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www.ildialogo.org A che lavoro giochiamo?,di Cettina Centonze

A che lavoro giochiamo?

di Cettina Centonze

Liberarsi dalla logica di sopraffazione


"L'uomo è pienamente tale solo quando gioca. " (Schiller)

“Laorè, laorè!"

Ripete sior Lunardo nella commedia goldoniana "I rusteghi".

Goldoni, infatti, aveva lo sguardo profetico dei veri artisti e intravedeva i rischi di una religione del lavoro, dell'idea totalizzante del lavoro, del lavoro come mezzo per reprimere altre istanze umane.

Può mai essere che quel lavoro per la cui scarsità oggi ci lagniamo, che concepiamo come una proprietà da difendere dagli intrusi-extracomunitari- e che quindi consideriamo un bene- possa nascondere aspetti negativi?

"L'ozio è il padre dei vizi" dice la voce popolare, ma in Genesi leggo "Con il sudore del tuo volto mangerai il pane"...

Dunque?

E’ vero che , come ogni vivente, l'uomo è contraddistinto dall'agire, tanto che tutte le fasi della sua vita sono contrassegnate da attività: il bambino la esprime nel gioco, definita attività autonoma poiché non ha altro scopo se non il godimento immediato.

Tale attività ludica è per il bambino una attività “seria” poiché, grazie ad essa, egli conosce se stesso, la realtà, l'altro, affinando l'affettività e la capacità di socializzare.

E’ tanto vero che dal 1924 fino ai nostri giorni, vari documenti delle agenzie preposte affermano e difendono il diritto del bambino al gioco.

Il giovane e l'adulto, invece, incanalano la loro attività nel lavoro.

Tutto perfetto e consequenziale quindi?

Tralascerò l'aspetto politico del lavoro, cioè la questione della proprietà dei mezzi di produzione, per soffermarmi sugli aspetti antropologici e psicologici.

Ho notato, talvolta, che, all'indomani di un delitto efferato, i vicini di casa del colpevole, o gli stessi famigliari, esprimevano il proprio stupore affermando a mo di garanzia: "Era un grande lavoratore!"

Credo che simili frasi denuncino, da una parte, la superficialità dei rapporti umani- persino all'interno delle famiglie- e, dall'altra, rivelino un parametro di giudizio semplicistico: chi lavora è una brava persona nella sua totalità; al contrario chi non mette il lavoro al primo posto è un individuo sospetto, socialmente pericoloso.

Questo criterio è divenuto imperante nella società capitalista fino a trasferirsi nella ideologia dei localismi che se ne servono per fomentare l'odio verso gli stranieri o i forestieri che "rubano" il lavoro o che preferiscono l'accattonaggio a un lavoro "vero".

Ed ecco un altro proverbio: “Il lavoro nobilita l’uomo!” In verità la società patriarcale, che si è espressa al suo livello più complesso nell’economia capitalista dando origine, oggi,  alla società industrializzata avanzata, ha degradato il lavoro a puro strumento di guadagno e, di conseguenza, ha corrotto l'individuo perché ne arresta lo sviluppo della creatività e dell’affettività: la maggior parte delle persone, infatti, è costretta a trascorrere la vita lavorativa senza ricevere nessuno stimolo valido, nessun incentivo  a coltivare i bisogni superiori.

La divisione del lavoro, la complessità burocratica, il gigantismo tecnologico relegano il lavoratore ad un ruolo di appendice del sistema produttivo rendendo le moderne democrazie simili a dittature che non solo trasformano il lavoro ad ingranaggio privo di senso, non solo organizzano  il residuo tempo libero secondo bisogni indotti dall'industria dello svago, ma sono giunte, ultimamente, a negare diritti e garanzie acquisite in decenni di lotte sindacali.

Quindi questo tipo di lavoro è in realtà una forma di schiavitù come si può constatare in questi giorni ai tempi bui della riforma Fornero.

Le parole della Genesi, quindi, più che come castigo suonano come un avvertimento: lo sconosciuto... Autore della Bibbia la sapeva lunga sull'umanità! Sapeva che tante altre sono le sue peculiarità quali la relazione, la reciprocità, la creatività.

Da quanto detto prima, discende inevitabilmente che un lavoro schiavizzante corrompe non soltanto il singolo, ma anche la relazione con gli altri.

Indotti alla dipendenza da "beni" e servizi, siamo stati ammaestrati a dare ad ogni cosa un "valore d'uso" che si esprime nella domanda "a che serve?" con la conseguenza di svalutare chiunque e qualunque cosa non risponda all’utile. .

Anche il linguaggio si è adeguato: studiare si è trasformato in "acquisto di un titolo di studio"; insegnare in "progettare"; la scuola in: "azienda" vessillifera della lotta allo spreco.

E se provassimo a riappropriarci del significato autentico delle parole invece di utilizzare il precipitato di insignificanza asettica della comunicazione attuale?

Potremmo, ad esempio, sostituire il verbo lavorare con l'espressione prendersi cura di.

Quanta empatia, tenerezza, disponibilità, ascolto -UMANITA'- c'è in questa espressione!

Ci riscatteremmo da quel depauperamento della nostra creatività ed originalità imposta dalla società industrializzata, ci libereremmo dalla lotta impari con il tempo per portare a termine occupazioni dequalificanti, funzioni di altre funzioni: una matassa il cui bandolo si trova rinchiuso in uno sconosciuto labirinto.

A seconda delle inclinazioni personali ci sarà chi si prenderà cura di ciò che è animato: se stessi, gli altri, la natura; e ci sarà chi si prenderà cura di ciò che è inanimato come le macchine perché facilitino la vita dell'uomo; o semplificherà la burocrazia affinché questa non divenga demenziale.

Una volta ero in un supermercato ed indicai al macellaio il taglio che volevo acquistare: egli si mise ad affettare con il coltello una bistecca per volta.

Quando gli chiesi come mai non usasse l'affettatrice elettrica, mi rispose, con la compostezza di un guru, che quel taglio si sarebbe rovinato perché l'attrito della macchina altera le molecole della carne e ,quindi, il sapore.

Non avrebbe fatto più in fretta-diabolicamente più in fretta- con l'affettatrice? Invece ha rifiutato la praticità e la rapidità della routine impersonale per scegliere una modalità in cui era artefice consapevole, regalandomi qualcosa di se stesso.

  L'umanità cerca di sciogliere il proprio enigma aggiungendo una tessera alla volta e per ogni tessera possono occorrere millenni o può occorrere un attimo.

Ad attività, relazione, reciprocità; creatività vanno aggiunte altre caratteristiche che lo sconosciuto… Autore della Bibbia attendeva si rivelassero attraverso Gesù: la gratuità e il dono. Certo, anche tra altri primati si conoscono gesti di amore disinteressato tra consanguinei, ma Cristo, che ci ha liberato da tutti i recinti, ci ha guidato oltre il recinto dei legami di sangue insegnandoci il dono offerto a tutti.

Negli ultimi anni, grazie a stomachevoli vicende di gossip e di degrado della donna e del suo corpo, abbiamo visto il risorgere del femminismo: si tratta di un altro femminismo, non quello rabbioso e provocatorio degli anni 60/70: un femminismo che non lotta contro l’uomo, ma vuole liberarlo dal paradigma violento del patriarcato.

Se le religioni ci controllano con il timore del castigo, il patriarcato ci controlla con il mito del progresso- le magnifiche sorti e progressive- un progresso equivoco che ha come figlio lo scambio di mercato.

Le sue conseguenze sono state l’isolamento dell’individuo ridotto a consumatore in quei gironi infernali che sono i centri commerciali; la competizione volta ad umiliare e schiacciare l’altro; le guerre come forma di investimento dell’industria degli armamenti anche se mascherate da ideali fasulli.

Queste sono tutte lugubri conseguenze della necrofilia del patriarcato, che ama soltanto ciò che è inanimato come  le banconote.

Proprio il femminismo maturo dei nostri giorni ha messo in luce l’esistenza dell’economia del dono accanto a quella dello scambio.

Queste due logiche coesistono: il profitto altro non è che il dono che i poveri fanno ai ricchi attraverso il surplus; il lavoro delle donne, che raggiunge il 40 per cento del PIL in USA, è il dono delle donne all’economia del mercato; i paesi colonizzati donano ai colonizzatori; dalla terra, dalla natura, dal passato ci giungono doni.

Ma l’economia di scambio non vuole riconoscere questa realtà e confina il dono nel rapporto madre/figlio.

Al di là delle rappresentazioni edulcorate e mitiche della maternità, è indubbio che la madre dona al figlio, non solo la vita, il nutrimento, la tenerezza (”incipe , parve puer, risu cognosecere matrem” ), ma soprattutto gli dona il linguaggio che è il lasciapassare per il mondo.

Proprio con l’apprendimento del linguaggio termina la dipendenza e a quel punto il bambino maschio subisce la mascolazione: egli si disidentifica dalla madre e dalla logica del dono con la sua interdipendenza, che i maschi adulti tacciano di dipendenza; sceglie la competizione vs la cooperazione, la dominazione vs la comunicazione; la freddezza vs l’emozione.

Questa agenda mascolata è stata imposta come espressione ineluttabile della cultura umana in contrapposizione alla pratica del dono giudicata meramente biologica ed oscurata perché collegata all’infanzia, alla dipendenza, alla debolezza e, quindi, disprezzata da società misogine.

Certamente si obietterà che, oramai da tempo, anche le donne detengono ruoli di potere: ad attestarlo sono le quote rosa, ma non è un’obiezione valida se queste donne fanno proprie le regole dell’economia di mercato e, quindi sono pronte ad opprimere, oppure pronte ad offrirsi come merci.

Come in tutte le cose occorre buon senso e non basta essere donne per optare per l’economia del dono.

La sociologa Genevieve Vaughan afferma: 

“Bisogna essere una donna anti-patriarcale per poter cambiare le cose. Nel subconscio tutte abbiamo la vocazione al dono, ma alcune di noi credono ancora nell’economia capitalista, nonostante tutti i giorni abbiamo le prove che questo sistema genera ingiustizie e disastri. È solo uno specchietto per le allodole: le donne attratte dal capitalismo, che ne vogliono fare parte, non sanno valutarne la portata negativa.”

Un altro ostacolo sulla strada dell’affermazione di questo nuovo paradigma consiste nel fatto che gli stessi oppressi credono ancora nel valore del dominio che percepiscono come vincente. Questo accade grazie ai modelli che hanno colonizzato il nostro immaginario.

Il neofemminismo deve agire su due fronti: diffondere l’idea che l’economia del dono non è un’economia di genere, ma è umana senza distinzione; e contemporaneamente praticarla dapprima nell’ambito privato e personale -come doppio binario rispetto all’economia di mercato- in seguito, le circostanze suggeriranno come, nei ruoli pubblici.

La finalità non è quella di sostituire il matriarcato al patriarcato restando così in una logica di sopraffazione, ma di dimostrare che questo paradigma è migliore del paradigma basato sullo scambio perché libera e potenzia.

E’ venuto il tempo dell’umanità donans: se il dono divenisse una pratica abituale e condivisa non ci sarebbe il rischio – additato da alcuni psicologi- della trappola del rispecchiamento e quindi della vanità narcisistica del donatore giacché il paradigma del dono diverrebbe la normalità.

Cettina Centonze

San Donà di Piave



Luned́ 26 Dicembre,2011 Ore: 18:14
 
 
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