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www.ildialogo.org Una “Pagina in Comune” anche tra di noi,di Nicola Vetrano

Recensione
Una “Pagina in Comune” anche tra di noi

di Nicola Vetrano

Approfitto della insonnia per commentare l'incontro, tenutosi lo scorso 28 Aprile, a Napoli, nel quale veniva presentato il libro di Gianmarco Pisa: “La Pagina in Comune”, scritto in italiano, inglese, albanese e serbo, pubblicato dalla casa editrice “Ad Est dell'Equatore”, e dedicato al recupero di memorie comuni tra comunità, quella albanofona e quella serba, del Kosovo, che allo stato attuale sembrano irrimediabilmente divise, con vincitori che nulla vogliono concedere ai vinti.
Eppure c’è stato un tempo, nel Medioevo, in cui il Kanùn, il codice consuetudinario albanese, che regolava la faida e che è ancora vigente nelle remote regioni montane albanesi, si confrontava con un codice serbo, anch’esso di origine consuetudinaria, ma codificato dallo Czar serbo Stefan Dusan, tra il 1349 ed il 1354; ed è proprio dal recupero della memoria di questo confronto tra diversi che può nascere un nuovo, diverso, rapporto tra comunità che si sono combattute ferocemente, fino a pochi anni fa, a ciò spinte anche dall’interesse ad espandersi della NATO e dalle politiche predatorie di nuovi mercati dell’Unione Europea, sempre più materialmente imperialista quanto priva di anima politica, di valori condivisi, di un senso di solidarietà e di unità, di “una voce sola” in politica estera.
L’iniziativa del tentativo di recupero di valori comuni a partire dalle memorie è partita dai volontari kosovari dei corpi di pace, impegnati nella ricostruzione di pratiche, tessuti e culture della pace in quell’area, assieme ai volontari europei, come lo stesso Gianmarco Pisa, che a livello nazionale agisce ottimamente in queste difficili, emozionanti, ma necessarie, iniziative nei teatri di conflitto. Per parte mia, intendo partire dalle contrarietà che io stesso, con il movimento politico in cui mi riconosco, Ross@, Eurostop, la Rete dei Comunisti, hanno verso l’Unione Europea, che non rappresenta un processo di integrazione paritaria, egualitaria ed emancipativa tra Paesi d’Europa con profonde differenze di sviluppo, di storia espressa come formazioni statuali autonome, di appartenenza, fino a pochi anni fa, a blocchi di alleanze alternativi sullo scacchiere del mondo, nonché diversi nelle confessioni religiose e nell’approccio dei propri abitanti al fenomeno religioso.
L’Unione Europea, in cui la Serbia, ma anche il Kosovo, e la Croazia già da tempo, vogliono entrare, non è un faticoso, necessario, tentativo di integrazione di un Continente per millenni diviso, in guerra fra le sue parti; l’Unione Europea è la proiezione degli interessi nazionali ed europei delle classi dominanti, opera a livello di un superstato, che dello Stato classico ha solo la funzione di battere moneta e di regolare i bilanci dei singoli Stati, con il favorire processi di privatizzazione dei grandi complessi pubblici operanti in economia, nonché regolare le prestazioni sociali e sanitarie. È una potenza imperialista, proiezione dei Paesi imperialisti che le hanno dato vita, onde avere più mercati di sbocco, recuperare margini di profitto, che si erodono sempre più, nonché aiutare la formazione di una borghesia ristretta e dominante - non egemone - forte della sua ricchezza, che influenza la politica, a livello sovranazionale. Essere contro la NATO è di più facile percezione, ma le guerre in Europa ed ai suoi confini, e quella ai poveri al suo interno, sono di matrice europea. Un ibrido, quest'Unione Europea, molto medioevale, basato sugli interessi di classe dominante e di ceti tecnocratici, più che sull’identificazione tra Stati, popoli, geografia e livello nazionale delle forze produttive, che è il portato che la modernità ha lasciato, con tutte le tragedie belliche, all’Europa.
In questo contesto, uno Stato plurinazionale, come la Jugoslavia, che nasce dall’unione di regioni, come Croazia e Slovenia, che erano parte integrante dell’Impero Austro-Ungarico, altre parti da tempo indipendenti o autonome, la Serbia ed il Montenegro, altre ancora tributarie o sottomesse all’Impero Ottomano, la Bosnia e la Macedonia, è un caso tragico di scuola sul come le differenze iniziali, invece di fondersi in nuove ricchezze, partendo dal ruolo di chi lavora e produce le basi materiali della ricchezza, diventino oggetto di guerre interminabili, con i fenomeni connessi del traffico di armi e della droga, formazione di elites politico-criminali, speciose accentuazioni delle differenze nazionali, in un Paese dalla forte presenza di una tradizionale lunga questione contadina.
Eppure, lo “jugoslavismo”, l’unione politica degli slavi del sud - questo vuol dire jugoslavo - è stato uno degli ideali nazionali che hanno scosso l’Europa intera nell’Ottocento, partendo, ad opera di intellettuali borghesi e di elites monarchiche, sia dalla Serbia indipendente, che dalla Croazia e dalla Bosnia assoggettate ai due diversi Imperi Centrali, scomparsi con la Prima Guerra Mondiale, la cui capacità di assimilare - per davvero - nazionalità diverse, confessioni religiose talvolta opposte, cattolici, ortodossi, mussulmani, presenta un esempio del passato che il tempo storico recente ci consegna come modello possibile, da non scartare con sussiego, oggi che non riusciamo nemmeno ad accettare l’idea che migliaia di poveri, senza alterare alcun equilibrio demografico europeo, vengano da noi, in fuga da guerre, scontri, catastrofi ambientali ed alimentari, in ognuna delle quali vi è, tra le cause salienti, lo zampino del capitale internazionale e del vecchio colonialismo europeo.
Tuttavia, lo “jugoslavismo” dell'elites, finito col determinare, unito all'anarchismo, lo scatenamento della Prima Guerra Mondiale, viene ripreso, tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, in un contesto socialista, basato sul proletariato, in primis contadino, e sul carattere formativo della lotta partigiana contro gli invasori nazifascisti dalla Lega dei Socialisti e da Tito, dal cui pensiero, come da quello del gruppo di teorici marxisti che lo circondavano, viene concepito un modello di sviluppo economico basato sull’autogestione delle fabbriche da parte degli operai, e dal federalismo tra le varie Repubbliche fondatrici della Jugoslavia Socialista alla fine della II Guerra Mondiale: nasce così la Jugoslavia, Paese socialista dai rapporti via via sempre più cordiali con la controparte vicina, in particolare con l’Italia, pur appartenenti alla NATO ed al blocco a guida USA, Paese, la Jugoslavia Socialista, che non si colloca nel Patto di Varsavia, anzi i cui vertici criticano precocemente lo stalinismo, pur mutuandone alcuni metodi di repressione del dissenso nella prima fase, di rapporti coi consiglieri sovietici, alla fine della Guerra, Paese, i cui vertici socialisti colgono la novità delle rivoluzioni borghese anti-coloniale indiana ed egiziana, marxista in Cina, e forma con questi Paesi, e con altri asiatici e dei restanti Sud del mondo, il Movimento dei Non Allineati, di cui Tito, assieme all’egiziano Nasser e all’indiano Nehru, diventa uno dei leader a livello mondiale.
Eppure, il sistema federalistico, con l’accentuare le differenti velocità di sviluppo, che le originarie forme di accumulazione avevano già diversificato in partenza, tra una Slovenia industrializzata, una Croazia forte come meta turistica e commerciale, dove arrivavano le monete occidentali, e la Serbia, con larghi tratti di presenza rurale e di sviluppo diseguale, con una minoranza etnica sollecitata dall’esterno a ribellarsi, gli albanesi, all’epoca attenti alle suggestioni maoiste ed alla propaganda dell’Albania asseritamente forte di Enver Hoxha, si rompe anzitutto nel meccanismo di allocazione delle risorse, e poi, dopo la morte di Tito, si rivolge al Fondo Monetario Internazionale per chiedere prestiti, le cui condizioni giugulatorie e privatizzatrici, la mettono definitivamente in ginocchio: qui le ragioni materiali della guerra civile, che poi si è alimentata del ripescaggio ideologico e della rielaborazione capziosa di elementi del passato, che dividevano, invece di unire, a partire dalla dichiarazione nazionalistica dell’Accademia Serba delle Arti e delle Scienze di Belgrado.
Emblema di questa tragedia il fatto che il monumento presente nella piazza principale di Pristina, il capoluogo del Kosovo, un monumento di arte contemporanea, rappresentante nei sue tre bracci protesi verso il cielo le tre etnie costituenti il Kosovo, l’albanese, la serba e la montenegrina, un esempio, anche ambizioso culturalmente, della narrazione titoista sulla necessaria, possibile unità del Paese tra diversi, oggi resta nella Piazza di Pristina, ma i più giovani spesso non sanno cosa rappresenti, anche perché troppo presi a coltivare i miti dei leader americani cui sono dedicate strade in quella città, da Clinton alla Albright, o magari stanno per passare in massa allo jihad dell’IS, anche perché in Kosovo, per i giovani, vi sono pochissime possibilità di lavoro e sviluppo. Tra questi processi europei, e quello, recente, di integrazione tra diversi, tra bianchi di origine europea e popolazioni indigene o afroamericane, in America Latina, passa la differenza che c’è tra il sole e la luna, senza mitizzare ciò che accade in Sudamerica, ma vedendo che il processo di unità continentale dell’America Latina parte su basi solide, di lingua ed attitudine verso la propria storia, dopo la venuta degli Europei, condivisa, con una ricerca sulla fondazione di una cittadinanza comune del Latino America, un'apertura ai migranti, forza-lavoro necessaria, ma che, in diversi Paesi del Latino America, si prova a tutelare, combattendo la schiavitù e difendendo il lavoro.
Partiamo da queste differenze per provare a capire come riprovare a scrivere “pagine comuni” o almeno una “Pagina in Comune” anche tra di noi, a partire proprio dal nostro stesso territorio locale.
Nicola Vetrano
avvocato, esperto di diritto dei migranti



Sabato 14 Maggio,2016 Ore: 18:47
 
 
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