- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (340) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org “Metodi di analisi nelle scienze sociali e ricerca per la pace: una introduzione”,di Mauro Pellegrino

Recensione del libro di ALBERTO L’ABATE
“Metodi di analisi nelle scienze sociali e ricerca per la pace: una introduzione”

di Mauro Pellegrino

Metodi di analisi nelle scienze sociali e ricerca per la pace: una introduzione” Seconda edizione corretta e rivista da Mauro Pellegrino,
con una nuova premessa dell'autore
MultImage, Firenze – Transcend University Press, Basel
Anche Johan Galtung – sociologo norvegese e precursore riconosciuto degli studi sociali per la pace – non manca nella sua prefazione all’ultimo lavoro di Alberto L’Abate, dopo mezzo secolo di amicizia e collaborazione, di evidenziarne la feconda ambivalenza: metodologia delle scienze sociali e ricerca per la pace. Parliamo di ambivalenza perché non si tratta di due discipline semplicemente accostate o giustapposte: non siamo di fronte ad un manuale metodologico più una rassegna di ricerche sui temi della pace. No: la ricerca intorno a fenomeni politici e sociali come la pace e la guerra sgorga, in quanto tale, da precise scelte in merito alla metodologia scientifica, e ai fondamenti epistemici, con cui s’indagano le società contemporanee e i sistemi di violenza istituzionalizzata che in esse si originano.
Alberto L’Abate ha disseminato la sua lunga carriera di sociologo accademico – presso le università di Ferrara e Firenze – di monografie e di lavori sul campo dedicati ad illuminare l’attualità della violenza, ma anche le potenzialità della non-violenza, in numerosi contesti micro- e macro-sociali, dal trattamento della malattia mentale agli orrori delle recenti guerre nei Balcani. Questo suo volume non ha certo lo scopo di compendiare quegli studi puntuali, quanto piuttosto di sottoporli al vaglio di una riflessione metodologica più decisiva, alla quale possano tutt’al più servire da esempi per una valutazione critica.
Ciò che qualifica la ricerca per la pace, distinguendola dalle ricerche “sulla” pace – spesso orientate e delimitate dalle grandi istituzioni politico-diplomatiche e dai loro vincoli strategici, come L’Abate sottolinea – non è l’oggetto su cui si concentra, che siano le mobilitazioni pacifiste o il funzionamento delle diverse agenzie delle Nazioni Unite, ma il metodo attraverso cui produce una conoscenza che guidi verso l’obiettivo della pace. Da questo discende, per esempio, l’importanza attribuita alla “ricerca-intervento”, piuttosto negletta nei manuali ma imprescindibile per operare con i protagonisti coinvolti nei conflitti.
Quest’opera di L’Abate porta a compimento il suo lungo percorso di metodologo – anche se il suo autore si schermisce, definendoli «più appunti per un approfondimento» e terminando, saggiamente (dopo 414 pagine!) con una «conclusione provvisoria». A monte di tutto vi è un’appassionata critica epistemologica a quello che lui chiama «il metodo scientifico-razionale», condotta in nome di una rivalutazione del metodo induttivo di conoscenza e di un (re)inserimento della dimensione della prassi, cioè della modificazione della realtà, nel procedimento scientifico.
Si ode qui un’eco del dibattito sul ruolo della sociologia – e sull’immagine di sé del sociologo – per trasformare la società, o piuttosto semplicemente per conoscerla e descriverla, che già nel 1970 Friedrichs riassumeva con una bellissima parafrasi religiosa tra «profetico», ovverossia di agente del cambiamento, e «sacerdotale», cioè di celebrante un rito che «non si preoccupa tanto di trasformare il mondo (…) quanto di interpretarlo sulla base di codici ben specificati ed accettati (…) di solito presi in prestito dalle più consolidate scienze naturali» (cit., pag. 69).
Nei decenni che hanno fatto seguito, tutta o quasi la sociologia occidentale sembra aver abdicato al primo compito, in favore del secondo, accreditando una figura dove «il sociologo è visto come uno scienziato “libero da valori”» (ibid.). Ma qua si affaccia un secondo ed ulteriore dilemma che questa scienza – la quale vede gli essere umani sia nella posizione di osservatori che di osservati – porta con sé fin dalla sua origine. È chiaro che non si può intervenire per “migliorare” una realtà, come quella sociale, senza specificare in raffronto a cosa tale cambiamento può essere riscontrato, vale a dire emettendo un giudizio di valore.
Di nuovo Galtung, con cui L’Abate si muove in piena sintonia, mostra come la ricerca scientifica produca (o possa produrre) tre tipi di conoscenza, ognuna con un proprio linguaggio: una empirica, che mette a disposizione dei “dati”; una logico-teorica, che elabora appunto delle “teorie”; una valutativa, che si esprime in base a scelte assiologiche, cioè a “valori”: «la scienza come attività di ricerca di consonanze [tra i tre linguaggi] non finisce con un prodotto scritto (…) Si conclude solo quando è mutata la realtà e si ottiene una consonanza empirica» (cit., pag. 131).
La tradizione “assiologica”, che considera il ruolo dei valori alla base e nello svolgimento della ricerca sociale, vanta una tradizione altrettanto ricca in sociologia che quella “neutralista”, che invece li prende in esame al più per sterilizzarne gli effetti sui risultati dell’indagine. Un altro noto studioso scandinavo, G. Myrdal, metteva in guardia dal rischio, presente nell’uno come nell’altro atteggiamento, di occultare i riferimenti valutativi (ossia, per quanto detto, “valoriali”): «Le premesse di valore dovrebbero essere rese esplicite; ciò come condizione perché la ricerca possa davvero aspirare ad essere ‘oggettiva’ – nell’unico senso che questo termine può avere nelle scienze sociali» (cit., pag. 127).
È necessario soffermarsi su questo duplice passaggio – che nel libro apre la sezione più propriamente metodologica (parte III e IV) – poiché sembra fondamentale per cogliere il punto di ancoraggio a cui L’Abate lega il suo approccio epistemologico, affrontato nella prima delle due sezioni sostanziali di cui si compone il volume (parte I e II). In quella prima metà del suo lavoro l’autore, oltre ad una breve introduzione didattica su «Le ragioni della ricerca ed i processi conoscitivi», si propone in primo luogo di «superare la confusione metodologica sui concetti di paradigmi, teorie e modelli» (cit., pag. 74).
Alberto L’Abate ci offre pertanto un’ampia panoramica riassuntiva dei lavori – dal Friedrichs citato sopra a Boudon, agli italiani Ceresa-Mele-Pellegrini, da Morin a Ritzer – che si sono sforzati di classificare i diversi paradigmi consolidati nel secolo e mezzo di vita della sociologia; mentre la costruzione a livello di teorie è basata principalmente sull’opera di J. Turner (1986), che distingue una teorizzazione assiomatica, da una causale e da una classificatoria. Troviamo in quest’occasione anche un apporto originale dell’epistemologo L’Abate, che nella II^ parte del suo libro fa precedere il capitolo sulle teorie (cap. 4) a quello sui paradigmi (cap. 5), evidenziando in tal modo un ordine di priorità. Solitamente, almeno nel campo delle scienze sociali, il “paradigma” piuttosto precede e quindi include – per livello di astrazione e di generalità – la “teoria” e poi i “metodi e tecniche”, secondo una dettagliata definizione offerta per quanto attiene alla sociologia da G. Ritzer: «(…) Il paradigma è la più vasta unità di consenso all’interno di una scienza e serve a differenziare una comunità scientifica (o sotto-comunità) da un’altra. Sussume, definisce e interconnette esempi, teorie, metodi e strumenti che esistono al suo interno» (cit., pag. 68, corsivi miei).
Il nostro autore difende invece una posizione diversa, secondo la quale la teoria – o forse meglio sarebbe dire la “teoresi”, ossia il procedimento di costruzione delle teorie, sulla scorta delle quali si giunge anche a formulare le “ipotesi” – si antepone logicamente, fornendo quegli strumenti – concetti, variabili, proposizioni assertive – con cui poi i vari paradigmi si cimentano nello studio della realtà sociale. Si tratta d’altronde di uno degli ambiti di significato che lo stesso Kuhn attribuiva alla nozione di paradigma, quello più ristretto, «qualcosa che fornisce strumenti, un effettivo insieme di strumenti»; sebbene poi ne sia invalsa una definizione superiore alla teoria, «in quanto molto più ampio ed ideologicamente antecedente ad essa, è cioè un’intera “Weltanschaung” (visione del mondo)» (cit., pag. 102).
Ebbene, la proposta che L’Abate ci rivolge non è affatto di trascurare o di liquidare come “metafisico” questo livello altro, ma anzi di valorizzarlo ed assumerlo nei termini di modelli di società, distinguendolo dagli altri due livelli conoscitivi, quello delle teorie e quello dei paradigmi. E questa distinzione è foriera non solo del chiarimento metodologico invocato da L’Abate, ma anche – e diremmo, soprattutto – dell’importanza di comprendere la specificità di una “metodologia della ricerca per la pace”, la grande passione di tutta la sua vita di studioso. Mentre infatti, quando ci si muove sul piano dei paradigmi e delle teorie sociologiche è opportuno e produttivo il loro pluralismo, sul piano dei modelli di società – che sono «pre-scientifici, in quanto si ricollegano ad una concezione dell’uomo» (pag. 92) – non è più accettabile una divisione insanabile tra le due grandi e persistenti visioni che si sono confrontate in casa sociologica: quella «consensuale» e quella «conflittuale». Di fronte al problema epocale della pace e della guerra, posto a partire dal secondo conflitto mondiale e dalla potenziale distruzione del pianeta – per il quale un altro grande pensatore nordico, Günther Anders, scrisse «L’uomo è antiquato»! – il dilemma impone che i due modelli vadano assolutamente integrati: «Non possiamo continuare a considerare l’essere umano buono o cattivo, e la società consensuale o conflittuale. Secondo me è ora di superare queste ambiguità. Dobbiamo avere un modello che (…) veda il conflitto ed il consenso come fondamentali per comprendere sia la persistenza che il cambiamento» (pag. 103).
L’invito che, in quest’ottica, l’autore rivolge alla comunità sociologica contemporanea è di adottare ciò che lui chiama un «modello dell’equilibrio instabile», al cui interno spinte consensuali e spinte conflittuali – forze “centripete e centrifughe”, diceva Gouldner – giocano una dinamica che lasci aperti spazi di cambiamento, liberando i sistemi sociali da ogni determinismo. Una tale convergenza, che non evita gli «assunti valutativi – come sono tutti i modelli di società» - consente di ricomporre la complementarietà di alcune grandi coppie polari delle scienze sociali (conflitto/consenso) e delle loro epistemologie (spiegazione/comprensione); permette cioè, secondo L’Abate, «di lavorare, in modo diverso, ad ognuno dei tre livelli individuati, cercando un modello unificato (senza però dogmatizzarlo, e considerandolo provvisorio) al primo livello, e cercando invece di essere pluralisti agli altri due livelli, quelli delle teorie e dei metodi» (pag. 109).
È solo al termine della ricostruzione di questo percorso che L’Abate può inoltrarsi – in una corposa, ultima parte IV – nella comparazione critica dei principali metodi di analisi nelle scienze sociali, da tenere sempre distinti dalle mere tecniche di ricerca, ognuno dei quali può fornire un utile apporto allo scopo. In quattro specifici capitoli vengono passati in rassegna i metodi che nel tempo hanno costituito il corpus disciplinare della sociologia, e che non possiamo esaminare in dettaglio per non appesantire ulteriormente questa recensione: l’analisi causale, quella strutturale, quella funzionale e l’analisi processuale, all’ultima delle quali va una preferenza esplicita del nostro autore – che vi ricomprende anche l’analisi sistemica – per le ragioni che si possono agevolmente rintracciare nello svolgimento del percorso sopra delineato.
Tuttavia, è solo nell’interazione dei diversi approcci, evidenziata tanto la capacità euristica quanto i limiti di ciascuno di essi, che si possono analizzare fenomeni sociali complessi, come il tema della guerra (e delle sue alternative), cosa che Alberto L’Abate non manca di evidenziare in conclusione al suo lavoro. Soltanto in una corretta impostazione metodologica – è il messaggio che sembra volerci consegnare – a partire dalle premesse valoriali dichiarate, attraverso la scelta di modelli, teorie e paradigmi adeguati, fino all’adozione delle tecniche d’indagine più conseguenti ed adeguate – risiedono le possibilità di una ricerca sociale capace effettivamente di operare per una sfida tanto decisiva quanto quella della pace.
Mauro Pellegrino



Domenica 29 Gennaio,2017 Ore: 17:40
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Cultura

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info