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www.ildialogo.org LEGGERE IL PRESENTE,di Rosangela Pesenti

LEGGERE IL PRESENTE

Intervento all’Anteprima Congresso Udi


di Rosangela Pesenti

Roma, 30 gennaio 2016
Conosco molte delle donne presenti e so che abbiamo tutte le stesse urgenze, quelle che ci hanno raccontato qui le donne che mi hanno preceduta.
Le urgenze con cui ci alziamo ogni mattina.
Per questo sento la necessità di dire, prima di tutto, che se abbiamo pensato a un’Anteprima del Congresso è perché sentiamo l’urgenza di costruire un’agenda politica che parta dalla soggettività delle donne.
Voglio affrontare alcune questioni nello stesso modo con cui ne parlo alle persone che incontro casualmente, come la taxista che mi ha portata qui ieri, perché penso che abbiamo bisogno di parole chiare e precise ma soprattutto divulgative, capaci di arrivare a tutte perché ritengo ci sia un latinorum[1] costruito giorno per giorno sulle e dentro le nostre teste che ci rende impossibile spesso perfino il nostro riconoscerci a noi stesse.
Non riusciamo più a leggere la realtà perché ci sembra troppo complicata, ci sembra di dover studiare chissà che cosa per poter capire i processi nei quali siamo immerse.
Faccio un esempio per tutti, quello che riguarda la sconfitta politica che tutte abbiamo subito, anche noi “anziane”, dalla conferma della Legge 40.
Ricordo che molte donne non andarono a votare dicendo che si trattava di materia troppo complicata. “Non ho studiato abbastanza, non sono esperta, non ne capisco” dicevano, eppure si trattava di questione che attraversa i nostri corpi e sui nostri corpi, di ognuna e di tutte, non possiamo permetterci di non capire.
Ripropongo alcune questioni di cui parlo da molti anni e mi scuso per la ripetitività.
Vorrei che prima di tutto provassimo a capovolgere i criteri politici con cui ci è stata raccontata la storia, compresa la nostra, di donne.
La forma dello Stato che noi conosciamo e che comincia a nascere in Europa nel 1600, insieme al capitalismo, è strutturalmente una forma di Stato sessista e il sessismo è la matrice, anche mentale, dentro la quale può nascere qualsiasi assoggettamento, discriminazione, razzismo, xenofobia e altro simile.
Non si tratta di una questione da poco perché da Hobbes a Locke e avanti, fino alla dichiarazione dei diritti dell’uomo emanata dalle N.U. nel 1948 e alla stessa Costituzione italiana, considerata una delle migliori sul versante democratico, resta al fondo l’idea che lo Stato è una forma del dominio maschile sul territorio e sulle donne.
Non è questo il contesto in cui portare un’analisi approfondita ma potete leggere i testi.
Ad esempio nella nostra Costituzione abbiamo l’art. 3 scritto dalle madri costituenti e in particolare ricordiamo Lina Merlin e Teresa Mattei.
In questo articolo anche le donne sono cittadine che hanno diritto a un lavoro, un reddito e a partecipare “all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, ma nel Titolo III Rapporti economici, l’art. 37 sancisce che per le donne “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione”.
Essenziale riconduce a essenza, quindi a una forma dell’esistenza femminile che subito dopo si traduce in madre e il termine protezione mette sullo stesso piano madri e figli, non li rende soggetti di diritti ma oggetti di tutela.
Non a caso nello stesso articolo si parla della tutela del lavoro minorile.
Come agli albori della forma-Stato, nata dentro il capitalismo, donne e figli sono tecnicamente “minori” affidati alla tutela del “buon padre di famiglia”.
Cos’è questa funzione familiare che va salvaguardata?
Sono convinta che uno dei motivi della ricorrente rinascita di razzismo e xenofobia accompagnati da revival fascisti e nazisti in Europa, come ci è stato precedentemente raccontato, ha alla base il sessismo.
Cosa significa infatti, anche dal punto di vista giuridico, non considerare metà della popolazione umana e includerla a poco a poco tra i soggetti di diritto, un pezzo alla volta e solo attraverso richieste e lotte attraverso le quali questa soggettività ha preteso visibilità e vivibilità per la propria esistenza?
Aggiungo un’altra questione: il patriarcato è una forma mentale che si è espressa in dominio politico del territorio sopravvivendo, nel bacino del Mediterraneo e in Europa, al mutamento e crisi finale di ben due grandi sistemi economico-politici, entrando a strutturare il terzo.
Il patriarcato è sopravvissuto alla crisi dell’Impero romano quando sul nostro territorio sono crollate le istituzioni politiche  e l’economia è stata azzerata al punto da tornare a forme di sussistenza perfino precedenti l’invenzione dell’agricoltura.
Le sue strutture mentali, così come parte di quelle giuridiche riguardanti proprio le relazioni tra i sessi, sono passate, opportunamente trasformate e attraverso la mediazione della religione cristiana, alla sistema feudale.
Sistema che a sua volta è finito, anche se alcune sue caratteristiche stanno tornando, come il corporativismo, che è una forma di assoggettamento di lavoratori e lavoratrici agli interessi padronali, già ripescata a suo tempo dal fascismo.
Ci servirebbe ricordare che le forme del dominio non sono mai cancellate del tutto, soprattutto nelle menti e negli scritti dei dominanti, finché restano le basi materiali e l’immaginario che le sostiene e che si costituisce e ricostituisce nelle menti, e quindi nelle vite, anche attraverso la trasmissione della cultura, attivata da agenzie istituzionali da cui le donne sono bandite o in cui la presenza femminile è irrilevante se non nel servizio subalterno.
Possiamo pensare a chiesa, scuola, università.
Il patriarcato comunque è sopravvissuto alla fine del sistema feudale entrando, di poco trasformato, nelle forme del sistema capitalista e potrebbe sopravvivere alla sua fine, alla sua crisi, che va di pari passo, non casualmente, con la globalizzazione.
Intendo per crisi del capitalismo non solo una tipologia di evento-processo ricorrente e continuamente spostata, più che risolta, attraverso lo strumento della guerra, ma anche il fallimento del modello e della sua pretesa di migliorare la vita dell’intera popolazione attraverso le forme della sottomissione del lavoro umano alla logica del profitto e del mercato e riducendo l’intero territorio del pianeta, con tutte le specie viventi, a risorsa di cui appropriarsi attraverso le forme giuridiche che proteggono la proprietà privata.
Fallimento che genera la guerra, come già vide lucidamente Rosa Luxemburg, che preconizzò la barbarie senza il superamento della crisi attraverso una forma che definì socialismo e non ebbe il tempo di approfondire perché fu brutalmente assassinata da una socialdemocrazia che si preparava ad aprire le porte al nazismo.
Come sopravvive il patriarcato?
Ovviamente con la forza economica, l’invenzione politica, la manipolazione culturale e sociale dei dominanti, ma anche con il consenso dei dominati, estorto proprio attraverso le grandi istituzioni che garantiscono la sopravvivenza dei legami e delle relazioni: la lingua e la famiglia, prime tra tutte, dentro cui si nasce e si cresce.
La questione che mi interessa più di tutte però è il fatto che sopravvive anche attraverso molte donne (la maggioranza?), variamente conquistate a valori e pratiche patriarcali.
Lo svelamento e rifiuto della cultura patriarcale è la straordinaria avventura politica di più generazioni di donne che noi cominciamo a conoscere perché la viviamo.
La sopravvivenza del patriarcato è garantita anche attraverso la cooptazione di quote di donne a proprio sostegno, donne che operano una precisa scelta politica che riguarda la loro collocazione nel mondo.
Non si tratta di donne che non capiscono. Si tratta della condivisione dell’immaginario fondato sulla gerarchia sociale, quell’immaginario che permea le istituzioni più importanti così come le forme del tempo quotidiano, l’organizzazione della vita, la fruizione delle risorse e soprattutto si tratta della gerarchia che sostiene e detiene la facoltà di attribuzione del valore a tutte le esistenze.
La gerarchia sociale costruita variamente nelle diverse società, non può prescindere dalla prima e più importante divisione di classe, quella tra donne  e uomini.
Perfino l’emancipazione, cioè la richiesta di pari diritti per le donne, è stata ottenuta, in Occidente, sul piano giuridico e per estensione dei diritti maschili, non per mutamento del soggetto fondante leggi e costituzioni, e non si è tradotta in giustizia sociale per tutte le donne.
L’accesso alle cosiddette professioni da parte nostra viene pagato dallo spostamento dei lavori della riproduzione umana e domestica su altre donne che hanno meno potere contrattuale sul mercato del lavoro, che oggi più che mai svela la sua tendenza a diventare ancora mercato di carne umana.
Per fare un esempio riconosco alle nostre Ministre una soggettività politica capace di operare scelte, tra le quali, ad esempio, voler essere definite al maschile o di spostare ingenti risorse per la sistemazione dei bunker che possono ospitare bombe atomiche sul territorio italiano.
So riconoscere però che le loro scelte sono negative per la vita di milioni di donne, tra le quali ci siamo anche noi che vogliamo non solo ricordare ma anche assumere una consapevole eredità politica da quelle donne che hanno scelto di lottare per tutte e grazie alle quali godiamo perfino del diritto di negarle.
Quando sento le notizie riguardanti l’aumento degli armamenti e i piani di dislocazione dell’esercito io ritrovo l’urgenza delle donne dell’UDI del 1948 che raccolsero tre milioni di firme contro la proliferazione delle armi nucleari e le portarono alle N.U. Oggi sapremmo fare altrettanto per scongiurare guerre già in atto? Per aprire frontiere e case a chi muore sui nostri confini?
Non dobbiamo sempre inventare, possiamo anche camminare sulle tracce che altre hanno lasciato per noi, riutilizzare le loro parole, aggiornandole con la nostra sensibilità, il nostro sapere, la consapevolezza di ciò che possiamo fare ma senza dimenticare che siamo ancora dentro la stessa storia.
Chi pensava che fascismo e nazismo non sarebbero rinati in Europa oggi vede crollare i principi delle socialdemocrazie uno dopo l’altro.
Il capitalismo in crisi ripropone, di poco aggiornate, scelte e procedure di cui abbiamo già conosciuto la potenza di devastazione.
Già Rosa Luxemburg aveva denunciato la connessione tra crisi del capitalismo e militarismo, osservando come la pace europea fino allo scoppio della prima guerra mondiale fosse stata soltanto l’esito dell’esportazione della guerra imperialista in altri continenti.
Oggi il capitalismo, dopo aver conquistato tutta la terra con i processi di globalizzazione che ben conosciamo, sta conquistando le nostre menti e i nostri corpi.
Nella zona in cui vivo, un angolo di pianura lombarda dove il territorio ha conosciuto la diffusa industrializzazione e la trasformazione industriale dell’agricoltura fino all’attuale cementificazione speculativa, ho assistito all’espropriazione della sovranità popolare sul territorio, quella sancita dalla Costituzione, attraverso la conquista dell’immaginario individuale che non riesce più né a leggere la realtà, né ad agire per la propria vita.
Hanno cementificato la maggior parte della pianura più grande e fertile d’Europa ma la gente con cui condivido la vita quotidiana è convinta che non si può fare niente, che il nostro problema sono cinquanta migranti ospitati dal Comune.
Vivo in un paese di millecinquecento abitanti accanto a una discarica di rifiuti tossici alla quale ora si aggiungerà, con il beneplacito della Provincia, una discarica di amianto, con l’impatto che potete capire anche solo immaginando il minimo di venti camion al giorno sull’unica strada che attraversa il paese.
A me basta guardare la carta geografica per capire le logiche di una politica territoriale che può trattarci come area di una nuova colonizzazione proprio perché la distribuzione della popolazione in piccoli agglomerati favorisce da sempre un localismo che ci rende sudditi.
Noi non riusciamo a mobilitare migliaia di persone perché le logiche pervasive del capitale hanno colonizzato le nostre menti così come hanno strutturato il territorio.
In che modo avviene la colonizzazione di menti e territori?
Attraverso la passivizzazione prima di tutto delle donne. Le donne sono l’asse del cambiamento o della conservazione. Sono ancora convinta che noi siamo l’imprevisto della storia.
Michel De Certeau[2] scriveva anni fa, in un suo libro poco conosciuto, di soggettività che resistono agli ordinamenti del soggetto moderno e rappresentano risorse storicamente marginalizzate che tuttavia precedono il cambiamento e ne accompagnano lo sviluppo.
Non posso controllare ciò che mi sovrasta, che è più grande di me, e allora agisco nel piccolo spazio intorno a me. Le piccole esperienze di economia solidale di cui parlava Valentina Sonzini ne sono un esempio.
De Certeau considerava queste soggettività simili ai cacciatori di frodo.
Penso che la similitudine fosse poco pertinente, il vero soggetto imprevisto sono le donne.
Il conflitto tra apparati cognitivi ed esperienza vissuta è quello che vive ogni donna e quando molte donne lo rendono visibile il cambiamento è inevitabile.
Le donne sfuggono da sempre all’intero controllo perché nell’emarginazione dai luoghi di potere può nascere il riconoscimento del proprio potere che consente di agire comunque nel piccolo spazio del proprio vissuto. Un agire individuale che moltiplicato in ogni vita di donna ha determinato la rivoluzione più importante e non cruenta del Novecento.
Il soggetto imprevisto sono le donne perché a fronte dell’economia, che viene raccontata come nuovo latinorum, tra misteriosi salvataggi di banche e indici di borsa, c’è l’economia della riproduzione che continua a funzionare, giorno dopo giorno, non necessariamente attraverso lo scambio monetario e perfino in assenza di valorizzazione e considerazione. Si tratta dell’economia che tiene in piedi il mondo.
Ma questa economia, nel sistema capitalistico, è stata riassoggettata. Il lavoro della riproduzione biologica: allevare bambine/i, prenderci cura di noi stesse/i, la preparazione del cibo, tutto il lavoro domestico, la manutenzione del territorio, è indispensabile alla vita.
L’invenzione dello Stato sociale ha consentito lo spostamento sul mercato del lavoro di quote del lavoro della riproduzione, definita appunto sociale, cioè scuola, sanità, pubblica amministrazione, servizi alle persone, ma con un processo di valorizzazione diverso da quello relativo al lavoro per la produzione di merci, perché il lavoro della riproduzione non produce profitto, semmai produce benessere.
Perfino i lavori di servizio alle merci sono stati considerati più importanti (e quindi meglio remunerati) rispetto ai servizi alle persone.
Un notaio che si occupa prevalentemente di passaggi di proprietà materiali ha un reddito che non si può nemmeno paragonare a quello di un educatore - il più delle volte un’educatrice - che si occupa di disabili gravi e delle loro famiglie.
Noi viviamo un momento di ri-assoggettamento alle finalità del grande capitale di tutti i lavori della riproduzione sociale attraverso quella che definiamo ‘fine del welfare’.
Non è un caso che vengano ri-asservite la scuola, la sanità, la pubblica amministrazione, i servizi attraverso processi di gerarchizzazione del personale e di accesso selettivo degli utenti in nome di una privatizzazione venduta come razionalizzazione.
Penso che noi dovremmo mettere nella nostra agenda politica l’economia, affermando che la produzione deve essere al servizio della riproduzione della vita e non viceversa.
Per dirla con una battuta del mio spettacolo su questi temi, “Questa casa non è un’azienda”, “una lavatrice ti dura anni ma i panni vanno lavati continuamente quindi è la lavatrice che dev’essere al servizio dei panni, non viceversa. Mentre oggi le lavatrici vengano fatte in modo che si debbano cambiare spesso perché altrimenti l’industria fallisce e ce lo raccontano nonostante il sistema abbia già oltrepassato i limiti del pianeta, come ben sappiamo.
La questione per tutta l’umanità oggi, chiama in causa direttamente la soggettività politica delle donne perché riguarda il rapporto tra lavoro e valore.
Perfino la questione della cosiddetta maternità surrogata, sulla quale ci sono posizioni diverse, porta comunque in scena per la prima volta il fatto che il processo della gravidanza è lavoro, nel senso di attività umana, ma la caratteristica del lavoro della riproduzione è il fatto che non può passare dal mercato per il processo di valorizzazione perché nello scambio non ci può essere profitto.
Per questo gli esseri umani non possono essere oggetto di compravendita, come era invece fino a ieri con la schiavitù legale.
In questo momento il capitalismo sta mettendo al lavoro interi pezzi dell’umano attraverso forme di riconoscimento monetario che prendono il nome di rimborsi usando eufemismi per mascherare la vera natura dell’uso dei corpi.
Sono grandi temi che qui posso solo accennare e che meritano opportuno approfondimento.
La connessione tra economia, forma dello Stato e la nostra vita è il tema che abbiamo di fronte come compito per leggere il presente.
Non so se ce la faremo, ma penso che noi abbiamo il dovere, e mi rivolgo prima di tutte alla mia generazione, il dovere storico di aprire il dibattito su questi temi.
A me è servito che Franca Pieroni Bortolotti ci abbia passato la sua straordinaria intuizione sul perché il movimento pacifista non riuscì a fermare la prima guerra mondiale, guerra dentro la quale noi siamo ancora oggi.
Scrisse che si aprì un varco tra le due zone sociali rivolte alla difesa della pace, quella che faceva riferimento a Rosa Luxemburg e quella che faceva riferimento a Bertha Von Suttner. Un varco da cui passarono le forze della guerra.
Non usò a caso due nomi di donne perché erano le esponenti più avanzate del pacifismo borghese e del pacifismo socialista, il più importante movimento di lavoratori e lavoratrici.
Il rischio che le donne della borghesia si facciano cooptare a sostegno di politiche che fanno regredire i diritti delle donne, come accadde perfino con Hitler e Mussolini, esiste ancora oggi.
Noi possiamo presentare la nostra agenda politica a queste donne dicendo “Voi forse ce la farete a realizzare la vostra piccola vita con le vostre piccole carriere, ma affonderete perché questo l’abbiamo già visto nella storia”.
La cooptazione di quote di donne da parte del patriarcato è sempre aperta.
Sappiamo da tempo che il soggetto politico non è la “donna” ma il femminismo, che significa agire la soggettività politica di un genere imprevisto anche per noi, perché da quel dominio maschile che ha circa cinquemila anni non ci si libera in pochi secoli e non a caso la parola più importante del movimento delle donne del dopoguerra è stata Liberazione, e non credo sia stato un caso.
 
NOTE
[1] La lingua latina intesa non nel significato letterale ma con allusione alle sue difficoltà di comprensione. Termine usato dal personaggio Renzo Tramaglino ne I promessi sposi di Alessandro Manzoni.
[2] Cfr.: Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001/2005.
Tra uccidere e morire c'è una terza via: vivere. Christa Wolf
rosangela_pesenti@yahoo.it
www.rosangelapesenti.it



Mercoledì 17 Febbraio,2016 Ore: 21:26
 
 
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