzione, incrementati di 26,5 miliardi di RMB rispetto all’anno scorso. I governi a tutti i livelli riceveranno i fondi in diverse forme e aumenteranno sostanzialmente gli investimenti. Dovranno costruire al più presto un sistema amministrativo d’utilizzo dei fondi, case popolari funzionali, aumentare la trasparenza e rafforzare il controllo sociale per garantire che le famiglie che hanno i giusti requisiti possano beneficiare di tutto questo;11

  • continuare nel ritmo di espansione accelerato dei salari, a partire da quelli minimi, che ha già contraddistinto la Cina negli ultimi tre anni: non a caso a Pechino, dal 1° gennaio del 2011, il salario minimo è stato aumentato del 20% in un sol colpo.

Il dodicesimo piano quinquennale è diventato ormai una realtà concreta, che produrrà a breve degli effetti giganteschi e benefici sia sulla Cina che nel resto del pianeta. Non è pertanto casuale che persino uno dei simboli del capitalismo finanziario statunitense, JP Morgan, abbia previsto un tasso annuale medio di crescita cinese pari all’8% anche nei prossimi cinque anni, mentre a sua volta il Fondo Monetario Internazionale ha ammesso che la Cina si trasformerà da un’economia basata sull’esportazione a una basata sulla domanda interna, tesi condivisa anche da Goldman Sachs.12

I processi d’analisi in via d’esposizione hanno evidenti ricadute anche sulla politica internazionale, in particolar modo escludendo a priori ed in modo inequivocabile che la Cina (prevalentemente) socialista sia diventata una potenza imperialistica.

Come si è già sottolineato nel “Ruggito del dragone”, infatti, la teoria che considera la Cina un polo imperialistico, più o meno originale, “si scontra con molti fatti testardi, che la “demoliscono” e falsificano alla radice.

Il principale problema che incontra la concezione in oggetto è che i rapporti sociali di produzione e distribuzione nella Cina contemporanea risultano ancora prevalentemente collettivistici, di natura statale o cooperativa, anche se affiancati simultaneamente dalla presenza di un robusto settore capitalistico, nazionale ed internazionale (multinazionali straniere).

Senza “dominio dei monopoli e del capitale finanziario” (Lenin), pertanto, sparisce l’imperialismo, o almeno l’imperialismo descritto da Lenin.

Senza una base economica e rapporti di produzione prevalentemente capitalistici, non si può certo parlare di imperialismo moderno, che si fonda – sempre Lenin – su una precisa “fase di sviluppo del capitalismo finanziario” (banche private in testa) e del suo processo di accumulazione.

E deve essere sottolineato come anche il ricercatore anticomunista Willy Lam, il 14 gennaio 2011, abbia ammesso che nel 2009 il solo giro d’affari delle imprese statali, controllate dallo stato a livello centrale (gli yangqi, in cinese) abbia pesato per ben il 61,7% sull’intero prodotto nazionale lordo cinese del 2009, percentuale equivalente a quasi due terzi della ricchezza prodotta nel gigantesco paese asiatico nell’anno preso in esame.

La seconda difficoltà che incontra la tesi della “Cina-polo imperialista” deriva dal fatto che il presunto imperialismo cinese viene invece sfruttato su larga scala (seppur in modo controllato, con precisi limiti e contropartite) e da quasi tre decenni, da parte delle multinazionali occidentali e giapponesi.

G. Gattei ha perfettamente ragione quando ha notato che, “come se la profezia di Smith si fosse avverata, aggiungendo finalmente al proprio mercato interno anche il mercato internazionale, la Cina si è trasformata in una vera propria officina del mondo, esportatrice privilegiata di manufatti per il centro imperialistico”.13

Ma il compagno Gattei, forse per motivi di spazio, ha dimenticato di analizzare unfatto testardo ” di notevole importanza, e cioè che quasi il 60% del totale delle esportazioni provenienti dalla Cina e destinate in larga parte ai mercati consumatori occidentali rimane sotto la proprietà ed il controllo delle multinazionali, occidentali e giapponesi, che operano nel paese asiatico: nel 2006 la quota in oggetto risultava pari al 58% del totale del commercio estero cinese.14

La Cina è diventata l’“officina del mondo”, ma più della metà dei “manufatti per il centro imperialistico” (Gattei) che essa esporta ogni anno risulta di proprietà proprio del capitalismo estero, in modo che più della metà dei “manufatti esportati annualmente dalla Cina” costituisce una preziosa fonte di profitti per le multinazionali occidentali, dalla Wal-Mart in giù; pertanto ogni anno una consistente massa di plusvalore/plusprodotto/profitti, creati e generati dagli operai assunti dalle multinazionali occidentali che operano nel gigantesco paese asiatico, entra nelle tasche degli azionisti e dei capitalisti occidentali e ne alimenta il processo di accumulazione.

Che strano imperialismo, quello cinese! Anzi, che misero imperialismo, che non sa neanche difendere a vantaggio del proprio “capitale” una buona parte della massa di plusvalore via via riprodotta a Pechino, Shanghai e nelle regioni costiere cinesi!15

Rimandando al testo citato per trovare altri esempi che falsificano l’equazione Cina=polo imperialistico, si può a questo punto passare al processo di analisi dei quattro livelli interconnessi, di progettualità/praxis che costituiscono la globalità della politica internazionale della Cina contemporanea.

La prima “sfera” ha per suoi oggetti principali da un lato la difesa dell’integrità territoriale e sovranità cinese, e dall’altro la ricerca della pace (e della pacifica risoluzione delle tensioni tra nazioni) sia nel continente asiatico che nell’intero pianeta: due elementi basilari ed apparentemente quasi scontati, che tuttavia assumono una visione assai meno banale alla luce dell’esperienza storica vissuta dalla Cina tra il 1840 ed il 2011, come correttamente è stato sottolineato dal “Libro Bianco” sullo sviluppo della Cina, pubblicato dalle autorità cinesi nel settembre del 2011, in un passo in cui si notava che “il popolo cinese ama la pace” anche per “le tremende sofferenze subite da guerra e povertà nei tempi moderni”.16

CONTINUA…

NOTE

1 M. Weisbrot, “2016: when china overtakes the US”, the Guardian, 27 aprile 2011

2 D. Losurdo, “ Un istruttivo viaggio in Cina”, 28 luglio 2010, in www.lernesto.it

3 Tang Xiangyang, “State monopolies dominate China’s Top 500”, in Economic Observer News, 9 settembre 2009, www. eco.com.cn

4 Dick Morris, “Socialism doesn’t work-not even in China”, 27 luglio 2009, in www.dickmorris.com

5 R. Sidoli, M. Leoni, “Il ruggito del dragone”, pp. 21-23, ed. Aurora, in www.robertosidoli.net

6 Le Monde, 13 novembre 2002 “Dossier Cina”; F. Sisci, "Made in China", pp. 113-114, ed. Carrocci

7 F. Sisci, op. cit., p. 113

8 www.resistenze.org/sito/de/po/ci/poci8

9 L. Vinci, rivista L’Ernesto, ottobre 2002

10 R. Sidoli, M. Leoni, op. cit., pp. 30-33

11 12° Piano quinquennale: il PIL della Cina deve aumentare assieme ai redditi”, in italian.cri.cn., 8/4/2011

12 R. Sidoli, M. Leoni, “Il piano quinquennale cinese”, rivista Marx XXI, luglio 2011, in www.lacinarossa.net, luglio 2011

13 G. Gattei, “L’imperialismo di oggi: China export”, in Contropiano n.4 del 2008, p. 2

14 “Foreign Investment in China, in www.uschina.org.2007”, febbraio 2007

15 R. Sidoli, M. Leoni, op. cit., pp. 98-99

16 “China will never seek egemony: white paper”, 6/9/2011, in english.cntv.cn



Giovedě 19 Luglio,2012 Ore: 13:16
 
 
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