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www.ildialogo.org Una presenza forte, ricca e dialogante,di Fabio Levi

Una presenza forte, ricca e dialogante

di Fabio Levi

Articolo tratto dal sito: hakeillah.com I fili di Primo
Primo Levi è una presenza forte, ricca e dialogante nel panorama della cultura contemporanea. Questo vale in primo luogo per l’Italia, dove la sua figura è oramai riconosciuta come un punto di riferimento ineludibile, ma anche in molte parti del mondo: sinora sono infatti 41 le lingue in cui i suoi scritti sono stati tradotti ed è prossima la pubblicazione, da parte dell’editore Norton di New York, dell’opera completa in inglese: allo stesso tempo un importante riconoscimento e un impulso ulteriore alla sua diffusione oltre i confini del paese.
In Italia e all’estero il nome di Primo Levi è legato in primo luogo alla sua testimonianza sulla Shoah e alla sua straordinaria capacità di sollecitare nei lettori uno sforzo di riflessione e di “meditazione” su quell’evento, assunto come luogo della storia decisivo per approfondire la conoscenza dell’uomo.
  
Lo sappiamo: per Levi scrittore e testimone il riferimento alla propria esperienza è solo il mezzo obbligato per indagare il mondo capovolto di Auschwitz e i suoi atroci meccanismi; il “pacato”, e per questo tanto più convincente, procedere del suo discorso non cancella i moti profondi dell’invettiva e dello scandalo e anzi ne trae vigore narrativo e spessore di pensiero; il talento letterario, arricchito di preziosi richiami agli autori più amati, riesce a dar voce persino ai silenzi più cupi. Viene a stabilirsi in tal modo un solido patto con il lettore, incoraggiato ad avventurarsi con fiducia su strade anche molto impervie, come quelle tracciate, attraverso e oltre Se questo è un uomo, nelle pagine de I sommersi e i salvati.
Noi tutti ci sentiamo stretti da quel patto. Ma - sappiamo anche questo - non è stato sempre così. L’incontro di Primo Levi con il suo pubblico ha dovuto fare fronte, e non solo all’inizio, a non pochi ostacoli. In Italia dove l’edizione Einaudi di Se questo è un uomo è arrivata con 11 anni di ritardo, e altrove. In situazioni anche molto lontane fra loro non sono mancate quelle che potremmo definire “partenze difficili”: cioè prime edizioni di Se questo è un uomo o de La tregua - raramente di altre opere - stampate magari in poche copie e seguite solo dopo molto tempo da nuove uscite destinate ad un pubblico più vasto. La vicenda di quegli avvii contrastati mostra con tanta maggiore evidenza la forza frenante dei fattori intervenuti a rallentare la diffusione e la conoscenza degli scritti di Primo Levi, ma fa risaltare nello stesso tempo l’importanza di quei primi tentativi, sostenuti dall’incoercibile determinazione dell’autore - non priva di modesta ritrosia - e dall’impegno non meno convinto profuso da pochi altri, dotati di coraggiosa lungimiranza. Per non dire delle difficoltà incontrate in Germania su cui varrebbe la pena avviare al più presto uno studio specifico, nella generalità degli stati dell’Est europeo, in Giappone, in Israele o anche in un paese vicino come la Francia, dove le prime pessime traduzioni non hanno certo favorito la lettura, erano varie e consistenti le ragioni che bloccavano i discorsi sulla Shoah o non attribuivano grande risonanza a un testimone sconosciuto e per di più italiano. Rilievo non minore ha avuto l’esitazione, manifestatasi a lungo da noi e altrove, a riconoscere le qualità letterarie dell’opera di Primo Levi: frutto certo di diffidenze e gelosie maturate nell’ambiente letterario, essa è stata uno dei modi che sono valsi a ridimensionare la valenza universale del racconto di Auschwitz offerto dallo scrittore torinese.
A fronte di quegli ostacoli poteva qualche cosa solo l’impegno determinato, irrevocabile, in prima persona, del testimone: quello che Levi definiva, oltre alla chimica e alla scrittura, il suo terzo mestiere. E insieme una vocazione educativa chiaramente caratterizzata: dalla pronta disponibilità ad accettare gli inviti a parlare soprattutto nelle scuole, dalla precisione e dalla chiarezza del raccontare, dalla riflessiva pacatezza con cui contrastare nei più giovani gli schematismi, le contrapposizioni manichee e le scorciatoie dettate dal sovraccarico emotivo; e infine dalla qualità sua più convincente: la naturale consonanza fra modo di scrivere, di parlare e di essere nella relazione con gli altri.
Malgrado quella fatica spossante, pure rivelatasi nell’immediato un dono prezioso per i ragazzi di allora che oggi ricordano con emozione quegli incontri, un più ampio riconoscimento ha tuttavia tardato a venire. La vera svolta si è prodotta soltanto con gli anni ‘80, per più di una ragione. In primo luogo, la pubblicazione nel 1984 de Il sistema periodico negli Stati Uniti, seguita da un improvviso e insperato successo, ha offerto a Primo Levi e alla sua opera una legittimità diversa. La piena consacrazione come scrittore ha contribuito non poco a dare maggiore autorevolezza alla sua opera di testimonianza, aprendo anche all’ascolto delle originali riflessioni sullo sterminio destinate a venire poco dopo con I sommersi e i salvati.
  Di quello stesso periodo sono state, prima, le polemiche scoppiate intorno all’aperto dissenso manifestato dallo scrittore torinese contro l’invasione del Libano decisa dal governo israeliano di allora; poi le ripetute prese di posizione contro il negazionismo. Quelle critiche e quelle denunce hanno fatto risaltare una dimensione sino ad allora meno evidente della personalità di Levi: il suo essere un uomo del presente, attivo anche sulla scena politica e nel dibattito interno al mondo ebraico internazionale. Un peso non indifferente ha poi avuto nel far conoscere la figura e l’opera la profonda impressione suscitata dalla sua scomparsa improvvisa e prematura nel 1987. Essa ha contribuito a suscitare grande interesse in particolare sugli aspetti più tragici della sua esperienza e del suo impegno di testimone, al prezzo troppo spesso di discutibili semplificazioni e forzature.
Tutto questo in un quadro di profondi cambiamenti. Proprio nel corso degli anni ’80 è maturata a livello internazionale una nuova sensibilità ai temi della Shoah: a seguito delle discussioni avviate in Germania intorno al passato nazista; per le forti preoccupazioni suscitate da atti clamorosi di rinnovato antisemitismo; per la crisi verticale del mondo comunista destinata ad incidere profondamente sull’identità dell’Europa e sul suo rapporto con il proprio passato. Paradossalmente quell’accresciuta sensibilità pareva contraddire la sfiducia sempre più forte di Primo Levi - lui che prima e più di tanti altri si era speso a testimoniare in prima persona - nella propria capacità di comunicare con le nuove generazioni.
La crescita di interesse per Primo Levi e l’avvio di un lavoro critico più maturo sulla sua opera manifestatisi dunque a partire dagli anni ’80 hanno poi trovato conferma in Italia e all’estero nel ventennio successivo, grazie al pieno consolidarsi delle condizioni favorevoli cui si è appena accennato e all’uscita postuma di altri scritti e, nel ’97, dell’opera completa a cura di Marco Belpoliti. Si è trattato, a parte l’incoraggiamento dato in Italia dalla scuola alla lettura di Se questo è un uomo e de La tregua, di uno sviluppo per larga parte spontaneo e segnato da due tratti principali. Da un lato ha preso forte rilievo, fino al limite dello stereotipo, una visione unilaterale di Primo Levi quasi solo deportato e testimone, tale da indurre alla sottovalutazione delle opere narrative e saggistiche non immediatamente riconducibili all’esperienza della Shoah. Viceversa è risultato sempre più evidente quanto l’opera, tutta l’opera dello scrittore torinese fosse per sua propria natura refrattaria alle semplificazioni e alle interpretazioni riduttive, e rivelasse ogni volta nuovi risvolti e nuove ricchezze. Di qui una presenza sempre più significativa nel panorama letterario e nel dibattito pubblico destinata a procedere in profondità oltre che in estensione. Fino a emergere improvvisamente allo sguardo di una platea innumerevole in forme impensate e amplificate oltre misura dai media come il “se non ora quando” gridato nelle piazze di Roma e Damasco, o l’espressione “zona grigia” applicata, spesso acriticamente, ai contesti più disparati.
Scoprire quella presenza al di là dei suoi aspetti più eclatanti è uno dei compiti che spettano oggi agli studiosi o a un’istituzione come il Centro Internazionale di Studi Primo Levi attivo oramai da qualche anno. Esso infatti si propone di far emergere le domande che da punti di vista molto vari e non sempre prevedibili vengono rivolte a un’opera come quella dello scrittore torinese, a sua volta impossibile da classificare. Senza peraltro dimenticare un compito ulteriore, altrettanto essenziale: aiutare cioè i suoi lettori a non perdere mai di vista l’uomo al centro di tanti interessi e di tante differenze. E questo non solo richiamando ogni volta la complessità del suo pensiero e della sua opera: ad esempio associando al testimone lo scrittore, il chimico, il linguista, l’ebreo, l’intellettuale, l’appassionato di rebus o di disegni al computer. Ma provando ad assumere il suo punto di vista, entrando dentro il suo laboratorio, per scoprire i legami veri che costituiscono il tessuto connettivo fra quei tanti terreni di lavoro e di espressione.
Fabio Levi
Direttore del Centro Internazionale di studi Primo Levi


Sabato 19 Maggio,2012 Ore: 15:28
 
 
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