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www.ildialogo.org LA STORIA PERDUTA E RITROVATA DEI MIGRANTI,di Renata Rusca Zargar

Recensione
LA STORIA PERDUTA E RITROVATA DEI MIGRANTI

di Renata Rusca Zargar

Il fattore religioso dentro e fuori dei cancelli del carcere. Mauro Armanino, Gammarò Editore, 2013, pagg. 214, euro 16,00


Il testo riproduce la tesi di Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università di Genova di Mauro Armanino, mentre la prigione di Marassi, dove egli ha lavorato come assistente volontario, è il luogo in cui si svolge la ricerca. Nello studio vengono riportati brani di lettere scritti dai detenuti stessi che, spesso, raccontano come siano arrivati in Italia, dopo viaggi di orrore ed esperienze subumane: “Ho cominciato il viaggio dal Niger: eravamo in molti per quel viaggio, circa 40. Il viaggio era di quelli di vita o di morte. Ci siamo trovati a Sabha e ci siamo persi nel deserto con due autisti arabi e ci troviamo poi a Tamanghasset. Siamo in seguito rimasti senz’acqua fino ad Adrah, dove la gendarmeria algerina ci ha intercettati e messi in prigione. Dopo alcune settimane di carcere ci hanno portati in mezzo al deserto sotto un sole implacabile. Nel gruppo c’erano varie ragazze e questo ci dava una buona garanzia di urina da bere, insieme al sangue delle loro mestruazioni. Anche il mezzo che ci precedeva, chiamato ‘Marlboro’, si è guastato. Abbiamo anche visto un camion con varie persone a bordo, tutte morte a parte una. Sembrava uno scheletro vivente. Dopo alcuni giorni di cammino Dio ci ha salvati attraverso un camion che andava a Tripoli, in Libia.” (Donald) “Giuro che emigrare è la cosa più triste che possa accadere, perché ci si separa da tutto quanto si ama, a volte è un errore, emigrare, è un atto di tradimento alla patria. Si dovrebbe lottare per la propria terra e non invece abbandonarla, e così pure la famiglia. I motivi sono la guerra, la dittatura e la povertà… ma anche a causa dei messaggi della TV, del Cinema, che presentano un’immagine falsa dell’occidente. Ci vengono fatte vedere meraviglie che nella maggior parte dei casi sono fuori della nostra portata e ci ritroviamo a vivere una vita spesso infelice e impotente in un mondo che non è il nostro. La difficoltà di inserirsi in un altro Paese, la lingua, il colore della pelle, il cognome, la grande famiglia, i figli piccoli, le umiliazioni, il disprezzo, l’arroganza, il sospetto su chi siamo… saranno scappati? Saranno delinquenti? Che faccia da assassino… vengono a rubare il lavoro ai nostri figli… cose che sentiamo dire a volte nel bus. Fa vomitare quanto si sente. Ascoltare frasi ripugnanti rivolte a chi viene da altre terre… noi che arriviamo con valigie piene di cultura, saperi acquisiti nei nostri Paesi e rimasti inutilizzati laggiù e purtroppo anche qui. Qualche giorno fa una persona di cultura media che frequenta la chiesa mi domandò dove si trova l’Uruguay. Risposi che si trovava in Sudamerica, alla frontiera con l’Argentina e il Brasile. Mi domandò se c’erano tanti neri nel Paese… Io risposi di no. E che ci sono solamente due milioni di italiani, gli extracomunitari di allora. Io credo che questo sia un problema molto difficile per l’Italia. È un problema di cultura, di educazione, di insegnamento nelle scuole, del racconto della storia recente di questo Paese… non ho ancora incontrato una persona che mi chiede se sono contento di stare qui: avrei risposto di no, perché non ci si sente accettato, amato e rispettato come persona.” (Angelo) Eppure, come viene ampiamente spiegato nel libro, viviamo nell’epoca della più grande mobilità della storia. Oltre ai 214 milioni di migranti internazionali, dobbiamo contare 740 milioni di sfollati, in parte interni, per un totale di quasi un miliardo di persone. Questo numero è in aumento a causa delle guerre, dei cambiamenti climatici nel Sud del mondo, della mancanza di posti di lavoro… Nell’Europa stessa ci sono più di 24 milioni di immigrati interni, cioè provenienti da paesi dell’Unione. I migranti partono per fuggire dal proprio paese ma anche per sviluppare i loro progetti di vita, per migliorare le loro condizioni, specialmente perché la logica occidentale dello sfruttamento e dell’esclusione ha distrutto i loro sistemi produttivi. “La Nigeria è un esempio significativo di questa situazione contraddittoria, in cui la ricchezza potenziale è associata alla povertà di fatto. In questo Paese, primo produttore di petrolio
del continente e un reddito pro capite medio di 2300 dollari l’anno, l’aspettativa media di vita non supera i 47 anni. Due bambini su dieci, in questo Paese muoiono prima dei cinque anni, oltre la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il debito con l’estero è tra i più alti nel mondo, con circa 500 milioni di dollari l’anno solo per il pagamento degli interessi. Eppure, nel periodo 1978-1987, il Paese ha assorbito il 4,7% dell’export militare italiano, per una spesa di 120 milioni di dollari.” In Liguria, le prime dieci nazionalità di immigrati sono: Ecuador, Albania, Marocco, Romania, Perù, Cina, Sri Lanka, Ucraina, Senegal e Tunisia. I migranti, dapprima sradicati, spesso rifiutano l’identità, il territorio. In terra straniera, l’immigrato scopre la “colpa” di trovarsi ancora “fuori posto”: ad attenderlo, nella maggior parte dei casi, ci sono il ghetto o il carcere, dove un’alta percentuale di detenuti, infatti, è di origine straniera. Per comprendere, dunque, la complessità della detenzione in carcere degli stranieri, Armanino esamina culture, identità, religione. La cultura è il modo di vivere e ha un livello visibile e morfologico, un livello strutturale (famiglia, organizzazione sociale) e un livello invisibile, dei significati e dei miti, il più profondo. Armanino, durante il suo soggiorno in Liberia, per le gravi conseguenze della guerra civile, aveva verificato, però, che la religione può avere un ruolo nel ricostruire vite spezzate e ‘macerie’ interiori. Citando Berger, afferma che “Ogni società umana è un’impresa di costruzione del mondo. La religione occupa un posto particolare in questa impresa.” E, quindi, citando Geertz: “La strana opacità di certi avvenimenti, pensiamo alla muta insensatezza del dolore ed alla morte, che celebrano l’ambiguità del significato, trova nella religione una prospettiva inedita. […] Una cornice di idee generali per le quali si può dare una forma densa di significato ad esperienze intellettuali, emotive, morali.” La tesi portante del saggio è, dunque, la religione come fattore di integrazione, mezzo per trasmettere, garantire e consolidare nuovi progetti di vita e nuovi immaginari. I migranti, giunti nel paese di arrivo devono ricostruire un’identità che non è più uguale a quella di partenza e il fattore religioso rappresenta l’elemento identitario fondamentale, la chiave di lettura di comportamenti e atteggiamenti sia individuali che di gruppo. Esaminando la situazione della Casa Circondariale di Marassi, che ha circa 800 detenuti di cui la metà di origine straniera, risulta che un buon numero di detenuti si riconoscono nell’Islam e altri nelle Chiese Protestanti. Il carcere, secondo la legge, “dovrebbe rie-ducare alla libertà, dentro e fuori dell’istituzione penale”, (permessi premio, lavoro in semilibertà, arresti domiciliari, affidamento in prova, ecc.) eppure, solo una minoranza di detenuti, una volta usciti, non torna più in carcere. Il sistema, infatti, mantiene il detenuto in condizioni di non nuocere ma non si impegna a reinserirlo socialmente. “Il carcere non è educativo e genera una forma di autismo: la chiusura al fuori è anche una chiusura dentro.” (Anni, ex detenuta) Per questo le prigioni sono stracolme di poveracci, malati, emarginati, disadattati, tossicodipendenti, poveri, stranieri e immigrati finiti male. Solo il 20% dei detenuti è sano, la metà dei detenuti è sotto trattamento farmacologico. Armanino cita Nils Christie che indica le carceri (e si possono aggiungere i Campi, scrive Armanino) come “la via occidentale al Gulag”. Allora, si domanda l’autore, “che rilevanza assume la fede religiosa nel ‘disorientamento’ della detenzione?” Nel bisogno ci si aggrappa a ciò che può dare speranza, ha affermato un ministro di culto dei Testimoni di Geova. “Nella inevitabile sofferenza del carcere, la fede offre un sostegno, un aiuto ‘invisibile’ che permette di andare avanti”, conferma un rappresentante della Comunità islamica. Quindi, “la dimensione religiosa può contribuire per ricostruire l’identità frammentata dei detenuti, ridare senso al passato e aprire al futuro, ritrovare i sistemi simbolici perduti o dimenticati, rinnovare la capacità narrativa della propria vita.” E ciò contribuirebbe pure a migliorare la società tutta perché, come ben sappiamo, l’oppresso diventa oppressore e genera altro dolore. Il volume è ricco di citazioni, di informazioni, di esperienze, può aiutarci a comprendere un tempo di migrazioni come il nostro e a fortificare un concetto che non abbiamo per nulla compreso:
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (Art. 1 Dichiarazione Universale dei diritti umani, 1948). “Il messaggio –infine- è lo stesso per quanti sono fuori, ed implica la scoperta che amare ed essere amati è alla base di tutto. Dobbiamo imparare ad amare. […] Un cammino di fede può contribuire ad interrompere una catena di violenza che si perpetua, dentro e fuori del carcere.” (volontario Sant’Egidio)

Renata Rusca Zargar

 



Giovedì 31 Luglio,2014 Ore: 19:53
 
 
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