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www.ildialogo.org Il candore dei perdenti,di Michele A. Nigro

Il candore dei perdenti

di Michele A. Nigro

Un romanzo di PAOLO POMPEI


Il romanzo appare come una ricognizione e un rendiconto, coraggiosi e spietati, di uno stato dell’essere - dell’essere umano, in particolare - aldilà della storia di una coppia (con annesso trito-agonista). Attraverso un viaggio, quasi al termine della notte, che, lucidamente, scientificamente quasi, perlustra lo sfilacciamento mesto di un rapporto, si perviene alla consapevolezza del limite dell’umano a partire dal più crudele disinganno e dalla più ingannevole ritualizzazione del vivere. Si tratta del triangolo (niente partouze, per carità! - sarebbe di cattivo gusto e Paolo Pompei di gusto è maestro - anche nelle poche situazioni in cui la pulsione erotica si affaccia, piuttosto goffamente peraltro, fra i protagonisti della storia) tra un Sergio, un Paolo e una Egle. Sono tre individui persi in un velleitarismo esistenziale che trascorre impietosamente dall’impotenza al rimpianto al rancore. Impotenza di comunicare nel profondo (e qui la narrazione si tiene alla larga da suggestioni psicanalitiche), quindi, e coazioni ritualizzate nel labirinto della “cosalità”, dell’alienazione dal Sé - si pensi al rilievo archetipico che vengono ad assumere, nel racconto, stanze, mobilio, automobili, cibi, bevande, strade…, elementi attivi, quasi animati, della vicenda. Con il corpo e le sue logiche a fare da ineludibile raccordo. Un vissuto trascinato nell’assenza di consapevolezza, nell’ineluttabilità di uno sfacelo e di una rottamazione incombenti, intriso di delusione e di banalità irredimibili.

Ma è proprio così? Se l’incipit invoca – catarticamente – un’auspicabile palingenesi che riesca a smuovere la morta gora nella quale si dibattono i protagonisti – meglio il conflitto che l’afasia (“Sarebbe bello poter iniziare con lo schianto di uno scontro frontale nel qual caso tutte o quasi le orecchie diventano conchiglie dilatate espanse mentre la curiosità frigge mettendo in moto le gambe che vanno velocemente verso il luogo del probabile disastro”) -, il finale, certo non corrivamente, apre a una possibile rinascita. E viene in mente la chiusa della lirica “Poesia” dal ”Canzoniere” di Saba: “che un estremo di mali un bene annunci”. Dopo un tentativo di approccio amoroso – tanto goffo quanto sincero – conseguito a una lunga fiocaggine di sentimento, a un’indifferenza mutata spesso in ostilità, Sergio ed Egle si ritrovano in una dimensione compassionevole dalla quale potrebbero forse trarre senso e valore nel tempo che resta, evitando improbabili forzature: “C’è proprio bisogno di fare l’amore dopo tanta astinenza? Ora come ora due corpi frigidi potrebbero tentare di divertirsi senza nessuna convinzione. No, non è il caso, rifiuto spontaneo. L’istintività dice la verità, tà-tà, le sillabe finali accentate sono due colpi decisivi. Io ed Egle stiamo pensando la stessa, stessissima cosa. L’armonia delle coincidenze. Adesso tra me e lei possono bastare un paio di baci sulle guance”. Il terzo della storia sfuma e si dissolve. Che dire dei caratteri strutturali e stilistici del romanzo? Paolo Pompei, con la sua prosa libera da suggestioni classicistiche - ma pur sempre sorvegliata e quasi scientificamente articolata - cerca, riuscendovi, di ridimensionare quel “focus on” sull’Io che ha caratterizzato, ove più ove meno, tanta parte della letteratura del ‘900, facendo invece convergere nella componente oggettiva del suo procedere le istanze disincantate degli Io individuali. Nell’articolazione della sua prosa si colgono, a mio personalissimo giudizio, riflessi di autori illustri del passato: per il fluire della coscienza, Proust, Joyce e Svevo; per la ”tiepida palude temporale” nella quale s’immergono talora i protagonisti, Sartre; per la terra desolata nella quale essi si muovono e per il crudele “gioco di scacchi” disumanizzante al quale si abbandonano, Eliot; per una gnomica esente da moralismo, ma lucidissima nell’icasticità degli enunciati, Musil; ma anche, negli esiti più felicemente ironici o vicini a un pacato sarcasmo, sprazzi del Paolo Conte de “Per ogni cinquantennio” o del Buñuel de “Il fascino discreto della borghesia” o del Monicelli de “Amici miei” e, per la peine de vivre, l’elegiaca “Un giorno dopo l’altro” di Tenco. E, soprattutto, la morbosa lucidità del protagonista de “La caduta” di Camus. Se s’intendesse, poi, cercare un pendant fra cinema e struttura narrativa, si potrebbe affermare che, diversamente dal Joyce del monologo interiore e dal Saramago che utilizza l’assenza di punteggiatura al fine di non interrompere il flusso discorsivo dei personaggi - i due ricorrono a una tecnica che fa riferimento al piano-sequenza – Paolo Pompei si affida a un montaggio che, intenzionalmente, intende frantumare il registro narrativo, rinviando così alla dissoluzione dei nessi comunicativi fra i protagonisti. Il che sembra ben ottenersi anche per mezzo di un’intercambiabilità dei ruoli tra gli attori e i narratori della vicenda – laddove soltanto la protagonista femminile – forte delle sue fragilità - è esentata, anche sul piano sintattico, da nascondimenti e infingimenti, (quando si esprime, infatti, è sempre ben identificabile [e identificata] come soggetto del discorso). Altro si potrebbe forse aggiungere, evocando Ensor o Bacon, ma l’intelligenza del lettore è in grado di supplire, senz’altro, all’omissione.

Il romanzo è stato discusso dagli scrittori Sebastiano Saglimbeni, da Salvatore Carachino e da chi questa nota ha redatto alla libreria Feltrinelli di Verona il 30 aprile di quest’anno.



Mercoledì 04 Luglio,2012 Ore: 16:10
 
 
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