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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org SUAVIS DOMINA,di Michele A. Nigro

Recensione
SUAVIS DOMINA

di Michele A. Nigro

Una recensione dell’ultima fatica letteraria di Sebastiano Saglimbeni.


Esce con questo titolo, per i tipi di Editorial Melvin, in Caracas, l’ultima fatica letteraria di Sebastiano Saglimbeni. Si tratta, invero, di un mosaico, articolato in diverse parti, di testi poetici e di traduzioni, da Virgilio e non solo. La prefazione è di Mario Geymonat, figlio del grande filosofo della scienza Ludovico, filologo classico di alta estrazione accademica ed epistemologo di vaglia a sua volta, recentemente scomparso. L’opera del Saglimbeni (editi e inediti dal 1990 al 2009) comprende le sezioni “Père Lachaise”, “Spartito di Dediche”, “Catalepton”, “Altra Poesia”, “Fiori di Peste”, e traduzioni dalle Georgiche e dall’Eneide.

Saglimbeni nasce poeta e tale permane, anche quando si concede, sagacemente, alla prosa. Poeta di elevato sentire campagnolo (al modo dell’amato Virgilio), di amicizie tenaci, di passioni politiche non effimere, di dedizioni senza pentimenti, di moti generosi dell’anima. Lo stile, nobilmente discorsivo, s’intride di puntuali richiami a quella misura classica che tanta parte ha avuto nella sua formazione universitaria e nella sua vita di docente: “… da una quercia cava, lancia lamenti uno strano / pennuto come il gufo” (Père Lachaise); “Tu, remota ombra, rechi decoro e affari” (Trionfo di Raffinatezza); “… mele (di collina) che libere si compiono gustose” (Esempi di Equilibrati Atti); “siamo / per certo delle larve” (Catalepton, IV); “… ghiande contò, nocciole, spighe a luglio cadute ai mietitori; dal mannello” (Et omnia fert aetas, stampata a croce, in forma di “poesia visiva”, al modo del ”Gruppo 70”); “… lacrimo come vite / potata nello stolido marzo” (Ai giovani di Ungheria Italiani”); “un tempo / il ronzio di api e il volteggiare / di rondini basso” (Epilogo). Ma tutto non è. Nella sua poetica sono presenti, con un’“aura” (Benjamin) densa di “astanza” (Brandi), altri temi, la cui icasticità è pari alla loro autenticità: lo sdegno e la passione civile: “… Francesco Lo Sardo. Che si firmò a vita la perdita del sole e si scavò la fossa” (Instrumentum scripturae); “… la poesia da millenni / spera che l’ANIMALE / sia meno animale” (Testi ad una mantovana); “… siamo delle larve / verticali imperfette / con il sangue di pecore o di iene” (Catalepton IV); “… siamo in tanti che traffichiamo parole per lo Stato; / noi , maestri a favore di alberelli umani / parole di regole” (ibid., XI); “ … compie la sua azione la civetta uscendo / dall’oscura vagina arborea per alienare / dalle gabbie i canarini, il canto ai bambini e ai vecchi” (ibid., XIV); “… scaligero, / già in letargo da giovane. Il tuo silenzio / che trasmuti in dote, quando muovi cinerea / la lingua moscia… è tossico/ soppresso, bassezza ed impotenza / per cui ti irrita la capacità del verbo / limpido, strapieno… / E ti credi, ti elevi se conquisti / qualche epiteto basso nei confronti / del forte e del leale. / Mi vergogno al tuo posto (Precisazione – non si allude, forse, profeticamente, nell’anno 2000, a quelle persone delle quali è repleto il repellente sottobosco sociale e politico del nostro tempo?); “… vergogna pure cade nelle pietanze ornate / di mielose voci che invitano a lasciare / il tuo avere là, dove si truffa : le banche, invise certo alle poesia. E pure questa / invisa alle banche” (Questo assurdo vecchio vizio – analoga profezia del 2001); “… non doloravano / i figli uccisi sull’Isonzo / e a Caporetto; le madri nelle case / doloravano” (Fiori di peste – A Silvio Pozzani. Protasi); “Divitias cogere… E avvelenò le teste / il profitto, dilagò l’ignominia. / Qui più si profila ora / lo spettro della fame” (ibid. X); “Remote estati: more di rovo / strappavano i ragazzi; / nel refrigerio d’autunno, le donne / erbe mangerecce. Quel nutrimento / della terra sana… Ora appestata” (ibid. XI – si noti la felice inversione sillabica, di valore allitterante del primo verso: “remo…/ more”); “Fanciulli oltre i trent’anni, / nell’agio, con la mente a pezzi / buia” (Epilogo); “… compie la sua azione la civetta uscendo / dall’oscura vagina arborea per alienare / dalle gabbie i canarini, il canto ai bambini e ai vecchi” (Catalepton XIV); la rievocazione di archetipi agresti: “… con tizzi spenti volevo lasciare / qualche bizzarro segno sulla pietra / dalla forma di pane ; ciò che non ci bastava / volevo disegnare: castagne, fichi e pere… / i volti delle donne contadine, tra queste, / mia madre, Adoperando le more strafatte / dell’aspro nero gelso, monumento, / spuntato dalla terra” (Selvaggio cromatismo III); “Per strade fesse (altri tempi) / smaniavano asini e muli… / Sull’epa lo [il pene inturgidito, N.d.R.] sbattevano con ritmo /; agli angoli delle case contadine, / con vesti lunghe, anziane / donne pisciavano all’impiedi . / E i ragazzi crepavano di risa, mentre / le giovani in piume si urtavano tra loro” (Catalepton III); “… a sera, si sentivano le donne anziane recitare / da un balcone all’altro amari versi, piangevano, poi, / per la terra arsa sul loro petto vecchio, / per i fichi d’India dal frutto oppresso e nano, / per il cielo eguale, infausto… cercavano / mani ruvide di maschi arsi il nido fiorito / alle donne. S’era quietata la guerra da poco ma i ragazzi / la volevano colpendosi con rancida frutta” (ibid, XIII); “Nel canto devozione alla donna, / magnifiche metafore; / e la speranza della forza in due / rendeva tollerabile il lavoro / bestiale per il pane” (Premessa per una Conferenza sulla Bellezza e la Devozione alla Donna nella Poesia Popolare – echeggiano qui i temi menandreo di “Nessuna soma è più pesante della povertà “) e simonideo di “Negli uomini poca / è la forza e vane sono le pene: / nella breve esistenza fatica si somma a fatica”); la riproposizione del dialetto nella fibra del suo poetare colto: “…la brogna soffiata / da un gigante” (Nel Ripartire – sembra di scorgere, a soffiare nella conchiglia, il Tritone berniniano) “e li cani ci fìciru la festa” (Verso, in dialetto liminese, di Alfio Casablanca - Protasi); le citazioni, felicemente indovinate nella struttura compositiva: “Omne aliud crimen mox ferrea protulit aetas” (“Ogni altro delitto generò all’istante l’età del ferro”: Giovenale, Satira VI, 23 – Canto alla Professoressa); “palpitò, come velo di sposa / che s’apre al bacio del promesso amore” G. Carducci: Piemonte, 87-89 – Testi ad una Mantovana); “Donna, se’ tanto grande e tanto vali” (Dante: Paradiso XXXIII, 13); “eos arceo” (Odi profanum vulgus et arceo – Odio il volgo ignorante e me ne tango lontano”. Orazio: Carmina, 1 - Protesta); “leggera e piana, ballatetta” (…ballatetta, in Toscana,va’ tu, leggera e piana, dritt’ a la donna mia. G. Cavalcanti: Rime, XXXV, 2-4 - Cavalcantiana); “… non ullus aratro dignus honos” (Nessun onore all’aratro. Virgilio: Georgiche 1, 506-507 – ibid.); (Nothing can happen more beautiful than death. Nulla può accadere di più bello che non sia la morte. W. Whitman: Starting from Paumanok, 5,7 – Mi Arresto d’Estate); “… maria undique et ubdique caelum” (… mare ovunque e ovunque [su tutto], il cielo - Virgilio: Eneide, V, 8 – 10 Aprile 2009); “… evirati cantori allettatrice” (U. Foscolo: De’ Sepolcri, 74 – Protasi V); “… appo le siepi” (G. Leopardi: Canti, La Ricordanze, 14 – Epilogo); proprio “… di maggio questa impura aria” ( Non è di maggio questa impura aria - P. P. Pasolini: Le ceneri di Gramsci, 1, ibid.); l’allusione ai “roseti malati” (Il Poeta Legge Meglio del Pittore) una spina dei quali, secondo la leggenda che aleggia sulla morte di Rilke, aveva punto il poeta e gli aveva causato la leucemia della quale egli era morto; la motivata1 polemica letteraria: “Non ho incivettato questa mia recente poesia / che forse nel Duemila alle porte farò uscire / nella speranza che sia eucrasia di assunti / per la mente, non con il taglio, comunque, di altri (in nota: “Allusione a Sanguineti e al Gruppo ’63”) / che da tempo ri/passo senza sciogliermi / per cui comincio a dribblarli […] Ora si assiste a tanta fioritura di albagie (in nota: “Un riferimento a coloro che imitano il Gruppo ‘63”) / nei poeti che hanno seminato appena / sillabe in terre fesse aride. E si irraggiano / questi poeti, credono di librarsi lasciando / sotto i timidi” (Protesta). E poi c’è il magnifico, ispirato traduttore: dalle Bucoliche (Instrumentum Scripturae; Testi ad una Mantovana), dalle Georgiche, dall’Eneide (estreme sezioni dell’opera) del sempre amato Virgilio e dal Lucrezio del “De Rerum Natura” (VI, 56-58), nelle quali rifulge il magistrale talento del profondo conoscitore e frequentatore di problematiche interpretative e di felici restituzioni poetiche. Del Saglimbeni virgiliano molto si sa e si è scritto. La brevissima prova lucreziana, in Protasi II, relativa alla peste (la sezione, interamente dedicata a questo morbo, rimanda ad altre composizioni monografiche del Nostro, come quelle sui cavalli o sul vino, evidentemente congeniali al suo istinto di traslatore) induce a formulare voti per ulteriori, assai più ampi cimenti. E poi si colgono, disseminati con dovizia nel testo, che ne viene sovente acceso, bagliori di eccelso lirismo, fluttuazioni di brace ardente sotto la calda cenere di un tono orazianamente understated. Evitiamo di elencarne alcuni più di altri, onde consentire al lettore il piacere di rinvenirli.

Mi permetterei, infine, un cenno a due luoghi presenti nella raccolta: l’uno, in “Versi alla Figlia” (opportunamente messo in risalto da Mario Geymonat nella prefazione), è un capolavoro di sentimento, direi, sbarbariano. La trepidazione di un padre raggiunge la klimax della tenerezza, commuovendo e toccando nel profondo il lettore, partecipe di un dramma che non può non turbare, oggi, ogni coscienza genitoriale. Saglimbeni dà voce, a nome nostro, a questi turbamenti, sublimandoli in una sfera di elegiaca compostezza (mi viene in mente la lettera indirizzata da Plutarco alla moglie in morte della loro piccola figlia) ma certo non mitigandoli (ciò che non vorremmo per nulla che fosse, amanti del vero come siamo). L’altro, in “Protesta”, riguarda un aggettivo che può, al di là del refuso tipografico – calludus in luogo del corretto callidus -, aver determinato una qualche ripulsa. Nulla quaestio. Basta riandare al Persio della satira V (versi 14-16) laddove l’aggettivo risulta comunque ben traducibile con “furbo”, nel senso di “destro”, “abile”, “accorto”, nell’esercizio del proprio talento:“Verba togae sequeris iunctura callidus acri,/ore teres modico, pallentis radere mores/ doctus et ingenuo culpam defigere ludo”ossia, nella traduzione di chi scrive: “Ti attieni a parole /ordinarie tu, furbo nel farle cozzare,/con bella maniera arrotando/(la bocca radente) i costumi/ nebbiati/ e tu, saggio, a chiodare/la colpa con lazzo ingegnoso”.

1.



Sabato 26 Maggio,2012 Ore: 08:54
 
 
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