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ISSN 2420-997X

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Recensione
Un libro sulla non-violenza di Domenico Losurdo

Il prof. Domenico Losurdo ha scritto un nuovo libro sul tema della "non-violenza" (riportiamo il termine così come lo scrive lui nel titolo del suo libro che è per l'appunto "La non-violenza - una storia fuori dal mito" edizioni Laterza). E' un libro su cui è opportuno che ci sia una ampia discussione. Per tale motivo di seguito riportiamo alcune reccensioni sul libro ed una intervista all'autore.


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Un'intervista a Domenico Losurdo di Marie-Ange Patrizio




Quale pacifismo? Teorie e pratiche, dalla kantiana pace perpetua a Gandhi e Luther King, in un saggio di Losurdo
L’anima violenta della non violenza
di Gianni Vattimo (La Stampa - TuttoLibri, 10.04.2010)
Se il tratto specifico del pensiero critico è la messa in discussione delle mitologie che condizionano le opinioni correnti, i libri recenti di Domenico Losurdo sono certamente un ottimo esempio di questo tipo di pensiero. Losurdo, che è professore di filosofia all’università di Urbino, ha pubblicato nel 2008 per Carocci un illuminante libro sulla «leggenda nera» di Stalin decostruendo con larghissima informazione storica gran parte degli elementi che hanno dominato la nostra storiografia sul periodo staliniano e sulla figura di Stalin. E proponendo la tesi (ragionevole) che Stalin per gran parte della sua vita di statista ― che comprende gli anni della lotta decisiva contro il nazismo, della quale l’Occidente deve essergli grato ― praticò la violenza in modi non molto diversi, eticamente, da quelli propri degli altri stati della sua epoca.
Ora Losurdo, in un nuovo saggio per Laterza, si dedica alla decostruzione ― mai pregiudizialmente ostile ma anzi piena di autentica simpatia per il nocciolo essenziale ― della non violenza. Per far questo fornisce una storia dettagliata delle teorie e pratiche pacifiste e non violente, a cominciare dalle origini nella idea kantiana della pace perpetua, e dai primi movimenti pacifisti sorti nel Nordamerica ottocentesco intriso di fondamentalismo biblico, della eredità puritana e degli ideali della rivoluzione anti-inglese del 1776.
E’ in questo ambiente che, intrecciato con la questione della schiavitù, si afferma un vasto movimento non violento, con la fondazione nel 1828 di una American Peace Society, che ha una consorella a Londra. Prima ancora della guerra di secessione in Nordamerica tra il Sud schiavista e il Nord abolizionista (1861-1865), il pacifismo inglese e americano si confronta con varie altre rivolte anticoloniali, come quella, nel 1857, dei soldati indiani arruolati nell’esercito inglese. Si tratta di decidere se la violenza dei ribelli è legittima o se hanno ragione gli inglesi a reprimerla con la forza, giustificando l’azione come repressione di criminali comuni. Dilemmi analoghi, sia pure in termini diversi, si troveranno di fronte i non violenti nordamericani in occasione della guerra di secessione.
Gli schiavi hanno ragione a volersi liberare; possono farlo con la violenza? Uno degli esponenti storici del pacifismo, Charles Stearns, ritiene che non si possa assistere inerti alle violenze degli schiavisti. E si risolve a giustificare l’uso della violenza contro di loro considerando che l’ideale della non violenza proibisce solo di togliere la vita ad altri esseri umani, mentre questi non sono umani e dunque possono essere combattuti e uccisi. Siamo nell’anno 1856, quando ormai il conflitto armato tra il Nord e il Sud si avvicina. L’attacco che John Brown compie in Virginia, nel 1859, contro un deposito di munizioni del governo, sperando di innescare così una ampia rivolta di schiavi, determina vaste discussioni nel movimento pacifista, che è anche, da sempre, abolizionista e perciò incline a sostenere la lotta anche armata degli schiavi. Anche Henri De Thoreau ammette che possa ricorrere alle armi quando ogni altro mezzo per far valere il diritto si sia rivelato inutilizzabile.
Naturalmente, un’ampia parte del libro di Losurdo è dedicata allo studio dei grandi classici della non violenza, come Gandhi e Tolstoi, giù giù fino a Capitini e Martin Luther King. Con le loro contraddizioni spesso dimenticate: soprattutto quelle di Gandhi, che sia ai tempi del soggiorno in SudAfrica e della guerra dei Boeri, sia negli anni della prima e della seconda guerra mondiale si impegna in varie forme nel sostegno dell’azione, anche bellica, della parte che ritiene più «giusta e meno violenta». Non senza qualche cedimento alla retorica della «virilità» e della forza di carattere che, come in molta ideologia militarista europea degli stessi anni, sarebbero sviluppate proprio dalla guerra e dalla vita militare.
Molta attenzione Losurdo dedica alla relazione tra ideali della non violenza e movimento socialista. Mentre Gandhi predica una sorta di disposizione al martirio (resistenza passiva, digiuno), nei socialisti come Lenin la vocazione all’eroismo si accompagna a un forte senso realistico e storicistico. Che evita al pensiero socialista le acrobazie a cui i non violenti motivati religiosamente sono costretti per giustificare qualunque uso della forza, come accadeva appunto nel caso archetipico dell’abolizionismo nordamericano.
E’ una contraddizione che non si lascia mai risolvere teoricamente, almeno secondo Losurdo. E che si rinnova ogni volta che, come anche oggi, il metodo della non violenza sembra imporsi non solo per motivi etici, ma anche per considerazioni tattiche: difficile che oggi una rivoluzione abbia successo se pensa di misurarsi con la violenza soverchiante della conservazione. Su questo, sia pure solo per prudenza tattica, anche Lenin sarebbe gandhiano

 
 
LE ARMI NON VIOLENTE
di Enzo Traverso(il manifesto, 25.09.2010)
In questo ultimo libro Domenico Losurdo affronta «Il mito della non violenza». L’autore evidenza tuttavia il fatto che il rifiuto delle armi non è stato sempre una scelta coerente del pacifismo. Nel Novecento sono stati infatti molti i non-violenti che hanno sostenuto «guerre giuste». Nel saggio è però assente una analisi puntuale delle tesi sull’uso della violenza come necessario strumento per conseguire l’emancipazione dall’oppressione
Alcuni anni fa, quando è iniziata la sciagurata guerra occidentale contro l’Iraq, i balconi di case e palazzi italiani si sono ornati di bandiere arcobaleno che invocavano «pace», le stesse di molti manifestanti che cercavano di impedire il decollo dei bombardieri dalle basi americane del Mediterraneo. Il loro messaggio era chiaro, bisognava opporsi a una guerra di conquista. Queste bandiere, tuttavia, non sono state inalberate né in Iraq né in Afghanistan, e neppure in Libano o in Palestina, dove gli eroi, tra chi condanna l’invasione di truppe straniere, sono invece i martiri e i combattenti che (con motivazioni e ideologie diverse, sulle quali ci sarebbe ovviamente molto da discutere) usano le armi. Per chi non condivide il pessimismo antropologico di tanta parte del pensiero conservatore - e di quelli che, come Wolfgang Sofsky, pensano ci si debba rassegnare alla malvagità e alla violenza, ontologicamente inscritte nella natura umana -, il pacifismo appare come un ideale nobile. Il progetto kantiano di «pace perpetua» - la fissazione di un ordine capace di mettere fine per sempre alla guerra - è ancor oggi dibattuto da giuristi e filosofi politici. Il problema è come mettere fine alle guerre. Per i marxisti si tratta di rimuovere le cause della violenza che risiedono nel capitalismo e nell’imperialismo, fonti di oppressione nazionale, sfruttamento e spaventose disuguaglianze sociali. I pacifisti pensano invece di poter conquistare pace e giustizia praticando la non-violenza come modello etico (in Occidente ispirandosi soprattutto ai valori del cristianesimo). Nella loro storia, questi due percorsi non sono tuttavia lineari. Entrambi sono costellati di contraddizioni e irti di ostacoli. Nel suo ultimo libro - La non-violenza. Una storia fuori dal mito (Laterza, pp. 287, euro 22) -, Domenico Losurdo non si interessa al primo (quello del «partito di Lenin») ma piuttosto al secondo (quello del «partito di Gandhi»), tracciando una storia del pacifismo «fuori dal mito».
Ambivalenze gandhiane
Proprio perché ispirati a ideali nobili e mossi dal desiderio di combattere l’ingiustizia, i pacifisti hanno spesso dovuto cercare di soddisfare esigenze inconciliabili, con il risultato di rinunciare in molti casi ai loro obiettivi iniziali, di rimanere prigionieri delle loro incoerenze o di rinunciare ad alcuni dei loro principi. Losurdo passa in rassegna alcune di queste «revisioni» particolarmente emblematiche. Negli Stati Uniti, l’ American Peace Society, creata nel 1828 da umanisti cristiani che consideravano inderogabile la morale illustrata dal «Discorso della Montagna», decise di sostenere Abramo Lincoln durante la guerra civile. Il portavoce del movimento abolizionista non-violento, William L. Garrison, vestì addirittura i panni del crociato, presentando l’oligarchia schiavista del Sud come una forza satanica e l’esercito unionista del Nord come uno «strumento nelle mani di dio». Nel Novecento, l’avvento del nazismo produrrà una svolta analoga in seno al pacifismo cristiano, come testimoniano le prese di posizione di Reinhold Niebhur negli Stati Uniti, di Dietrich Bonhöfer in Germania, che pagherà con la vita la sua partecipazione alla Resistenza, e di Simone Weil, che morirà in esilio a Londra, al servizio della Francia libera, dopo essersi arruolata in Spagna nel 1936 in una milizia repubblicana. Ma gli stessi dilemmi hanno attraversato le coscienze di personalità il cui pacifismo non attingeva a fonti religiose, come ad esempio Albert Einstein che rinunciò alla non-violenza dopo l’ascesa di Hitler al potere, fino a diventare uno degli ispiratori, presso l’amministrazione Roosevelt, del progetto Manhattan da cui nacque la prima bomba atomica.
Più complesso è il caso di Gandhi, di cui Losurdo demolisce impietosamente il mito, mettendone in luce tutte le ambiguità. A una ricostruzione attenta del suo itinerario intellettuale e politico, Gandhi appare tutt’altro che pacifista, benché si sia sempre dichiarato difensore della non-violenza come obbligo morale (dharma). Nel 1900 sostiene la missione internazionale tesa a reprimere la rivolta dei boxer in Cina e, negli stessi anni, si schiera con la Gran Bretagna durante la guerra dei boeri in Sudafrica. La prima guerra mondiale lo vede attivo per reclutare in India i soldati dell’esercito britannico ma negli anni Trenta la sua non-violenza diviene intransigente, al punto di suggerire la resistenza passiva agli etiopi di fronte all’invasione dell’esercito fascista italiano. Con lo stesso spirito, nel luglio 1940, a poche settimane dalla sconfitta francese, scrive una lettera aperta «a tutti i britannici», ai quali propone di cedere le armi e lasciarsi invadere dalle forze tedesche: «vi farete massacrare tutti, uomini, donne e bambini, ma rifiuterete di dar loro la vostra lealtà». Agli occhi di Churchill, Gandhi non era altro che un «fachiro fanatico e asceta» della peggior specie. Il leader indiano non si illuse mai di poter difendere la sua causa sostenendo le forze dell’Asse - un’illusione nella quale caddero invece altri nazionalisti - soprattutto perché aveva capito che, anche vincitrice, la Gran Bretagna sarebbe uscita dalla guerra talmente indebolita da non potersi opporre all’indipendenza dell’India. Più che filosofico o spirituale, il suo pacifismo era, secondo Losurdo, di natura squisitamente politica. Nessuno prima di lui aveva colto l’efficacia della non-violenza come metodo di lotta capace di suscitare l’indignazione morale, presentando il conflitto fra colonizzati e colonizzatori come uno scontro fra vittime e carnefici. L’indignazione morale - come ha confermato in seguito la guerra del Vietnam - può rivelarsi un fattore decisivo per la soluzione di un conflitto.
Illusioni ideologiche
Ciò spiega il fascino esercitato da Gandhi su Martin Luther King, che cercava di applicarne gli insegnamenti nella lotta contro la white supremacy americana, ma non poteva fare a meno di rendere omaggio alla memoria degli schiavi che, come Nat Turner, si erano ribellati e avevano combattuto a fianco dell’Unione durante la guerra civile. Altri, a cominciare da Malcolm X e Frantz Fanon, hanno denunciato la violenza della segregazione e del colonialismo, indicando però nella contro-violenza degli oppressi la via inevitabile dell’emancipazione. Se la violenza assume ai loro occhi una dimensione liberatrice, la sua natura rimane reattiva e strumentale. Simmetrico al mito di Gandhi è quello che fa di Malcolm X e Fanon i cultori di una violenza cieca e fine a se stessa. Vedere nella violenza, sulla scia di Marx ed Engels, una «levatrice della storia», non significa esaltarla, idealizzarla, considerarla come un valore in sé o come un metodo di lotta normativo. Losurdo ha cura di separare le concezioni del «partito di Lenin» dal culto della violenza teorizzato da Sorel, ammirato da Mussolini e oggetto di critiche severe da parte di Gramsci e Sartre.
La rassegna critica di Losurdo non risparmia Hannah Arendt, figura non priva di ambiguità. Durante la guerra, essa riconosceva la legittimità di una resistenza armata ebraica contro il nazismo - salutò l’insurrezione del ghetto di Varsavia e si batté per la creazione di un esercito ebraico in seno alle forze alleate - nella quale vedeva «la sola via d’uscita morale e politica». Negli anni Sessanta, tuttavia, si mostrò particolarmente miope nei confronti delle rivoluzioni coloniali: il Terzo Mondo era ai suoi occhi soltanto «un’ideologia e un’illusione». In un suo saggio del 1972, si legge che la liberazione degli oppressi non è mai venuta dalle loro lotte, piuttosto «da coloro che non erano oppressi e non erano degradati ma non potevano sopportare che altri lo fossero"» In molti scritti degli anni Quaranta, l’esule ebrea aveva argomentato che l’emancipazione ebraica in Germania era naufragata perché concessa dal potere e non conquistata. Ora, con un atteggiamento paternalistico degno dei riformatori prussiani di fine Settecento, essa spiegava che i neri e i colonizzati non dovevano lottare per la propria liberazione ma attendere che fosse loro conferita da un governo di bianchi e dalla chiaroveggenza delle potenze coloniali. Insomma, sembrava aver dimenticato il nesso tra imperialismo ottocentesco e nazismo che aveva esplorato nel suo libro Le origini del totalitarismo. Questo nesso era invece al centro de I dannati della terra in cui Fanon scriveva che «il nazismo ha trasformato la totalità dell’Europa in vera colonia».
Oscurati dalle teorie del complotto
Dopo aver passato in rassegna e sottoposto a una critica acuta le contraddizioni del «partito di Gandhi», Losurdo avrebbe potuto dedicare la stessa attenzione a quelle, non meno vistose e drammatiche, che hanno attraversato la storia del «partito di Lenin». Il rapporto tra violenza e politica, in effetti, solleva interrogativi e dibattiti anche tra chi, come i marxisti, riconosce il carattere legittimo e in talune circostanze storiche ineluttabile del ricorso alla violenza. Questo problema è al centro delle polemiche che, durante la guerra civile russa, oppongono i bolscevichi ai menscevichi, ai socialdemocratici e agli anarchici. Gli scritti di Lenin, Trotzki, Martov e Kautsky meriterebbero di essere rivisitati con occhio critico almeno quanto quelli di Gandhi o le controversie tra Martin Luther King e Malcolm X. I dibattiti della guerra civile russa sul rapporto tra violenza e politica sono riaffiorati durante la guerra civile spagnola, divenendo oggetto di un confronto teso fra Trotzki, che difendeva l’eredità del bolscevismo, Victor Serge, che si orientava verso una critica libertaria della rivoluzione russa, e John Dewey, che respingeva il comunismo in nome dei principi liberali. L’eco di queste discussioni non è assente, in tempi recenti, negli scritti di marxisti come Etienne Balibar o John Holloway. Sarebbe interessante conoscere l’opinione di Losurdo in materia.
Dispiace - per quanto non sia del tutto sorprendente - che, a conclusione di un libro interessante ed acuto, egli non possa esimersi, a proposito del Tibet o del movimento studentesco che nel 1989 invase la Piazza Tienanmen di Pechino, dal riproporre argomenti d’altri tempi, quando le rivolte antiburocratiche in seno ai paesi del blocco sovietico venivano automaticamente bollate come frutto di «complotti» imperialisti. L’oscurantismo «feudale» del Dalai Lama non giustifica la politica cinese in Tibet, allo stesso modo in cui l’oscurantismo dei talebani non giustifica l’invasione americana dell’Afghanistan. È una constatazione banale, ma alcuni passaggi del suo libro la rendono necessaria.
 
 


Mercoledì 24 Novembre,2010 Ore: 14:37
 
 
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