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www.ildialogo.org Fra Bartolome' de Las Casas: da colonizzatore a difensore degli indios, “procuratore e protettore universale di tutti gli indigeni”,di Carlo Castellini

Fra Bartolome' de Las Casas: da colonizzatore a difensore degli indios, “procuratore e protettore universale di tutti gli indigeni”

di Carlo Castellini

Da “la vita di Samuel Ruiz Garcia, detto tatic” (padre), ed. Emi di Bologna, di Alberto Vitali; presentazione e commento.


I libri di storia, su cui abbiamo studiato da adolescenti, l'epoca del colonialismo con annesse storie di sfruttamento e di repressione, da parte dei cattolicissimi Spagnoli nei confronti degli indigeni, latino americani, dedicano poche righe a questo personaggio, FRA BARTOLOMEO DE LAS CASAS. Per questo la sua figura rimane ovattata dall'alone del mito, che dura nei secoli, dove lui campeggia quale cavaliere senza macchia e senza paura, dentro il grande oceano di un colonialismo selvaggio ed aggressivo, coperto dalle croci e dagli stendardi di un cattolicesimo coloniale, tanto disumano quanto antievangelico.

E' su questo personaggio che ALBERTO VITALI, prete della diocesi di Milano, e qualificato rappresentante del Movimento di Pax Christi, pone la sua lente di ingrandimento, per farci conoscere una parte di storia sconosciuta, con alcuni episodi salienti di essa, che si svolge sulle terre del continente americano, e dei momenti significativi della sua conversione che conosce tre significativi momenti.

In questi, egli, si libera, a poco a poco, delle vesti e delle maschere del conquistatore spagnolo, per approdare attraverso alcune significative esperienze, che qualificano il suo cammino di uomo e di cristiano, ad una sua personale evoluzione spirituale, che si intreccia con le conquiste spagnole. Fino a che approda alla diocesi del CHIAPAS del suo tempo, per rivestire quelle del difensore, vescovo, a tempo pieno dei diritti dei poveri, degli emarginati, e degli indios in particolare. Ne emerge così una figura ricca e complessa, che non rimane più isolata nel grande oceano del periodo coloniale, nel quale la sua storia personale si intreccia con quella di conquistatori più famosi, ma pù crudeli e degenerati.

Tra quanti accompagnarono Cristoforo Colombo, nel secondo viaggio verso il continente latino americano, ABYA YALA, in lingua cuna, il 25 settembre 1493, vi era un commerciante andaluso, in cerca di fortuna, dal nome di PEDRO DE LAS CASAS, padre del nostro, e sarebbe ritornato nel 1502, al seguito di NICOLAS DE OVANDO, che andava a sostituire nell'ESPANOLA, il defunto governatore FRANCISCO DE BOBADILLA, il giudice e inquisitore inviato dai re cattolici per indagare sul comportamento di CRISTOFORO COLOMBO, colpito da critiche a causa di una cattiva o presunta tale, gestione dell'isola.

In questa occasione il padre aveva portato con se' anche il figlio BARTOLOME'. Questi era nato a SIVIGLIA nel 1484 e il “nuovo mondo”, per lui, consisteva in alcuni ricordi d'infanzia. Prima di tutto l'immagine fortemente impressa nella memoria dei “trofei” portati da Cristoforo Colombo nella sua città, il 31 marzo 1493. Tra questi sette indigeni, che lui vide a Siviglia; con pappagalli verdi belli e colorati, ed alcune maschere fatte con piccole ossa di pesci. Sempre BARTOLOMEO aveva

visto l'Ammiraglio tornare in patria, vestito da francescano per adempiere ad un voto, che aveva emesso in occasione della grande tempesta sull'oceano che lo aveva sorpreso al ritorno del primo viaggio. E nel 1492, suo padre, PEDRO DE LAS CASAS, gli aveva regalato un INDIO, che a sua volta aveva ricevuto in omaggio dallo stesso COLOMBO, quale ricompensa per avere partecipato al secondo viaggio. Il figlio lo aveva tenuto per un anno come servitore. Fino a quando la regina ISABELLA, nel 1500, indignata, per questo atteggiamento di Colombo, aveva dato ordine di liberarlo con altri indigeni, perchè fossero ricondotti nelle loro terre.

Giunto nelle terre di ESPANOLA, BARTOLOMEO aveva partecipato alla conquista di alcuni territori che formavano l'isola, ciascuno dei quali era governato da un capo (cacique). Come premio ricevette un appezzamento di terreno da amministrare, abitato da indigeni, che lo lavoravano in regime di pratica schiavitù, secondo le regole dell'encomienda.

Nel 1506 decise di rientrare in Spagna per ricevere gli ordini minori ed il sacerdozio, che riceve l'anno successivo nella città di Roma. Da qui sarebbe ripartito per ESPANOLA , per curare non proprio le anime ma gli interessi di famiglia. Qui però lo colse una clamorosa sorpresa: i frati domenicani giunti nell'isola dal convento di Santo Stefano di SALAMANCA, guidati da PEDRO DA CORDOBA, decisero di prendere posizione contro i maltrattamenti che i cattolicissimi Spagnoli riservavano agli indigeni; per i quali il loro numero diminuiva, decimati alla lunga dai lavori forzati, dalle malattie e varie angherie e soprusi.

Tutti insieme quindi scrissero una durissima omelia che p. ANTON DE MONTESINOS, pronuncio' nell'avvento del 1511. Senza troppi giri di parole i domenicani ammonirono i connazionali spagnoli della condanna divina che li avrebbe colpiti, se non avesssero desistito da quella barbarie. Quelle parole furono avvertite come pietre taglienti scagliate, che andavano oltre il semplice richiamo corporale e spirituale, ma si configurarono come una vera e propria denuncia di ordine giudiziale.

Le disposizioni giuridiche e amministrative che definiscono l'encomienda parlavano chiaro: il fattore encomendero, doveva fare attenzione all'alimentazione dei dipendenti, doveva curare le malattie dei lavoratori, e dare giusta importanza alla loro istruzione. Questi erano gli obblighi scritti sulla carta. Ma nella realtà era tutto vero il contrario.

E l'encomienda diventò la versione latino-americana del sistema feudale europeo e finì per legittimare la concentrazione della proprietà terriera nelle mani degli ultimi arrivati; giustificò il lavoro forzato degli indigeni su terre, che per diritto, spettavano ai nativi indigeni.

In seguito prevalse anche un sistema di reclutamento di mano d'opera a costi irrisori, e tanti di loro furono impegnati in diversi gruppi nel lavoro coatto, una settimana al mese; dopo di chè venivano spediti nei loro villaggi, perchè provedessero da soli al proprio mantenimento; esentando così il padrone da ogni dovere materiale e spirituale. Le reazioni dei padroni locali alle denunce dei frati domenicani furono immediate e violente. E non fu esentato nemmeno FRA BARTOLOMEO DE LA CASAS, che ora era sacerdote, e possedeva pure lui la sua bella encomienda. Quindi l'omelia sopra ricordata che minacciava di negare l'assoluzione sacramentale, toccava anche lui direttamente.

Questa esperienza servirà al nostro, alcuni decenni dopo, quando sarà creato vescovo del CHIAPAS, per comminare la stessa pena a quanti si ostineranno a schiavizzare gli indigeni. Le proteste però dei padroncini non si fermarono qui ma giunsero fino alla corte del cattolicissimo re FERDINANDO D'ARAGONA, che avvalendosi del parere e consiglio di giuristi esperti e teologi famosi, cercava di dirimere e comporre la questione; prima attraverso la Giunta di Burgos, e in un secondo momento con quella di Valladolid. Tutte queste leggi e mediazioni, servirono a mitigare alcuni aspetti. Ma alla fine fu comunque giustificato con il diritto e la teologia, il lavoro forzato e in fondo anche l'occupazione abusiva delle terre degli indigeni.

LA PRIMA CONVERSIONE:

Intanto i massacri e le ingiustizie continuavano e incominciavano a far breccia nell'animo di FRA BARTOLOMEO e del suo amico PEDRO DE RENTERIA. Ha inizio così un suo cammino di conversione che si svilupperà in tre momenti significativi.

Prese coscienza che quella situazione era profondamente ingiusta. Incominciò a scoprire nell'indio schiavizzato torturato e ucciso il Cristo Crocifisso, ed ebbe il coraggio di tirare le dovute conseguenze. E con un gesto degno di FRANCESCO DI ASSISI denunciò, in un sermone pronunciato nella Festa dell'Assunta, l'intrinseca ingiustizia della encomienda (territorio lavorato dagli indigeni trattati come schiavi). Rinunciò a tutti i suoi possedimenti. Allo stesso modo fece l'amico PEDRO DE RENTERIA, che giunse alla stessa riflessione e conclusione, in maniera autonoma. Ma non fu cosa facile. Las Casas aveva allora 30 anni.

LA SECONDA CONVERSIONE.

Liberatosi dai suoi possedimenti si sentì anche più libero di agire e di denunciare. PEDRO DA CORDOBA lo inviò allora in Spagna per perorare la causa indigena presso il sovrano oramai gravemente malato. Lo incontrò ma non ottenne cio' che voleva. Allora avvicinò il card. FRANCISCO DE CISNEROS, a cui consegnò un MEMORIALE DI RIMEDI, per tentare una soluzione pacifica al problemi degli indigeni schiavizzati. Il progetto era buono e molto moderno. Proponeva un progetto comunitario per creare dei villaggi liberamente popolati da spagnoli e indigeni: per favorire un aiuto reciproco e potessero formarsi anche famiglie miste. Non a caso qualcuno parlo' di una certa somiglianza con l'UTOPIA di TOMMASO MORO, che era in contatto con ERASMO DI ROTTERDAM, che era a conoscenza di CARLO V, imperatore spagnolo. CISNEROS non si fece pregare e inviò tre frati girolamini come governatori dell'isola di ESPANOLA, il cui governo si basava sul progetto del Memoriale di Las Casas., nominato loro consigliere, e “procuratore e protettore universale di tutti gli indigeni”. Ma il progetto ben presto fallì e LAS CASAS tornò a lamentarsi dal suo cardinale a motivo dei frati. Intanto stende altri due progetti concreti. Il primo prevedeva la colonizzazione di LA ESPANOLA, con lavoratori castigliani, per rendere possibile la liberazione degi indigeni; ma fu rigettato dalle corti; mentre il secondo ebbe l'avallo del re. Viene poi elevato a cappellano reale. Ottiene la facoltà di occupare la costa venezuelana per duecento leghe, sull'isola di CUBAGUA, nei pressi della fortezza di CUMANA', per sperimentare il suo progetto di occupazione pacifica, con lavoratori venuti da fuori e quindi senza alcuna coercizione degli indigeni, ai quali invece avrebbe potuto annunciare il Vangelo, nel pieno rispetto della loro libertà.

In entrambe i progetti, Las Casas, sentiva la necessità di impiegare schiavi portati dall'Africa, secondo una pratica largamente diffusa nell'Europa di allora. Nella sua HISTORIA DE LAS INDIAS, riconobbe questo suo limite. Fallì anche questa ultima esperienza. Stanco e deluso decise di entrare nell'ordine dominicano di Santo Domingo e si prese alcuni anni di studio e di riflessione.

LA SECONDA CONVERSIONE.

Intanto nell'università di Salamanca prende vita e forza un intenso fermento intellettuale e illustri domenicani sviluppano una grande riflessione di stampo tomista in fatto di diritto e la discussioe sulla possibilità che gli indigeni si salvassero anche in assenza di una esplicita affermazione della fede in Cristo. Questa discussione non implicava solo aspetti spirituali ma anche pratici perchè poteva giustificare azioni finalizzate a ben altri interessi.

Nel 1526, viene inviato a fondare un convento domenicano nella provincia di Puerto Plata. Qui l'anno seguente incomincia a stendere la più importante delle sue 370 opere: HISTORIA DE LAS INDIAS. Qui comincia a fustigare i costumi dei colonizzatori spagnoli. Viene richiamato a Santo Domingo. La questione degli indigeni lo chiama; corre in Perù, si ferma a Panama, si reca in Nicaragua, ricorre in Messico e si rifugia nel Guatemala. Inizia anche qui la sua opera di evangelizzazione. Scrive ancora un piccolo trattato dal titolo: “DE UNICO VOCATIONIS MODO”. In cui sostiene come l'unica possibilità di promuovere un'autentica conversione degli esseri umani fosse quella della persuasione e criticava ogni forma di cristianizzazione forzata, compresi i battesimi di massa, così praticati dai francescani.

Questo veniva letto come un metodo per favorire il lavoro forzato e la loro sottomissione. Alla fine però le sue battaglie riescono ad ottenere dal papa PAOLO III un pronunciamento solenne in favore della dignità umana degli indigeni. LA TERZA CONVERSIONE.

Torna in Spagna, facendo prima tappa in Portogallo. Qui i suoi confratelli lo informano dei gravi massacri perpetrati dai Portoghesi ai danni degli indigeni. Al sentire queste atrocità si libera ulteriormente di altri freni e diventa nemico giurato di qualsiasi forma di schiavitù: è la sua terza conversione. LA SUA TERZA CONVERSIONE.

Tornato in Spagna si stabilisce a VALLADOLID, città dove sarebbe morto Cristoforo Colombo, allora capitale del regno, dove può scrivere e leggere davanti al re la BREVISSIMA RELACION DE LA DESTRUCCION DE LAS INDIAS, che si configura come un catalogo dei crimini commessi durante la conquista e altre denunce, che condussero ad una epurazione dei membri più corrotti del Consigio delle Indie. In essa LAS CASAS, sostiene la necessità di abolire l'encomienda, che aveva degradato la dignità degli indigeni, obbligandoli ad abbandonare il proprio ambiente naturale, per vivere da schiavi nelle proprietà dei coloni. La mortalità dilagante degli indios era aumentata, come pure le impiccagioni e gli avvelenamenti che si verificarono con le loro stesse mani; che preferivano morire piuttosto che sottostare ad un regime di morte più che ad uno stile di vita.

Con la maturità anagrafica e spirituale arriva anche il riconoscimento umano, ecclesiale e giuridico. CARLO V, imperatore, lo propone a PAOLO III, papa del Concilio di Trento, come vescovo della ricca e prestigiosa diocesi di Cuzco. LAS CASAS informato, preferì declinare questa proposta ed accettò di diventare vescovo della diocesi più povera cioè del CHIAPAS. Per quale motivo? Perchè qui poteva continuare la sua azione di solidarietà e di coscientizzazione a favore degli indigeni.

Divenuto vescovo, volle subito verificare il comportamento dei suoi connazionali verso gli Indios. Non Avevano per nulla cambiato, lo stile quanto a maltrattamenti fisici, psicologici e altro. Allora cosa fece? Compilò un manuale per i confessori. Cosa conteneva questo manuale? Las Casa, andava subito al sodo: decretava la scomunica per tutti coloro che compiono abusi e tengono gli indigeni in condizioni schiavitù.

Quali furono le reazioni dei proprietari terrieri schiavisti? Immediate, violente e interessate come previsto, sia in alto che in basso. Las Casas rientrò allora definitivamente in Spagna nel 1547. Non sarebbe più tornato nelle Americhe. Per quale motivo? Perchè aveva capito e si era convinto, che la difesa degli indigeni poteva essere difesa solo a diretto contatto con le sedi del potere e con i centri di elaborazione del pensiero. Per questo la sua difesa degli indigeni dovette cozzare contro re, filosofi, giuristi, teologi, proprietari terrieri, cortigiani di palazzo: dei quali

ebbe a dire “ ....... perchè non li guida né l'amore di Dio, né lo zelo per la fede ..... ma soltanto l'avidità e l'ambizione per esercitare tirannia spadroneggiando sugli Indios che vogliono spartiti come bestie con spartizione perpetua, tirannica e infernale”.

Dopo Las Casas gli indigeni parvero eclissarsi per secoli in quella che era allora la Nuova Spagna e nel resto del continente. Ma perchè sulla cattedra di Barlome' de Las Casas nel Chiapas, salisse un altro vescovo di grande dedizione e lavatura morale, sarebbero trascorsi altri quattrocento anni. Da qui scaturisce un'altra storia significativa quella di SAMUEL RUIZ GARCIA, detto “TATIC=PADRE che noi conosceremo in un prossimo incontro. (CARLO CASTELLINI).




Martedì 22 Gennaio,2013 Ore: 17:50
 
 
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