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www.ildialogo.org DON LORENZO MILANI – La missione dalla parte degli ultimi,di Domenico Simeone

DON LORENZO MILANI – La missione dalla parte degli ultimi

di Domenico Simeone

Domenico Simeone – c/o Comboniani (BS) – 7 dicembre 2017
Introduzione a cura di P. Mario Menin (saveriano, direttore di Missione Oggi) - moderatore
Buonasera. Ben ritrovati, ritrovate, qui, per il secondo appuntamento dei giovedì della missione, che hanno preso il titolo generale dal Festival della Missione, che si è celebrato qui a Brescia nei giorni 12-15 di ottobre 2017: “Mission is possible”. E abbiamo inaugurato questa serie di incontri giovedì 9 novembre su questo tema, con la presenza di Madre Eliana Zanoletti (del Canossa Campus) e di don Fabio Corazzina, moderati da don Roberto Ferranti. Mi limito a ricostruire molto brevemente quanto è stato detto l’ultima volta (che è stata anche la prima) su questo tema.
I due relatori si sono impegnati a mostrare (forse più che a dimostrare) che la missione è possibile, anzi necessaria, anche qui a Brescia. Il Festival della Missione è stato un concentrato di testimonianze di Chiese oltre i confini di Brescia. Basti ricordare solo i nomi dei tre vincitori del premio Cuore Amico. Vi ricordate quella suora Giannantonia Comencini di 97 anni, 69 dei quali in Eritrea? Ci hanno raccontato la missione oltre i confini, però Madre Eliana e don Fabio ci hanno mostrato anche la possibilità e la necessità della missione qui a Brescia. Mi limito a citare i tre punti di Madre Eliana, molto semplici. La missione a Brescia: sì, perché no? Anzi … Il contesto bresciano è un contesto missionario e lo dimostrano molti esempi. Si è parlato, per esempio, della frattura della tradizione o delle tradizioni, la difficoltà della trasmissione della fede di padre in figlio, da una generazione all’altra.
Anche se non esistessero dei gruppi, delle etnie, delle popolazioni diciamo da fuori (che invece esistono sul terreno, nel contesto bresciano), ma la stessa difficoltà di mettere in comunicazione i più giovani ed i più anziani in una stessa comunità cristiana dice della necessità anche di una reinterpretazione del Vangelo e la necessità di un nuovo annuncio del Vangelo. Poi Madre Eliana ci diceva (secondo punto), se ricordo bene, chi fa questa missione? E allora ecco la necessità di valorizzare il soggetto ecclesiale dormiente fra tutti i battezzati, la cellula dormiente (tanto per mutuare un linguaggio jihadista) delle nostre comunità cristiane. Siamo tutti sacerdoti, profeti, re. Però di solito, quando parliamo del battesimo diciamo che il battesimo toglie il peccato originale, ci fa figli di Dio, ma non si risveglia la soggettività battesimale, laicale, missionaria, come si dovrebbe.
E (terzo punto) Madre Eliana ci diceva che è necessario un cambiamento, un capovolgimento, un nuovo stile ecclesiale, citando anche la necessità dello stile della fraternità: allargare la frontiera della fraternità. Perché molto volte predichiamo la fraternità, ma non riusciamo a mostrare luoghi, momenti, spazi di fraternità, dentro le nostre comunità cristiane. Predichiamo bene, forse razzoliamo un po’ male. Mentre diciamo della fraternità, non riusciamo a mostrare dei luoghi, dei templi in cui la comunità vive la fraternità: “Vieni e vedi”. Facciamo fatica ad invitare a venire a vedere la fraternità e questo per i giovani (diceva Madre Eliana) è fatale, perché si accorgono immediatamente dello scollamento tra l’ideale ed il vissuto.
E poi, don Fabio Corazzina ci ha elencato niente po’ po’ di meno che otto punti, che lui ha mutuato dalla prima omelia del vescovo Pierantonio. Io ve li cito così tanto per beneficio d’inventario, però sono tutti anche abbastanza esplosivi dal punto di vista missionario. E lui citava che il primo ambito della missione è quello della spiritualità e della preghiera. Senza una spiritualità la missione viene meno, si impoverisce, si svuota. Il secondo ambito è quello del rapporto tra l’annuncio e la memoria del bene. Io mi ricordo che lui ci diceva: perché devo pensare che l’annuncio sia una correzione del male piuttosto che una conferma del bene? Quando noi annunciamo, di solito è per rimproverare, per condannare, oppure anche per metterci in ascolto, per consolare, per benedire, quasi che il bene stesse tutto comunque dalla nostra parte.
Terzo ambito, quello della scommessa educativa. Questa sera abbiamo il relatore che su questo viene a piombo, piombissimo, Domenico Simeone, ma anche l’argomento, appunto don Milani che ha scommesso sulla educazione. Il quarto ambito è quello dei poveri, delle povertà, e ci diceva don Fabio di questa forbice che si allarga sempre di più tra ricchi e poveri. I ricchi che sono sempre di meno, ma sempre più ricchi. Ed i poveri, che sono sempre più poveri, quantitativamente ma anche qualitativamente. E questo non può non interrogare la missione, è una frontiera della missione. Quinto ambito quello dello straniero, è propria della missione l’accoglienza. Il sesto ambito è quello dell’unità come progetto e qui è importante uno dei processi dell’Evangelii Gaudium, più importante è l’unità che la mia idea, la frammentazione, l’unità innanzi tutto. Il settimo ambito è quello della famiglia, perché no? E infine l’ottavo, quello della casa comune, i beni comuni, i “commons”.
Bene, io ho finito, era solo per ricostruire la memoria, perché questo è un cammino importante. Ci siamo impegnati, a partire appunto dal Festival, Mission is possible, di declinare la missione anche qui, per un progetto missionario anche a Brescia. Introduco senz’altro Domenico Simeone, anche rimandando ad un articolo che lui ha scritto (quindi faccio anche un po’ di pubblicità a questa rivista, Missione Oggi, in casa comboniana, cosa sgradevole, sgradevolissima), comunque nel numero di luglio-agosto 2017, “Alla scuola di don Lorenzo Milani”. Domenico Simeone, docente di pedagogia generale e sociale presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, membro del comitato scientifico del centro di ateneo di studi e ricerche sulla famiglia dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. Tutto il resto è censurato, perché non ci stava. Comunque vedete i libri, però, ed il titolo che abbiamo dato a questo suo intervento: “Don Lorenzo Milani. La missione dalla parte degli ultimi”.
Possiamo anche noi imparare qualcosa dalla lezione di don Milani? È ancora profetico il suo insegnamento? Chiudo dicendo che in “Esperienze pastorali” don Milani definiva la scuola, i suoi ragazzi, i suoi alunni, come “l’ottavo sacramento”. Noi durante l’anno liturgico diciamo, manipoliamo soprattutto i primi sette sacramenti, ma c’è anche l’ottavo sacramento, che è quello dell’altro, in questo caso quello dell’altra scommessa educativa, ma su questo io lascio a Domenico Simeone il segreto di don Milani. A lui la parola, che ringrazio molto dell’aver accettato, anche se lui ci aveva messo sul chi va là, ricordando che il 7 di dicembre Mission impossibile fare un incontro su don Milani. Noi siamo qui.
Domenico Simeone (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Brescia)
Siete qui perché siete coraggiosi, non vi siete lasciati prendere dalla tentazione di questi ponti. Prima di affrontare il tema, vorrei collegarmi all’introduzione che P. Mario ha fatto, perché volevo ricordare un altro sacramento. Lo faccio perché le persone coniugate presenti qui non sono tantissime, però vorrei ricordare come anche il matrimonio sia un sacramento missionario. Questo un po’ ce lo dimentichiamo e credo che invece sia importante recuperare questa dimensione.
Anche Papa Francesco lo ricordava in un’udienza generale del 6 maggio 2015, quando diceva proprio appunto: “Il matrimonio è missione”. Lo dico proprio per allargare un po’ lo sguardo. Poi adesso, prometto, parlerò di don Milani, non di questi aspetti che pure mi stanno molto a cuore. Ma credo che sia un atteggiamento che Papa Francesco lega alla gioia del Vangelo, ad una missione che non faccia proselitismo ma che agisca per attrazione, per attrazione e non per seduzione. Anche qui ci sarebbe molto da dire su questi aspetti. Però cosa vuol dire allora la missione dalla parte degli ultimi?
Che cosa don Lorenzo Milani ci può insegnare ancora oggi, a cinquant’anni dalla sua morte? Che cosa ci può insegnare questo sacerdote, morto molto giovane, che proveniva da una famiglia ricca, colta, borghese, che aveva grandi possibilità e che fino a vent’anni probabilmente aveva immaginato un’altra vita, un’altra prospettiva, un altro destino, fino a quando un incontro poi gli cambia la vita, l’incontro con il Vangelo diventa una esperienza radicale e profonda? Come spesso capita ai neofiti, la fede del giovane Lorenzo Milani diventa una fede che arde. Per chi che come me è cresciuto in un ambiente cattolico, in un contesto tradizionale …, la fede è un dato di fatto, fa parte della vita, e quindi molto spesso è una fede un po’ tiepida (lo dico per me, non per voi certamente), però una fede che non cambia la vita, che diventa un elemento decisivo.
Per il giovane Lorenzo Milani, invece, abbracciare la fede cattolica vuol dire dare una svolta radicale alla propria esistenza, così da coglierne anche la radice, il senso profondo. Io credo che questi aspetti li dobbiamo avere presenti, per comprendere meglio le cose che vi dirò tra poco, perché questo suo venire da una famiglia borghese, da una società benestante, dall’avere tutto, è probabilmente anche parte di questa sua scelta radicale a favore dei poveri e degli ultimi. È una scelta che matura progressivamente, che si fa strada in maniera sempre più chiara dopo i primi anni di apostolato e che, a mio avviso, comprendiamo meglio a partire dall’unico vero libro che don Lorenzo Milani ha scritto, che è “Esperienze Pastorali”.
Voi sapete, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di don Milani, è uscita questa bellissima opera, in due volumi, che raccoglie un po’ tutti gli scritti di don Lorenzo, anche le lettere private, alcune bellissime, in modo particolare quelle rivolte alla mamma (che già conoscevamo, ma insomma …) e poi tutti gli scritti anche minori, gli articoli che lui aveva scritto per qualche rivista (anche delle bozze, che poi non erano mai state pubblicate). Però, l’unico vero libro che don Milani ha scritto con l’intenzionalità anche di poterlo comunicare agli altri , in modo particolare ai suoi confratelli, è “Esperienze Pastorali”.
Io partirei da qui, vi leggerei alcuni passaggi di “Esperienze Pastorali” e poi magari ritorniamo invece ad una descrizione anche della sua vita, delle scelte. Parlo così perché immagino che conosciate un po’ la vita, l’opera di don Milani e quindi sia inutile, diciamo così, ripercorrere le tappe della sua biografia, della sua storia. Le diamo un po’ per assodate. Don Milani, quando diventa sacerdote, inizia una attività pastorale abbastanza tradizionale. Si trova allora nella parrocchia di S. Donato a Calenzano, incomincia ad incontrare i giovani ed ad andare a visitare gli ammalati, a insegnare la religione cattolica nella scuola che oggi chiamiamo primaria (allora erano i sacerdoti ad insegnare la religione cattolica, probabilmente anche voi avete questo ricordo come me).
Però, il giovane don Lorenzo è un sacerdote attento, è un sacerdote curioso, è un sacerdote che osserva e ascolta la realtà. Sottolineo questo dato perché c‘è un aspetto del metodo secondo me importante anche per noi oggi, che quando parliamo di missione molto spesso pensiamo all’annuncio come prima azione, pensiamo al parlare più che non all’ascoltare, mentre invece il giovane don Lorenzo inizia ad ascoltare. È utile che sottolinei come questo metodo è anche il metodo che ha caratterizzato i due Sinodi sulla Famiglia ed anche il metodo che sembra caratterizzare la preparazione al Sinodo prossimo sui giovani. Lo dico perché credo che sia importante questo aspetto, perché dà rilevanza all’altro, alla storia dell’altro, alle sue vicende, a quello che accade. C’è un bellissimo brano di Bonhoeffer nella “Vita comune” che parla dell’ascolto e dice che quando siamo preoccupati di dire più che di ascoltare, mostriamo di non avere vera considerazione dell’altro, dimostriamo di sentirci superiori, dimostriamo di ritenere più importante quello che noi abbiamo da dire, piuttosto che quello che l’altro ci deve comunicare. Affermava Bonhoeffer:
Il primo servizio che si deve agli altri nella comunione, consiste nel prestar loro ascolto. L’amore per Dio comincia con l’ascolto della sua parola, e analogamente l’amore per il fratello comincia con l’imparare ad ascoltarlo. L’amore di Dio agisce in noi, non limitandosi a darci la sua Parola, ma prestandoci anche ascolto. Allo stesso modo l’opera di Dio si riproduce nel nostro imparare a prestare ascolto al nostro fratello.
I cristiani, soprattutto quelli impegnati nella predicazione, molto spesso pensano di dover “offrire” qualcosa agli altri con cui si incontrano, e ritengono che questo sia il loro unico compito. Dimenticano che l’ascoltare potrebbe essere un servizio più importante del parlare. Molti cercano un orecchio disposto ad ascoltarli, e non lo trovano fra i cristiani, che parlano sempre, anche quando sarebbe il caso di ascoltare. Ma chi non sa più ascoltare il fratello, prima o poi non sarà più nemmeno capace di ascoltare Dio, e anche al cospetto di Dio non farà che parlare.
Qui comincia la morte della vita spirituale, e alla fine non rimane che futile chiacchiericcio religioso, quella degnazione pretesca, che soffoca tutto il resto sotto un cumulo di parole devote. Chi non sa ascoltare a lungo e con pazienza, non sarà neppure capace di rivolgere veramente all’altro il proprio discorso, e alla fine non si accorgerà più nemmeno di lui. Chi pensa che il proprio tempo sia troppo prezioso perché sia speso nell’ascolto degli altri, non avrà mai tempo per Dio e per il fratello, ma lo riserverà solo a se stesso, per le proprie parole e i propri progetti ...
C’è anche un modo di ascoltare distrattamente, nella convinzione di sapere già ciò che l’altro vuole dire. È un modo di ascoltare impaziente, disattento, che disprezza il fratello e aspetta solo il momento di prendere la parola per liberarsi di lui. Questo non è certo il modo di adempiere al nostro incarico, e anche qui il nostro modo di riferirci al fratelli rispecchia il modo di riferirci a Dio” (Dietrich Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 2003, pp. 75-76).
Questo aspetto è importante, perché don Lorenzo Milani raccoglie le sue osservazioni, raccoglie dei dialoghi, raccoglie degli aneddoti, dei fatti, ma raccoglie anche dei dati statistici. Forse “Esperienze Pastorali” è uno dei primi testi di sociologia religiosa, dove trovate delle tabelle, dei grafici, tra l’altro costruiti in modo molto ingegnoso, proprio dal punto di vista della rappresentazione grafica. Perché? Perché il giovane don Lorenzo Milani si accorge che tutto l’annuncio del Vangelo (la predicazione, le ore di insegnamento nella scuola, …) non sortisce alcun effetto. Le persone della parrocchia di S. Donato prima e di Barbiana poi sembrano condurre una vita che è impermeabile all’annuncio del Vangelo. Io faccio un po’ anche questa considerazione. Qualche volta anch’io ho la sensazione che anche nella nostra vita, nella nostra società, l’esperienza religiosa sia un’esperienza parallela alla vita (fatta di pratiche, di rituali a volte svuotati di senso, di significato, ma che non incidono la nostra carne, che non cambiano le scelte che quotidianamente facciamo), tant’è che “Venite e vedete” diventa un po’ difficile poterlo dire oggi.
Che cosa distingue una famiglia cristiana da una famiglia che cristiana non è? Anche qui parlo per me, non voglio dirlo agli altri, lo dico pensando alla mia vita, alla mia famiglia … E allora don Lorenzo sente l’esigenza di raccogliere tutti questi elementi per mettere in guardia i suoi confratelli e dire: dobbiamo fare qualcosa, non possiamo andare avanti così. La nostra attività pastorale è inefficace e dobbiamo trovare un altro modo per ascoltare queste persone, per aiutarle a porsi delle domande, delle questioni che siano degne della vita di un uomo e per cercare con loro delle risposte.
E allora è molto interessante (e, devo dire, per certi aspetti sconvolgente), leggere più di cinquant’anni dopo (scritto nel 1954, quindi ormai sono 63 anni) la dedica che sta all’inizio di questo volume. 1954, non c’era certamente l’immigrazione che conosciamo oggi, non c’era a Prato la comunità cinese che è presente oggi, ma don Lorenzo immagina un mondo in cui la scristianizzazione dell’Occidente (in questo caso particolare della Toscana, quello che lui chiama Vicariato apostolico d’Etruria) viene rienvangelizzata dai missionari cinesi che dalla Cina vengono a portare l’annuncio del Vangelo nelle nostre terre scristianizzate. Dovete sempre tener presente che don Lorenzo, come molti toscani, ha sempre anche una vena ironica, è il suo modo di scrivere. Non va preso alla lettera, bisogna riuscire a cogliere un po’ il senso, il significato profondo di quello che vuol dire, però in questo testo dice:
Questo lavoro è dedicato ai missionari cinesi del Vicariato apostolico d’Etruria, perché contemplando i ruderi del nostro campanile e domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi, abbiano dalla nostra stessa confessione esaurienti risposte. Lui solo dunque vogliano ringraziare della nostra giusta condanna che ad essi ha dato occasione di eterna salvezza. Se dunque da questa umile opera potranno per il loro ministero trovare ammaestramento, non manchino di pregare in cinese il Cristo misericordioso, perché dei nostri errori di cui siamo stati un tempo vittime e autori, voglia misericordiosamente abbreviarci la pena” (San Donato, dicembre 1954).
E sotto c’è una citazione dalla Lettera ai Romani che dice:
I rami sono stati recisi, affinché tu fossi innestato. Nella loro incredulità sono stati recisi, tu dunque stai saldo nella fede”.
Ecco, presenta uno scenario che può sembrare apocalittico (anche se don Lorenzo non aveva nulla di apocalittico, non era tra quelli che immaginavano vicina la fine del mondo), ma con questa forte provocazione vuole sostanzialmente dire che, se non si cambia strada, se non si riscopre la radice autentica del Vangelo, questo è quello che ci aspetta, questo è il futuro. Ed è interessante anche come inverta le parti, come immagini che dalla Cina cristianizzata possano venire nuovi missionari che portino l’annuncio nelle nostre terre. E il testo presenta varie situazioni, fa un’analisi dettagliata del modo con cui i suoi parrocchiani vivono la fede ed i sacramenti, il modo con cui i sacerdoti organizzano la ricreazione, quale sia la condizione dell’istruzione civile del suo popolo, quale sia il modo di vivere la vita politica.
Nella seconda parte, più di tipo sociologico, analizza un fenomeno che è quello dell’esodo verso la città, dell’abbandono delle campagne, delle montagne. Fa uno studio interessante su come è cambiata l’urbanizzazione di quelle zone, di come le case si spostino verso valle, e alcune considerazioni interessanti sul lavoro, per concludere con una “Lettera dall’oltretomba”. Anche qui immagina di poter scrivere (diciamo così) dal futuro una lettera verso la fine del II millennio (quindi siamo noi). immaginiamo che questa lettera sia stata inviata proprio a noi:
"LETTERA DALL’ OLTRETOMBA"
Riservata e segretissima ai missionari cinesi
Cari e venerati fratelli, voi certo non vi saprete capacitare come prima dl cadere noi non abbiamo messa la scure alla radice dell'ingiustizia sociale. È stato l' amore dell’ "ordine" che ci ha accecato. Sulla soglia del disordine estremo mandiamo a voi quest'ultima nostra debole scusa supplicandovi dl credere nella nostra inverosimile buona fede (ma se non avete come noi provato a succhiare col latte errori secolari non ci potrete capire). Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito.
È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare. Vedete dunque che c'è mancata la piena avvertenza e la deliberata volontà (condizione per il peccato n.d.r.). Quando ci siamo svegliati era troppo tardi. I poveri erano già partiti senza dl noi. Invano avremmo bussato alla porta della sala del convito.
Insegnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 non parlate loro dunque del nostro martirio. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringrazino Dio. Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato. Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio. Saprà il Cristo rimediare alla nostra inettitudine. È lui che ha posto nel cuore dei poveri la sete della giustizia. Lui dunque dovranno ben ritrovare insieme con lei quando avranno distrutto i suoi templi, sbugiardati i suoi assonnati sacerdoti. A voi missionari cinesi figlioli dei martiri il nostro augurio affettuoso.
Un povero sacerdote bianco alla fine del II millennio "
Questo è l’inizio e la conclusione di questo testo, molto provocatorio. Dentro, poi, ci sono delle considerazioni invece molto interessanti. Come vi dicevo, c’è questa capacità di leggere la realtà, di commentarla. Vi leggo solo qualche piccolo passaggio. Dice don Lorenzo Milani:
Abbiamo il ragazzo in mano quando non ha problemi né seri interessi. Ci sfugge e trova in famiglia, in paese, in fabbrica la scuola dell’indifferenza religiosa proprio all’età in cui più avidamente tende l’orecchio. Venti lezioni a ragazzi più adulti anche di poco e ricchi anche di una maggiore preparazione linguistica e logica ci frutterebbero più che le settecento o mille lezioni di cui disponiamo ora”.
Qui c’è da dire che don Milani non ha una grande considerazione dell’infanzia. In qualche modo pensa che la catechesi infantile non sortisce un grande effetto. Sarebbe secondo lui meglio dedicare più risorse ed energie agli adolescenti, ai giovani in grado di porsi delle questioni più profonde dal punto di vista religioso. Poi continua:
Non diciamo questo per proporre di diminuire l’attuale sforzo per l’istruzione religiosa dei piccoli. Lo consideriamo anzi necessario e perfino efficiente e sufficiente come base alla vita religiosa infantile. Ma l’abisso d’ignoranza religiosa degli adulti del nostro popolo prova che molto catechismo che ricevono i ragazzi non lascia nessuna traccia di sé al di là dell’età infantile. Si potrebbe dunque tranquillamente impostare il testo dell’insegnamento dei bambini su concetti ben diversi dagli attuali, eliminandone tutto ciò che era previsto per un’efficacia a lunga scadenza”.
Voi sapete che allora era in vigore il Catechismo di Pio X, che chiedeva anche ai bambini di imparare a memoria le formule che prevedevano delle domande e delle risposte che erano in qualche modo un sunto della dottrina. Da questo punto di vista don Lorenzo Milani probabilmente non aveva tutti i torti, perché per i bambini quelle erano parole vuote, parole che non avevano un senso, un significato, tant’è che (come probabilmente sapete) nei primi anni di apostolato lui proverà a sperimentare una nuova formula catechistica, con delle lezioni che seguivano uno schema storico-cronologico, piuttosto che dottrinale.
E quindi partiva dalle Sacre Scritture, toccava degli episodi concreti ed a questi episodi poi collegava gli elementi dottrinali. Siamo negli anni ’50, a dirlo oggi sembra banale, scontato, ma allora non lo era per nulla. E sperimenta delle lezioni di catechismo. Ad un certo punto sospenderà questa sperimentazione perché non è soddisfatto, gli sembra che anche questo non cambi sostanzialmente l’atteggiamento nei confronti della fede dei ragazzi, dei bambini piccoli. E poi dice una cosa interessante, che in qualche modo segnerà la sua esperienza, la sua vita. Dice:
È nostra opinione che la soluzione dipenda oggi strettamente dalla soluzione di quello dell’istruzione civile. Il motivo è che dopo tutto l’istruzione religiosa che occorre per vivere da buon cristiano è in fondo poca cosa. Se la sua diffusione al nostro popolo è parsa finora una chimera non è per una sua intrinseca difficoltà, ma solo per la mancanza del mezzo indispensabile, cioè un minimo di preparazione linguistica che non c’è più. L’esperienza fatta nella scuola popolare ci dice che quando un giovane operaio, un contadino, ha raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile, non occorre fargli lezione di religione per assicurargli l’istruzione religiosa. Il problema si riduce a turbargli l’anima verso i problemi religiosi. E questo, col lungo contatto assicuratoci dalla scuola, ci è risultato estremamente facile”.
Sostanzialmente, don Lorenzo dice: qui il problema è un altro, il problema è che le persone non ci capiscono, non usano lo stesso linguaggio, non sono capaci di esprimersi, manca a loro la parola, non si pongono delle questioni che hanno a che fare con il senso della vita. Leggono la Gazzetta dello Sport, seguono il Giro d’Italia, ma non si chiedono che significato abbia la vita, che significato abbia la morte, che significato abbia l’amore, che significato abbia la sofferenza nella vita delle persone. Allora il problema è caso mai quello di dare gli strumenti perché le persone possano porsi queste questioni, possano esprimere queste domande. Tant’è che in un altro passaggio dice, immagina di essere in un istituto di sordomuti: che senso avrebbe annunciare il Vangelo se prima non insegnassi a queste persone a comunicare, a comprendere quello che dico ed a potersi esprimere? Un altro atteggiamento interessante che ci dice questo radicale capovolgimento necessario per essere missionari.
Qui apro una piccola parentesi. Per don Milani la missionarietà non è la mondialità, ma è un esercizio di prossimità. Su questi aspetti don Milani ha avuto delle discussioni anche piuttosto accese con P. Ernesto Balducci che (come sapete) con il gruppo del “Cenacolo” e con la rivista “Testimonianze” portava avanti questa idea, questa consapevolezza politica anche a livello mondiale, di necessità di occuparsi di quei poveri che sono lontani, di cui potremmo dire con Papa Francesco: “non sentiamo l’odore”. Don Milani polemizza molto contro questo amore impersonale, questo amore che non ha nome e cognome, non ha storia, non ha concretezza. E lo dice anche in un altro passaggio, parlando in maniera polemica dei gesuiti, dice che loro hanno un amore indistinto, un cuore meccanico, che probabilmente è stato costruito alla Siemens, che non è un cuore di carne. Io invece voglio amare questi ragazzi con il mio cuore di carne, io amo questi ragazzi che sono intorno a me, non amo quelli che sono da un’altra parte.
Di questo si potrebbe discutere, potremmo ragionare molto di questi aspetti, però io colgo qui un aspetto interessante. È un po’ come se don Milani ci dicesse che per amare bisogna incontrare la persona reale, incontrare la persona fatta di carne ed ossa. Se mai il problema è come farci prossimi poi agli altri. Qual è il processo di approssimazione? Tenete conto che don Lorenzo Milani questo l’aveva chiarissimo anche quando viene mandato in esilio a Barbiana, dopo la prima esperienza a San Donato. Tenete conto che un sacerdote di soli 31 anni, intelligente, brillante, capace di scrivere opere come questa, viene mandato in una parrocchia che in realtà non era una parrocchia, era una chiesa che doveva essere chiusa, perché (se qualcuno di voi è stato a Barbiana, l‘ha visto con i propri occhi) a Barbiana c’è soltanto la chiesa e la canonica, non esistono delle case, non c’è un villaggio, non c’è una frazione. E quella chiesa doveva servire i pochi parrocchiani.
In uno scritto don Lorenzo dice che 36 anime ha la sua parrocchia, a diversi chilometri di distanza l’una dall’altra, perché erano poi gli abitanti delle cascine sparse su quel crinale del monte Giovi. Quando viene mandato a Barbiana, molti dei suoi amici (anche influenti) volevano andare in Curia a protestare, a chiedere che a lui venisse riservata un’altra destinazione e lui intima ai suoi amici di non fare assolutamente nulla, ma fa molto di più a 31 anni (e allora godeva di un’ottima salute): va presso il municipio di Vicchio (che aveva anche l’amministrazione della frazione di Barbiana) ed acquista quel pezzo di terra del cimitero di Barbiana dove oggi lui è sepolto. A 31 anni probabilmente non pensava di morire così giovane, ma era il segno della testimonianza di questa appartenenza, di questa condivisione, di questo compromettersi con quei poveri, con quei ragazzi semianalfabeti che vivevano in montagna.
Su questo “stare dalla parte di” è interessante anche un commento che don Lorenzo fa a due fotografie che vengono riportate in “Esperienze Pastorali” come un documento. Sono due fotografie che rappresentano la processione (in questo caso credo che sia la processione del “Corpus Domini”, se non sbaglio) e queste fotografie rappresentano un piccolo drappello di fedeli che segue la processione ed un grande numero di fedeli che stanno ai lati della strada e guardano la processione passare. Vi leggo il commento della didascalia che mi sembra molto interessante e può essere indicativo per noi, per il nostro atteggiamento oggi:
Passa il Signore. Serenata di fiori, veli bianchi, festa di paese. Trionfo della fede?“.
Sotto la seconda fotografia:
Ma il gruppo di uomini che segue il Signore non è la parrocchia. È solo una chiesuola senza peso. La parrocchia si gode lo spettacolo e si tiene a dovuta distanza. Due preghiere. Identico è il pensiero dei due preti in processione, le 93,2% pecorelle che restano fuori, ma diverse sono le loro preghiere. Proposto (cioè il parroco): ‘Perdonali perché non sono qui con te’. Cappellano (cioè don Milani): ‘Perdonaci perché non siamo là con loro’”.
Anche questo mi sembra un atteggiamento interessante, come rendersi prossimi agli altri. Ecco, dicevo, che per don Lorenzo Milani quindi fare scuola diventa il grimaldello (dal punto di vista pastorale) per poter suscitare un interesse degno di un uomo (come lui diceva). E analizza vari comportamenti. Ad esempio, analizzando il modo con cui vengono preparati i matrimoni, dice:
Per esempio, si spendono per i lussi della camera somme maggiori di quelle che occorrerebbero per una lavatrice elettrica e per portare acqua corrente”.
Fate attenzione al commento, perché don Milani spesso è accusato di essere un po’ misogino, di non avere rispetto per le donne, … Vi leggo soltanto questo commento:
E così ci capita di entrare in certe casucce cadenti, dove c’è l’acqua in casa solo quando piove e dove si sale alla camera a quattro mani su per una scala di legno ripidissima (sono ancora 27 le case che hanno di queste scale), per poi vedere ad un tratto, come per un capriccio di fate, una camera nuziale splendente di sprechi e legni preziosi. La si vede quel giorno, poi nessuno ci metterà più piede fuorché gli sposi per quelle poche ore della notte ed il prete per l’acqua santa. E tra trent’anni nessun figliolo vorrà per sé quei mobili preziosi, perché il volger della moda li avrà magicamente trasformati in robuccia.
Pochi giorni dopo il matrimonio ci sarà un primo bucato da fare e la fata splendente di pizzi bianchi si curverà in un vestituccio stinto a stropicciar panni sudici nell’acqua: lo vedranno già stropicciato tutte le vicine più mattiniere di lei. Una lavatrice elettrica costa 120.000 lire, per le camere del nostro popolo nessuno ha speso meno di 150.000 lire. La moda è sulle 250.000 lire. Qualcuno ne ha spesi 400.000. Nessuno ha voluto le camere di 100.000, che pure esistono, nessuno ha voluto il letto dei propri genitori morti. Nessuno del popolo possiede una lavatrice elettrica. Poveri figlioli, mi verrebbe voglia di prenderli tutti a scapaccioni, oppure di disinteressarsi di loro”.
Può sembrare una cosa da poco, ma questa attenzione al lavoro femminile, all’idea che forse si potrebbe rinunciare al lusso per rendere un po’ più agevole la vita anche delle donne sembra molto interessante. Però don Lorenzio qui fa un commento che mi sembra molto bello. Dice:
Come si fa a condurre una battaglia in difesa del povero, se si passa davanti ad un corteo di dieci macchine con il povero vestito da principe e poi si sente di un banchetto con cinquanta invitati?”.
Ma poi aggiunge:
Chi non sa amare il povero, con i suoi errori, non lo ama”.
E poi dice:
Non si può proibire a quelle poverine di spendere male i soldi che hanno guadagnato, ma si può far scuola alle poverine ed ai poverini, la scuola di idee più sane, far loro capire che il vanto di un povero non è di scimmiottare per un giorno le bravate antisociali degli oppressori per poi tornare il giorno dopo nella schiera anonima degli oppressi a brontolare sterilmente contro il mondo ingiusto. Il mondo ingiusto l’hanno per raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con la mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola”.
Ecco, allora questa è la missione, il compio che il sacerdote deve assumere su di sé. È interessante, perché in quest’azione don Lorenzo Milani vede questo spendersi per i poveri come una sorta di debito che va pagato, non tanto come un dono che viene elargito ai poveri, un debito per quella ingiustizia sociale che li ha resi poveri, che li ha tenuti ai margini della società, che non ha permesso loro di studiare. Infatti, ad un certo punto di “Esperienze Pastorali” don Lorenzo, dopo aver spiegato l’importanza del fare scuola, dell’impegnarsi in questo ambito, dice:
Sono debitore, devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini a cui io ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me sono io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto ad esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere. Sono loro che mi hanno avviato a pensare le cose che sono scritte in questo libro. Sui libri delle scuole io non le avevo trovate, le ho imparate mentre le scrivevo e le ho scritte perché loro me le avevano messe nel cuore.
Son loro che han fatto di me quel prete dal quale vanno volentieri a scuola, del quale si fidano più che dei loro capi politici, per il quale fanno qualsiasi sacrificio, dal quale si confessano ad ogni peccato senza aspettare che sia festa. Io non ero così e perciò non potrò mai dimenticare quel che ho avuto da loro. Eppure con tutto questo loro mi sono grati come se li avessi generati”.
Questo mi sembra un altro aspetto importante, questo mettersi alla scuola della povertà, perché i poveri parlano da una cattedra che ha molto da dire, proprio per la condizione in cui si trovano. Abbiamo detto prima che don Lorenzo riconosce gli errori dei poveri, riconosce questo desiderio di scimmiottare i ricchi, i privilegiati, … ma il bene che vuole loro gli permette comunque di stare al loro fianco. Riconosce però anche di essere debitore ai poveri, perché son o i poveri che hanno permesso il suo cambiamento, potremmo dire (per certi aspetti) la sua conversione.
Ecco allora i poveri, entriamo un po’ nel merito del tema che mi è stato affidato stasera. Dare la parola ai poveri, questo potremmo dire, essere un po’ il compito che don Lorenzo Milani accetta di vivere con il suo ministero sacerdotale. Questo era l’obiettivo della scuola popolare prima e della scuola di Barbiana poi: dare la parola ai poveri, non parlare ai poveri o dei poveri, ma fornire loro gli strumenti necessari per far sentire la propria voce e per esprimere il proprio pensiero. “Dare la parola ai poveri” era anche il titolo del periodico mazzolariano “Adesso”, con cui don Lorenzo Milani da giovane collabora, ma mio avviso rappresenta bene anche l’obiettivo della scuola popolare di San Donato e della scuola di Barbiana.
Nel presentare la rubrica “La parola ai poveri” sul primo numero della rivista “Adesso”, 15 gennaio 1949, don Primo Mazzolari scriveva:
Parlare dei poveri, parlare ai poveri, parlare in nome dei poveri. Dare la parola ai poveri è un’altra cosa. Più facile dare loro una bandiera, una tessera, un canto, un passo, una bomba a mano, un mitra, più facile dare loro ragione”.
Ecco allora, partendo da queste considerazioni di don Mazzolari mi sembra che si capisca meglio anche l’atteggiamento di don Milani rispetto a dare la parola ai poveri. È interessante una lettera che don Lorenzo Milani scrive all’amico Gianpaolo Meucci, famoso presidente del Tribunale dei minori di Firenze. In questa lettera, in maniera anche un po’ provocatoria, don Milani propone a Meucci di istituire a Firenze una grande scuola popolare. Provocava un po’ don Lorenzo i suoi amici, soprattutto quelli un po’ più colti, intellettuali, che rischiavano di fare discussioni da salotto senza prendere iniziative. In questa lettera del 2 marzo 1955 don Lorenzo scrive (a proposito della proposta di istituire una scuola popolare):
Non come un dono da fare ai poveri, ma come debito da pagare ed un dono da ricevere. Non per insegnare, ma solo per dare i mezzi tecnici necessari (cioè la lingua) ai poveri per poter insegnare essi a voi le inesauribili ricchezze di equilibrio, di saggezza, di concretezza, di religiosità potenziale, che Dio ha nascosto nel loro cuore, quasi per compensarli della sperequazione culturale di cui sono vittime. La scuola sarà evidentemente intitolata a Socrate e non al Sacro Cuore in omaggio di questo arrendersi della cultura e del tipo di cattolicesimo imperante di fronte ai nuovi eletti”.
Questa è la lettera a Meucci. Allora possedere la parola significa avere la possibilità di esprimersi, di comunicare con gli altri, ma significa per certi aspetti anche entrare in dialogo con lo stesso Verbo, diventa condizione essenziale per penetrare il reale nel suo significato più recondito. Attraverso l’insegnamento dell’uso della parola don Lorenzo lascia intravvedere la sua concezione generale della vita, una concezione per la quale la persona avrebbe attuato se stessa quando, rotta la cappa della propria ignoranza ed accantonata la tentazione di chiudersi nelle proprie visioni parziali, avesse cercato con tenacia la verità delle cose e degli uomini, e lungi dall’utilizzare il sapere per fini egoistici, si fosse posta all’ascolto della Parola facendo proprio il principio dell’amore che dalla Parola costituiva per così dire il sigillo. Anche Papa Francesco, nella sua visita a Barbiana, ha sottolineato l’importanza di ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia. Questo diceva il Papa nella visita a Barbiana.
A proposito di questo tema della povertà, mi sembra interessante ricordare un episodio che Neerea Fallaci riporta nella biografia di don Lorenzo Milani. Lei, fra l’altro, nel sottotiolo della prima edizione (che poi diventa il titolo nella seconda edizione) dice “Vita di don Lorenzo Milani. Dalla parte degli ultimi”. Questa biografia racconta questo episodio di Lorenzo giovane, quando ancora faceva il pittore:
Durante la guerra Lorenzo, giovane pittore, si trovava a dipingere in un vicolo in prossimità di Piazza Pitti. Ad un certo punto si mise a far merenda. Quello spuntino non sfuggì allo sguardo affamato di una popolana. ‘Non si viene a mangiare il pane bianco nelle strade dei poveri’, disse la popolana”.
In questo episodio troviamo tutto il contrasto tra il bisogno del povero e l’appagamento del giovane borghese. Del pane dei poveri don Lorenzo parla nella celebre lettera a Pipetta, scritta nel 1950, una lettera che per quanto io ho potuto appurare non è mai stata inviata al destinatario, quindi probabilmente era un espediente letterario che spesso veniva usato da don Lorenzo. Scriveva delle lettere che in realtà non avevano un unico destinatario, ma in realtà erano destinate ad un pubblico più vasto. In questa lettera del 1950 a Pipetta (che era un giovane comunista) don Lorenzo dice:
Se vincevi te, credimi Pipetta, io non sarei più stato dalla tua. Ti manca il pane? Che vuoi che me ne importasse a me, quando avevo la coscienza pulita di non averne più di te. Che vuoi che me ne importasse a me, vorrei solo parlarti di quell’altro pane. Ora che il ricco ti ha vinto con il mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione. Mi tocca scendere accanto a te e combattere il ricco. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo: beati i … fame e sete”.
Ecco, mi pare che in questi passaggi si coglie come don Lorenzo Milani assuma su di sé la condizione di povertà, di miseria, del suo popolo, provi dentro di sé il contrasto, l’ingiustizia della sperequazione fra il ricco ed il povero. Lui, borghese, rinuncia alla sua condizione sociale per farsi povero e per mettersi dalla parte degli ultimi. La soluzione dei bisogni primari (la fame, la sete, la casa, il lavoro) non è per don Milani il fine ultimo, ma la precondizione per poter parlare appunto di quell’altro pane. E allora in questa precisa prospettiva, l’impegno a fianco del povero è un atto pastorale finalizzato all’annuncio della Buona Novella. Più tardi, don Lorenzo Milani mette in luce un’altra povertà, ancora più subdola e discriminante, e dice:
La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e di funzione sociale”.
Mi pare che questo passaggio sia molto importante per cogliere la scelta chiara della scuola come strumento, obiettivo di pastorale e di riscatto dei poveri. Allora il pane che bisogna dare ai poveri è la cultura che a loro manca, è la parola che può permettere loro di diventare protagonisti e di cambiare questo mondo ingiusto. Da qui l’improrogabile esigenza di far scuola prima di ogni altra cosa. Si tratta di dare la parola ai poveri perché possano intendere l’altra Parola, perché possano saziarsi dell’altro pane. Ecco allora che questa scelta dei poveri, degli ultimi, è una scelta che (abbiamo detto) nasce come un senso di riconoscenza, di restituzione a chi è stato tolto qualcosa e per don Lorenzo Milani diventa anche motivo della sua vita.
Vado verso la conclusione, provando anche a fare qualche riflessione sul diverso atteggiamento che don Lorenzo Milani ha nei primi anni di apostolato a San Donato e sull’atteggiamento che poi matura a Barbiana. Sono due condizioni un po’ diverse, anche se sempre a contatto con i poveri. Ma mentre a San Donato i suoi interlocutori sono i giovani operai che lavorano nelle industrie tessili nei dintorni di Prato, o giovani contadini, a Barbiana sono figli di montanari poco istruiti, che non hanno la capacità di esprimersi e (diciamo) è una povertà ancora più profonda, ancora più incisiva e solo la scuola potrà restituire a questi giovani, a questi bambini, a questi ragazzi, delle prospettive per il futuro.
Allora mi pare che a San Donato don Lorenzo Milani cerchi quegli strumenti pastorali che possano permettere aggancio con il mondo operaio. È un periodo questo in cui la Chiesa, in modo particolare la Chiesa fiorentina (sto parlando degli anni ’50), è attraversata da un dibattito molto significativo nel rapporto con il mondo operaio. Sono anche gli anni in cui fioriscono anche esperienze dei preti operai (nati prima in Francia e poi diffusisi anche in Italia). Don Milani riporta le riflessioni su questi temi nella famosa Lettera a don Piero, pubblicata in appendice di “Esperienze Pastorali” ed a questo proposito definisce la lettera come il:
commento di un prete che, pur avendo trovato la sua via d’uscita” (tramite la scuola popolare n.d.r.) “sul piano locale è quotidianamente ostacolato dal fatto che tutt‘intorno a lui il problema dei rapporti fra preti ed operai è ancora ben aperto e cocente”.
Ecco allora che a San Donato don Lorenzo si preoccupa di “conquistare” la fiducia di questi giovani operai, di dare loro la possibilità di porsi degli interessi (come abbiamo detto) degni di un uomo. Era convinto che solo la scuola avrebbe potuto elevare gli interessi dei giovani. La causa dell’incoerenza religiosa del suo popolo era (dal suo punto di vista) da ricercare nella mancanza di istruzione civile. La scuola è quindi al servizio dell’azione pastorale. Nel discorso di don Milani la prospettiva scolastico - educativa si saldava strettamente con quella pastorale e la scuola diventa per lui tanto più degna di interesse quando sembra creare le condizioni di ascolto del Vangelo in forma del tutto originale rispetto ai modelli di apostolato del tempo.
A Barbiana don Milani si trova di fronte ad una realtà diversa. Lui stesso scrive:
Non c’è problema di religiosità falsata né di lontani da avvicinare. I montanari sono lì, ma inaccessibili molto più di quanto lo fossero i giovani di San Donato”.
Don Milani scopre nuove dimensioni della povertà. È la povertà di chi ha subito isolamento secolare e non è capace di uscire da se stesso e di comunicare con gli altri. Questa nuova condizione socio-culturale modifica progressivamente la concezione della scuola e le sue finalità. Inizialmente don Milani ripropone a Barbiana il modello scolastico di San Donato. Organizza una scuola serale per i giovani. La scuola ha ancora alle spalle una giustificazione pastorale: bisogna dare la parola ai poveri perché possano incontrarsi con il Verbo. Ma con il passare del tempo don Milani adegua la sua pratica pastorale alle esigenze del suo nuovo popolo, sino a condividerne la condizione di povertà.
Ci sono anche delle testimonianze molto interessanti, ma forse poco conosciute, sul modo austero con cui don Lorenzo Milani viveva a Barbiana. Per chi di voi è stato a Barbiana, ha visto probabilmente anche la stanza in cui dormiva. Dormiva su una branda senza nessun mobile e si costruiva le scarpe con i copertoni dei camion (per capirci, questi erano i suoi sandali). Non aveva accettato di avere un motorino, un qualcosa che gli potesse permettere di raggiungere il paese, perché non riteneva giusto avere strumenti che i suoi ragazzi e le loro famiglie non potevano avere.
Ecco, il cambiamento che avviene lo sentiamo descritto in “Esperienze Pastorali”, quando don Lorenzo dice:
Ecco perché non faccio con convinzione altro che scuola. Fai conto che io qui mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver dato prima loro la parola? I missionari dei sordomuti non fanno così, fanno scuola della parola per anni e poi dottrina per poche ore. Ed il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale. Lo stesso avviene quassù in montagna. Con la scuola non li potrò far cristiani, ma li potrò far uomini. A uomini potrò spiegare la dottrina e su cento potranno rifiutare in cento la grazia, o aprirsi tutti e cento, oppure alcuni rifiutarsi ed altri aprirsi”.
È interessante questo passaggio, perché ci dice come l’azione pastorale appunto non è proselitismo, ma è accompagnamento delle persone sulla soglia della fede. Don Milani riprende il concetto espresso a San Donato, dove intendeva il fine ultimo della scuola legato alla evangelizzazione, ma l’elemento di novità è che la scuola qui non è uno dei tanti strumenti pastorali a cui si poteva ricorrere, ma è l’unico mezzo necessario e passaggio obbligato. Inoltre la scuola non è più finalizzata ad elevare gli interessi, a ridare significato ad un’esperienza religiosa che pareva svuotata, non è direttamente collegata ai sacramenti come lo era a San Donato. Qui la scuola dovrà dare soprattutto la parola, perché ciò che manca è addirittura (come scrive don Lorenzo Milani) la lingua degna di un uomo:
Soltanto quando il possesso della parola consentirà un vero dialogo, sarà possibile una reale evangelizzazione. Per ora l’unica cosa possibile è fare scuola. Domani, invece, quando la scuola avrà riportato alla luce quel volto umano di quella immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un retorico senso di solidarietà umana ma per una reale consonanza di interessi e di linguaggio, allora smetterò di fare scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti. Ma per ora questa attività direttamente sacerdotale mi è preclusa dall’abisso di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nel fare scuola”.
Allora in questo senso possiamo dire che la scuola popolare di San Donato aveva delle finalità che potremmo dire più direttamente religiose, anche se era una scuola aconfessionale, mentre la scuola di Barbiana non ha uno scopo religioso immediato. La vera dimensione religiosa è, per così dire, imbrigliata nei cuori di questi montanari, la loro povertà è garanzia di quella potenziale religiosità ed ha bisogno solo di strumenti adeguati per essere liberata e sviluppata. Allora la scuola risponde a queste necessità, l’azione pastorale consiste solo nel dare loro la parola, il mezzo necessario per poter esprimere questa ricchezza interiore che rimane nascosta.
Mi sembra al riguardo interessante quanto dice Luciano Pazzaglia in un bel convegno del 1984 tenuto presso l’Università Cattolica. Commentando proprio queste differenze, il Prof. Pazzaglia dice:
Se a Calenzano don Milani era ancora il ricco che impartiva l’istruzione ai poveri per recuperarli ai valori di cui la Chiesa era portatrice, a Barbiana egli diventa povero fra i poveri, per conquistare insieme con loro il senso della vera libertà. A quel punto non c’era alcun bisogno che la scuola si richiamasse direttamente a Dio, perché Dio era già presente nella vita che il priore ed i suoi ragazzi conducevano”.
Questo mi sembra un altro aspetto importante. Questo mutamento di prospettiva sembra dovuto all’incontro di due linee di tendenza fondamentali nella vita spirituale di don Lorenzo Milani: l’incontro con Dio ed il rapporto con gli altri. Solo la totale condivisione con gli ultimi, con i poveri, lo può portare a Dio. Allora, ancora richiamando il testo di Luciano Pazzaglia:
A Barbiana don Lorenzo mostrava di credere che solo la scelta degli emarginati consentiva di agire coerentemente con la proposta di Dio, poiché solo sposando la condizione dei poveri sarebbe stato possibile staccarsi dagli idoli di quaggiù e procedere sulla via della propria liberazione. Il suo nuovo orientamento era insomma frutto più di un approfondimento personale dell’ideale della carità che non su una riflessione centrata sul problema dei rapporti Chiesa mondo, ancorché le due cose non fossero del tutto disgiunte”.
A questo proposito (e vado verso la conclusione), mi sembra molto interessante una lettera straordinaria che don Lorenzo Milani scrive il 7 gennaio 1966 (quindi già molto malato), cioè poco prima della sua morte, un anno prima della sua morte, a questa studentessa, Nadia Neri, che gli chiedeva cosa dovesse fare della sua vita, come potesse spendere la sua vita. E così scrive don Lorenzo Milani:
Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio. Ti toccherà trovarlo per forza, perché non si può far scuola senza una fede sicura. È una promessa del Signore contenuta nella parabola delle pecorelle, nella meraviglia di coloro che scoprono se stessi dopo morti amici e benefattori del Signore senza averlo nemmeno conosciuto. «Quello che avete fatto a questi piccoli ecc.». È inutile che tu ti bachi il cervello alla ricerca di Dio o non Dio. Ai partiti di sinistra dagli soltanto il voto, ai poveri scuola subito prima d’esser pronta, prima d’esser matura, prima d’esser laureata, prima d’esser fidanzata o sposata, prima d’esser credente. Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene”.
Ecco, allora mi pare che la scuola è, a San Donato ed a Barbiana, centro di tutte le questioni vitali di don Lorenzo Milani e nello stesso tempo è anche il punto in cui si incontrano (pur in un equilibrio diverso a San Donato ed a Barbiana) le due dimensioni essenziali del cristianesimo: la trascendenza e l’immanenza. Allora possiamo dire che la scuola per don Milani è impegno, è assunzione di responsabilità, è adesione alla situazione dell’altro. Da questo punto di vista la scuola diventa possibilità di condivisione, di compartecipazione con la vita del povero. Don Lorenzo Milani ricorda (nella “Lettera ai giudici”):
Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista: Me ne frego”.
Ecco, assumere la responsabilità dell’altro significa confrontarsi con le situazioni che diventano domande a cui offrire delle risposte. Sentirsi responsabili e coinvolti nella situazione dell’altro rende possibili la conoscenza e l’ascolto. L’I Care implica la capacità di uscire per sé, per assumere su di sé i problemi dell’altro. Allora educare equivale a problematizzare, ad essere scomodi per trasformarsi e trasformare. Allora mi pare che il fine ultimo di ogni intervento educativo è far sì che l’altro cresca, si apra e diventi sempre più grande, più grande anche del proprio maestro.
Mi piace qui ricordare una frase che don Lorenzo Milani scrive a Michele Gesualdi (tra l’altro mi piace qui ricordare Michele Gesualdi, che sta vivendo un momento difficile della sua vita. Forse sapete, ha la SLA ed è in condizioni piuttosto serie, quindi questa frase mi piace dirla anche per ricordare lui ed il suo impegno per far conoscere don Lorenzo Milani). In questa lettera don Lorenzo scrive a Michele il 15 dicembre 1963:
La scuola deve tendere tutta in attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: Povera vecchia, non ti intendi di nulla! E la scuola risponde con la rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle”.
Ecco, per don Milani far posto all’altro attraverso la parola, l’insegnamento, prima di essere un atto di generosità, è un atto di giustizia e di alta eticità. Questo è quello che lui ha fatto, mettendosi dalla parte degli ultimi e questo è anche l’invito che ancora oggi lui rivolge a noi. Grazie.
P. Mario Menin
Mi è stato già chiesto da qualcuno se ci sarà tempo per le domande. Io passo immediatamente il microfono a chi volesse proprio intervenire. Mi permetto soltanto, come missionario quale indegnamente sono, non cinese, di fare una constatazione dalle parole che Domenico Simeone ci ha rivolto, leggendo molte parole di don Milani, perché per il missionario è importante la parola conversione. Se il missionario non si converte (lui ha usato anche altre parole, attenzione ho udito, ascolto), se il missionario non opera una conversione nell’incontro con l’altro, la sua missione sarà destinata al fallimento. Oso dire che non basta una conversione, almeno due. Sono stati detti dei vari momenti anche della vita, la conversione prima di don Milani al Cristianesimo e poi le altre conversioni, per stare in quel modo dalla parte dei poveri, anche diversi, che richiedono diverse conversioni a don Milani. Questa attenzione è una attenzione “divina” direi. Detto questo io mi ritiro e passo la parola a chi volesse proprio intervenire.
(Intervento). Grazie. Mi chiamo Carlo. Vorrei condividere alcune cose e fare qualche altra riflessione. Io sto leggendo il libro che è stato citato dal nostro dott. Simeone “Dalla parte dell’ultimo” di Neerea Fallaci. Lo trovo molto bello, freschissimo, molto toscano e molto sincero. Sono arrivato ai documenti finali, che sono tutte le lettere che ha ricevuto, mi sembra verso la fine del suo tempo. Mi è piaciuta molto la relazione. Vorrei sottolineare, oltre alla famiglia molto colta e molto ricca, che ha avuto anche dei direttori spirituali eccezionali, come don Raffaele Bensi e don Giulio Facibeni, a cui ricorreva non solo per confessarsi ma anche per eliminare i contrasti che aveva con i sacerdoti (praticamente i suoi nemici) e con altri con cui ha avuto dei problemi.
Nell’introduzione a questo libro che ho citato ci sono le parole di Davide Maria Turoldo e mi sembra sia uno di quelli che l’ha capito meglio, almeno dal punto di vista del prete, del sacerdozio. Però si è sentito capito anche dal punto di vista del laico Gaetano Arfè ed anche dei suoi amici, questi che ho citato. Secondo me è una persona molto intelligente, ha a disposizione molte chiavi di lettura per comprendere la realtà. E poi c’è stata la conversione, come diceva il nostro relatore, alla scuola diciamo dei poveri. A mio parere, però, penso che vada approfondito ancora di più l’aspetto umano, il carattere umano di don Milani, perché altrimenti alcune cose entrano nell’alone del mito.
Vorrei dire un’altra cosa che mi è piaciuta molto: l’immergersi nei poveri per convertirsi. Su quei tavoletti là c’è un librettino dedicato ad un certo Fratel Alfredo Fiorini. Mi ha colpito molto, ho appena finito di leggere la vita. Questo giovane che prende la laurea in medicina a Siena con il massimo dei voti, poi dopo una sua crisi chiede ai superiori non di esercitare il sacerdozio, ma chiede di rimanere laico. È potere immergersi nell’esperienza e dare tutto se stesso all’Africa come medico missionario. La trovo una bella dimostrazione di ciò che ha detto lui.
Alla fine del 75° corso di studi cristiani di Assisi, Raniero La Valle ha sintetizzato in tre punti (secondo me per tutta la comunità pensante cristiana) ciò che noi dovremmo fare. La prima cosa appunto (come diceva il relatore) è che noi andiamo avanti ancora all’aspetto dottrinale, però la gente il catechismo delle chiese ufficiali non è che lo butta via, ma rimane lì sullo scaffale. E così delle verità della fede come le abbiamo sempre presentate, non comunicano l’esperienza. La seconda cosa, consiglia di prendere in mano i libri della liturgia e dei salmi e fare le dovute innovazioni, come linguaggio e come contenuti, e questo mi è piaciuto molto. E terzo problema (anche qui, quando parla La Valle vola molto alto, ma tocca sempre dei problemi che sono vitali a mio modesto parere), riconoscere che tutti i migranti hanno diritto all’autodeterminazione, quindi senza tanti fronzoli.
Una proposta per i politici. Io direi, per esempio, il monitoraggio dei quartieri più poveri, dove ci sono più immigrati, dove io passo tutti i giorni (via Corsica, via Sardegna, via Sostegno). L’altra cosa, gli ultimi due vescovi sono due biblisti, gli altri non erano biblisti. Io penso che l’introduzione dei centri di ascolto della Parola che sta facendo la nostra diocesi sia una bellissima esperienza positiva che ci aiuta (secondo me) non a togliere l’aspetto dottrinale, ma a confrontarsi di più con la Parola per entrare in quel concetto di conversione che si diceva prima. Grazie.
(Intervento) Salve, io mi chiamo Maurizio e mi sono laureato nel lontano 1983 a Padova e non conoscevo don Milani. La docente di istituzioni di pedagogia alla quale andai a chiedere la tesi mi disse che se volevo mi faceva da relatrice e di farla su don Milani. Non sapevo chi fosse. Allora l’ho studiato, mi incuriosiva per il fatto che era un sacerdote. Ho cominciato a studiarlo, a leggerlo, la tesi era su scuola e società, quindi il rapporto di don Milani con scuola e società, dove entrava il discorso culturale così vasto ed anche il discorso sociale. Quello che mi ha colpito molto è il fatto che nessuno ne aveva parlato nel ciclo scolastico e mi ha colpito moltissimo la coerenza. Sono stato a Barbiana due volte, ho parlato con Francuccio Gesualdi, ho avuto tanti contatti ed una cosa che mi ha colpito molto è il messaggio anche politico, cioè la giustizia sociale che fa sì che il povero possa avere finalmente la sua dignità.
In questi giorni ho letto, mi sono reso conto dell’attualità del suo pensiero leggendo che ad esempio i poveri in Italia stanno arrivando a quasi 18 milioni, che aumenta la povertà, che la diseguaglianza aumenta, che i pochi ricchi diventano sempre più ricchi, ma soprattutto ancora la scuola non è quella che voleva lui. Un’ultima statistica (non so se ricordare ancora lui a conforto su questo) ha stabilito che ancora oggi i voti più alti li hanno i figli delle classi più acculturate, quindi dei ceti sociali più alti. Quindi c’è ancora un retaggio, a mio avviso, di considerare comunque chi viene da un ambiente povero come inferiore.
Don Milani diceva (quando faceva le statistiche, le sue esperienze pastorali che sono eccezionali, a mio avviso) che nelle classi, guarda caso, i poveri sembravano tutti in un’unica classe, i poveri quelli che venivano bocciati. Diceva che Dio non fa questi scherzi, di mettere i poveri tutti insieme nella stessa classe, quindi praticamente danneggiarli, far credere che i poveri siano inferiori e la cosa curiosa che mi aveva colpito era quando avevano bocciato un suo alunno a scuola. Lui andò dalla professoressa a lamentarsi e la professoressa gli disse: se è un tema da quattro, io gli do quattro. E don Milani rispose con una frase bellissima che vale anche per la politica:
Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”.
Questo ovviamente per far notare che una cosa è il piccolo cittadino che a casa ha la televisione e la radio ed un’altra il piccolo montanaro che non aveva questo. Un’ultima cosa. A don Milani venne contestato che un suo ragazzo non aveva saputo la religione. E don Milani rispose:
Sì, ma conosce il contratto dei metalmeccanici, è la vita di mezzo milione di persone. Lei non lo conosce? Si vergogni!”.
(Intervento Gabriele) Solo due parole. Io ti chiederei se ci puoi dire se ci sono stati contatti fra don Milani e Franzoni? So che con P. Turoldo ci sono stati contatti. Con don Mazzi ci sono stati dei contatti? Don Milani nelle sue interpretazioni ha utilizzato anche la chiave marxista per la lettura delle situazioni di sfruttamento e di dipendenza? Grazie.
Domenico Simeone
Provo a dare qualche risposta. Voglio fare una battuta a Carlo, perché sono d’accordo con la sua sottolineatura. Don Lorenzo Milani ha avuto dei padri spirituali ed anche dei formatori straordinari. Firenze all’epoca era davvero una realtà molto viva e don Raffaele Bensi è senz’altro uno di questi. Don Giulio Facibeni credo che sia avviato sulla strada della santità. Di don Raffaele Bensi mi piace ricordare una frase che ha ricordato anche Papa Francesco quando è stato a Barbiana. In realtà è una frase che don Raffaele comunica a P. Nazareno Fabretti nella sua intervista del 1971. Qui don Raffaele Bensi dice di con Milani che era “trasparente e duro come un diamante” e quindi doveva subito ferirsi e ferire.
Io credo che questa sia un’esperienza che ancora oggi possiamo cogliere, se leggiamo con attenzione le opere di don Milani. Sono delle opere che disturbano, che non sono (come dire) acquietanti, è qualcosa che è un po’ spigoloso e che non ti fa stare comodo … Io ho assistito negli ultimi tempi a delle operazioni un po’ strane, in cui ciascuno cerca in don Milani le ragioni delle proprie ragioni. Credo che invece sia molto più salutare mettersi alla scuola di don Milani e lasciarsi provocare anche da alcune sue affermazioni, che appunto sono limpide e dure come un diamante.
Seconda cosa a Maurizio. Immagino che si sia laureato con la professoressa Rosetta Finazzi Sartor, perché è anche la professoressa con cui io mi sono laureato, con una tesi su don Lorenzo Milani. Quindi abbiamo qualche cosa in comune, devo dire che anche per me è stata una esperienza interessante. Nel mio caso sono io che le ho proposto di fare un lavoro su don Milani, ma è stata anche la mia professoressa, l’ho capito dai suoi riferimenti.
Venendo invece alle ultime domande, io non so dare delle risposte certe. Io non sono a conoscenza di rapporti fra don Milani e Franzoni. Non so rispetto a don Mazzi ed alla comunità dell’Isolotto, è possibile ma non ne sono sicuro, non ho dei riferimenti. Per Franzoni direi quasi certamente di no, ma adesso non vorrei dire delle cose che non conosco. Per quanto riguarda Turoldo, invece, posso dire con certezza che si sono conosciuti, frequentati. Lo dico con certezza perché abbiamo tanti documenti, anche se non ci sono delle lettere. Io stesso sono stato da P. Turoldo, l’ho intervistato. In questo mio volume intitolato “Verso la scuola di Barbiana” riporto l’intervista a P. Davide Maria Turoldo, dove lui appunto racconta del suo incontro con don Milani, anche perché in quegli anni P. Turoldo era a Firenze, o per meglio dire era stato mandato, cacciato a Firenze perché le sue prediche nel Duomo di Milano avevano una eccessiva eco ed avevano creato un po’ di problemi.
A Firenze Turoldo, Meucci, La Pira, insomma c’era un fermento di personaggi molto interessanti, Balducci e altri. P. Turoldo ha avuto anche una parte nella ricerca insieme a La Pira, nella ricerca di qualcuno che facesse la prefazione di “Esperienze Pastorali”, perché la preoccupazione di don Milani era che“Esperienze Pastorali” uscisse con l’imprimatur, ma anche con la prefazione che lo mettesse un po’ al riparo da possibili giudizi negativi. Turoldo aveva addirittura interpellato il cardinale di Milano (che allora era un certo Gianbattista Montini) su questo e poi La Pira aveva trovato Mons. Giuseppe D’Avack (che era vescovo di Camerino) che aveva realmente fatto la prefazione a “Esperienze Pastorali”.
Con Turoldo, ad esempio, don Milani aveva discusso di alcuni altri scritti, ad esempio di “Lettera ad una professoressa”. Don Milani, come spesso faceva, faceva leggere questi scritti a degli amici e Turoldo gli aveva consigliato di togliere alcune espressioni troppo forti in quella lettera (e infatti non ci sono), perché usava degli appellativi non molto eleganti nei confronti della professoressa (per usare un eufemismo). E non è un caso, io credo, che nella prefazione al volume di Neerea Fallaci, scritta da Turoldo, si parli appunto del linguaggio di don Milani e della santità dell’uso delle parolacce in don Milani, questa idea che ha un linguaggio chiaro, schietto, senza troppi fronzoli. Questo solo per dire che tra Turoldo e Milani ci sono stati diversi contatti. Rispetto a Mazzi e Franzoni non saprei, credo di no ma non so dire con certezza.
Rispetto ad una lettura in chiave marxista, io personalmente credo proprio di no, nonostante don Milani parli in maniera molto esplicita di classismo in alcuni suoi scritti, dice che l’educazione che lui dà è una educazione rivolta ai poveri e non ai ricchi, così come alle mense in cui si distribuisce la minestra ai poveri non si accettano i ricchi. Per lui la scuola doveva ridurre il divario di differenza tra i poveri ed i ricchi. Ma credo che la “Lettera a Pipetta” sia molto chiara su questo, cioè l’appartenenza ai poveri non era uno schieramento politico, ideologico. Qualora quella parte politica fosse andata al potere, don Milani si sarebbe schierato da un’altra parte, dalla parte di quei poveri, di quelle persone che sarebbero state escluse da quella parte politica. Non mi sembra che ci sia l’assunzione di alcune categorie marxiste di lettura della realtà, forse anche per la sua formazione. Ha a volte anche delle espressioni molto taglienti nei confronti di un certo mondo comunista. Mi sembra piuttosto che si possano ricondurre ad una scelta per i poveri che si ispira più al “Magnificat” che non al “Capitale” di Marx, per dare un po’ la mia idea. Quindi c’è uno schierarsi dalla parte dei poveri, però non è il risultato dell’analisi di una lettura sociale marxista della realtà, secondo me.
(Gabriele) Quindi non si può considerare un precursore della Teologia della Liberazione?
Domenico Simeone
Non mi sembra che abbia quelle caratteristiche, proprio perché non assume questa lettura del sociale nel contesto politico.

 
P. Mario Menin
Mi sembra che siamo arrivati ad un punto in cui si potrebbero fare altre domande, ma se chiudiamo che cosa dite voi? Si potrebbe stare ancora a lungo su don Milani, però ci facciamo anche gli auguri per questo lungo ponte … In ogni modo, l’11 di gennaio (dopo il lungo ponte delle feste natalizie) riprenderemo i nostri giovedì della missione proprio con il tema “Missione al femminile” e saranno con noi delle donne, la teologa Serena Noceti di Firenze e la pastora Anne Zell della nostra comunità valdese e suor Elisa Kidanè come moderatrice: “Quale ministero per una Chiesa missionaria dal punto di vista femminile?”. Quindi moltiplicate le presenze e Buon Natale.
(trascrizione registrazioni ed integrazione appunti a cura di Gabriele Smussi)



Venerdì 22 Dicembre,2017 Ore: 19:43
 
 
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don Lorenzo Milani

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