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www.ildialogo.org I POEMETTI DI ARNALDO EDERLE,di Sebastiano Saglimbeni

I POEMETTI DI ARNALDO EDERLE

di Sebastiano Saglimbeni

In questo maggio 2018, dall’ “impura aria”, per dirla con il poeta delle Ceneri di Gramsci, Pasolini, ho letto I giganti e gli uomini, una, per nulla magra, messe di poesia dello scaligero Arnaldo Ederle. A questi, va subito scritto, va riconosciuto un suo esistere tutto trascorso in nome della “cosa scritta”, quella che predilesse per un‘intera esistenza un nostro amico lombardo, Roberto Sanesi. Così, Ederle ha potuto elevarsi con la fatica della creatività, complice quella, senza tempo, che fu orale e poi scritta. Sì, I giganti e gli uomini, titolo quarto dei ventotto poemetti che di recente, per la collana “Aretusa”, ha divulgato l’animosa editrice LietoColle. Non, in quest’altra messe di poesia, indugio a scelte di spazi poetici scarni, ma pieni che ci prendono, ci immergono nella vis del verbo, del discorso, sebbene, questo, in alcuni tratti, si legga arduo; ti inducano, comunque, a pensarli, a ripensarli e pure a credere che il poeta li abbia scritti in momenti onirici, belli, non decifrabili al risveglio.
In apertura del titolo una nota dello studioso di poetiche Michele A. Nigro interpreta il tema e il linguaggio di questi poemetti. Egli scrive, fra l’altro, che “Ederle ci stupisce con la sua scrittura e con l’alto senso morale che la pervade; integro nel suo vigore intellettuale”. E non pare che questa felice considerazione suoni come un ossequio di affetto, di amicizia, ma come convinzione certa.
Quindi, il prefatore Nigro descrive misuratamente ogni pometto con una dotazione di sintesi c di ordine. E si
dica un po’ di questa messe ederliana. Il primo poemetto “Il mio batuffolo di cioccolata”, nella sua discorsività, che si itera in tutti gli altri, si legge una menomazione corporale muliebre, menomazione che assurge a qualcosa di naturale e caro.
“Cammina quella gamba si sposta con regola
davanti all’altra ancora intatta intera,
priva dell’inerzia della cosa della sua
deprecabile morte. La bellezza non è
distrutta.
Il resto è amabile….”.
Segue il testo “Donne e uomini”. E “sono, le donne tutte donne con culi e seni/che passano per le strade e le profumano/ di carne di donne e se godono/ ad ogni passo, e fingono di sistemarsi/ la gonna invece si accarezzano il culo/ e ridono”. Un poetare vulgaris che si può credere di uno in tramonto, dal demisso pene - direbbe il favolista Fedro -, inerme, e, come tale, da giudicare un misogino. Il prefatore ha interpretato questo testo: “un poemetto tematizzato con magistrale, aurea mediocritas (in senso oraziano)”.
E scegliendo dentro la messe, la poesia di Ederle, come quella che incorpora altre figure muliebri, si affina, coglie la sublimità tra lui e lei, sublimità fugace che cede il posto ai vuoti dell’anima. Come in “Canto per Paola”, dove rivive una dolcissima compagna del poeta passata di là, da dove non si ritorna mai.
“Tutto è variopinto come nei pacifici quadri
di chi lo dipinge per rammentare la vita
per farne il duplicato che resista al volere
del tempo e agli scherzi dell’esistenza,
tutto è fabbricato amorevolmente e pietosamente
come nella fabbrica dell’operaio per
allungare, e mai mai ci si aspetta
la tragedia il gravissimo sgarro della
deprecata fine.
Il testo si chiude con una sorta di epitaffio che non può non sciogliere chi ha saputo vivere momenti dell’esistenza, accompagnata dalla donna, che non scrive poesie perché è una poesia, per il suo sorriso, per la sua parola pura e per il suo corpo che dona.
“Poi, la tua breve fulminante malattia
il tuo inconsistente adagiarti sul letto
dell’oblio e del gracile imprevisto
dimenticarti della vita e della sua bellezza:
E il giungere dell’infinito, piano piano
senza clamori né grida né angustiati sospiri.
Poi il crepuscolo la sera la notte”.
Poiché tutto dei poemetti di Ederle non può comprendere questa nota, si lascia che siano coloro dalla febbre del libro, della poesia, a scoprire e a trovare. Ma, per concludere, può valere ancora dire su un testo, sul penultimo dell’opera, vale a dire, “Quando morirò”. Può valere ancora dire, perché qui si fruisce una parte di poeticità che incorpora lo smarrimento umano, quello del poeta, e l’ignoto, quell’ignoto eterno che mai abbiamo potuto conoscere. Quel che cosa sarà di noi dopo…..
Lo smarrimento, non come liberazione, così come lo intendeva il grande Seneca. Per Ederle il sentimento della morte è orrido, non è la suavis dominina, ma la “lurida morte” che con “la sua orribile falce e non si sa chi/ risparmierà questa volta”(…) “Non c’è nulla da fare”.



Giovedì 17 Maggio,2018 Ore: 21:33
 
 
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