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www.ildialogo.org IL FAVOLISTA FEDRO,di Sebastiano Saglimbeni

IL FAVOLISTA FEDRO

di Sebastiano Saglimbeni

L’età tiberiana ebbe un valido poeta con Fedro. Che probabilmente si coltivò come favolista per un tributo, fatto di onore e di memoria, allo schiavo Esopo vissuto cinque o sei secoli prima dell’èra cristiana in Frigia, autore di circa quattrocento favole popolate di protagonisti bestie, uomini di alto rango, dèi e, raramente, alberi. Questo mondo, più o meno volle intendere e poetare Fedro, che fu pure uno schiavo, affrancato, una volta che approdò dalla Grecia a Roma; che fu inquisito e processato, come lo fu Esopo, per le sue favole libere osteggianti - sia pure sotto la scorza della metafora - il potere di Seiano, ministro di Tiberio. Un destino quasi parallelo ci fa credere che lo spirito di Esopo si fosse rigenerato in Fedro, compatriota dei mitici poeti Orfeo e Lino, ma scrittore romano per sentimento e linguaggio.
Esopo rimane per Fedro il primo detentore della scrittura favolistica. Fedro riesce finemente a trasformare questa in versi senari giambici, nei quali spesso Esopo è il protagonista, l’io narrante; ed è inteso come senex, sophos, sapiens narratore. Ma Fedro, qualche volta, avverte come un peso di sottomissione a questo grande, in quanto si considera un epigono o un venuto dopo come cultore della favola. Sulla vita di Fedro non ci è dato tanto sapere, seppure, con approssimazione, si conosce la data della sua nascita. Gli studiosi la fanno risalire al 20 o all’11 a.C. Il luogo di nascita si può pure stabilire, in qualche modo, in quanto rilevabile dal prologo del III Libro delle sue favole, dove menziona che la madre lo generò sulle pendici del monte Pierio, tra la Tessaglia e la Macedonia; rilevabile è pure la sua formazione culturale latina a Roma dall’epilogo del II Libro, dove egli scrive: “Se i latini mi saranno benevoli/ avranno più illustri da opporre alla Grecia”. Che Fedro fosse stato liberto di Augusto (non di Tiberio, come erroneamente si scrive), si deduce dal titolo delle favole che portavano i manoscritti: Phaedri, Augusti liberti, fabularum aesopiarum libri. La condizione sociale di schiavo spronò, in cambio, il poeta all’amore per le lettere e al culto per la poesia, come valore linguistico difensivo. Non fu agiato e nemmeno cupido di danaro, che diversamente e puramente ebbe con il dono della libertà dal “Divus (così lo nomina)Augusto.
Fedro, per la gloria, così come si legge in un inciso dell’IX favola, III Libro, avrebbe sopportato la calunnia e la morte toccate a Socrate. La “gloria” o, meglio, la fama gli arrivò, in quanto, sia pure osservato con certa circospezione, venne ad inserirsi in quella letteratura del suo tempo già satura di consistenti scritture di vario genere. Nel periodo tiberiano, il liberto Fedro aveva potuto divulgare i primi due libri delle favole, di cui, alcune, come sopra accennato, caustiche nei confronti dei potenti di quella Roma, gli cagionarono un processo con conseguenti pesanti angustie. Nel processo, il ministro di Tiberio, Seiano, detenne più di un potere: di giudice, di accusatore e di testimone. Lo scrive lo stesso favolista nel prologo del III Libro. Questo prologo, che si legge come un’alta poesia, come nessuna tra tutte le favole, è dedicato ad Eutico, un greco schiavo come Fedro, che, affrancato, ebbe funzioni importanti nella vita sociale. A questi, Fedro consegna il suo totale proponimento di dedizione al culto delle Muse nate sul monte Pierio, dove egli nacque. Allo stesso espone nell’epilogo del medesimo libro diverse situazioni. Eutico è pure un giudice e da lui, Fedro si attende il pronunciamento dell’ innocenza e della riabilitazione dopo quel falso processo e quella conseguente condanna subiti. Fedro riesce così a far riaprire il processo, durante il quale indica velatamente altri come responsabili che, per l’integrità del suo onore, vorrà a tutti i costi, pubblicamente, far conoscere. Eutico si convince dell’innocenza di Fedro e gli concede l’assoluzione e la riabilitazione, non tanto gratificanti sotto il profilo morale. Anche il favolista antico frigio - stando alla tradizione leggendaria del Romanzo di Esopo - incappa nelle maglie della giustizia, subisce un processo, per cui viene condannato. Sempre, secondo la tradizione, addirittura, a morte.
Altri tre libri vengono fuori dopo quei primi due divulgati probabilmente nel 31 d.C.: in tutti e cinque libri c’è il riferimento ad Esopo come un sole che abbaglia il poeta latino, ma che lo fortifica lungo l’itinerario creativo per la tematica, nel I; che si scosta un po’ per aprirgli la possibilità del nuovo, nel II; che ritorna sovrastante per fargli scrivere favole esopiche, non di Esopo, nel III ; che definitivamente s’allontana in quanto egli vuole rimanere se stesso, non più Esopo, nel IV. Fedro, dichiara, infine, nel prologo del V Libro, che da un pezzo ha già restituito tutto ciò che doveva ad Esopo: per averlo, cioè, considerato un modello o una fonte principale per la sua scrittura di poeta latino. Un’esistenza inquieta quella di Fedro. Quelle favole “esopiche”, sue, ma pure non sue, per finzione o per una sorta di un tributo con la tecnica di un singolare innesto, gli generarono, dopo che su Seiano, il suo primo persecutore legale, si abbatté la scure della giustizia tiberiana nel 31 d.C., non poche denigrazioni e conseguenti abbattimenti morali.
Fedro nei suoi testi poetici parla di se stesso ma seccamente, senza alcuna indicazione cronologica sulla sua nascita, fa certa apologia di se stesso puramente, tratta di alcuni uomini delle grandi lettere, come Socrate, Simonide, Menandro. Vaticina pure una sua postuma fama ed una collocazione accanto alle Muse. Esistenza inquieta, si diceva, ma pure trascorsa produttivamente creativa e meditativa, dentro una logica dell’avere necessario e dell’elevazione con la conoscenza, come, d’altro canto, tutti coloro che si nutrono di illusioni. Che sono nella pratica della poesia come scrittura e come comportamento di vita. A Roma, Fedro abitò probabilmente in una piccola casa, semplice, come quella che fa costruire a Socrate nella IX favola del III Libro, sopra accennato, assieme a rari amici, fertile di arguzie agili e civili, ma anche armato di strali fatti di certo disprezzo per i suoi lettori, privi di attenzione e di gusto per il suo lavoro, nuovo genere creativo. Non ebbe probabilmente buoni rapporti con le donne, perché non spese per queste buone, galanti parole: disse di loro nella XV favola, pervenutaci frammentata, del IV Libro che la lingua delle donne venne formata da Prometeo, che è sottinteso, a guisa del membro virile per certi rapporti. Così nel suo latino :

… formavit recens
a fictione veretri linguam mulieris .
Adfinitatem trait inde obscenitas .
 
Così nella nostra traduzione:

… di recente formò
a guisa della minchia la lingua delle donne.
Di qui, l’oscenità trasse affinità.
Se buona parte dell’esistenza di questo schiavo affrancato-poeta può, in un certo qual modo, ricostruirsi con l’ausilio di elementi autobiografici che si rilevano da alcuni testi, la fine di questa non propriamente, in quanto non ci è consentito conoscerla. Qualche erudito ipotizzò che il favolista fosse vissuto a lungo, sino all’età tiberiana. Che fosse morto vecchio si potrebbe evincere dalla X favola del V Libro.
Dopo, vuoi per la continuità di quel potere che era stato descritto nelle favole, vuoi per la scarsa intesa di quel genere di scrittura nuova innestata su quella di un autore greco remoto, il lunghissimo silenzio e il conseguente oblio di quella satira in poesia con i protagonisti bestie, grandi e piccole, e probabilmente, alberi, come lascia ad intendere nel prologo di apertura delle favole. Ma ricordiamo, come altri, che continuano a sentire interessi di studi per Fedro, che il silenzio presso i suoi contemporanei fu come dispettoso. Quintiliano non lo nomina, il grande Seneca, tormentato com’era dalla sua esistenza ardua e disgraziata, finge disconoscerlo quando scrive in Consolazione a Polibio che il “genere della favola non era stato neppur tentato fra i Romani”; lo ricorda invece Marziale, l’epigrammista tanto inviso, evidenziandone l’umiltà, gli scherzi in Fedro irriguardoso .
Ma, considerata pure questa valutazione, la scrittura di Fedro non subì per nulla lo scempio del tempo, passò, sino ad arrivare a noi, nelle scuole medie inferiori di alcuni anni fa, come classico e, come tale, di modello. Non pochi ricordiamo la favola “Il lupo e l’agnello” (Lupus et Agnus) e quella morale, negli ultimi due senari, che recita “Haec propter illos scripta est homines fabula, /qui fictis causis innocentes opprimunt” (Questo discorso vale per quelle persone/ che calpestano i deboli con falsi processi). Non passò, al contrario, perché si arrestò, quel giudizio sull’umiltà del suo contemporaneo Marziale. Ed iniziarono gli studi, le imitazioni, certa voga di scrivere favole sulla falsariga fedriana: da Valerio Babrio, poeta greco del II secolo, ad Aviano, poeta latino del IV secolo, sino al Medioevo, nella nostra Italia e fuori. Ma fu nel tratto della cultura umanistica che Fedro trovò uno studioso in Niccolò Perotti, vissuto dal 1430 al 1480. Questo umanista attribuì a Fedro una silloge di 32 favole estratte da codici che poi si persero. Questa silloge venne ad integrare quelle comuni dei cinque libri sotto il titolo di “Appendice perottina”, la quale, in quasi tutte le edizioni, indicate come integrali, viene inserita generalmente dopo il V Libro, scarno, come il II, rispetto agli altri, di testi. Dal Rinascimento, ricordando come esempio quelle scritture favolistiche di La Fontaine (1621-1695), di Lessing (1729 -1781), dei Fratelli Wilhelm Karl (1786-1859) e Jakob Ludwig Karl Grimm (1785-1863), del veneziano Carlo Gozzi (1720 -1806) e del romano Trilussa(1871-1950), Fedro assurse a scrittore universale, in quanto l’angheria, l’astuzia, il servilismo, la vendetta o l’ “occhio per occhio e dente per dente”, la brutalità, ma anche la giustizia divina ed umana si consumarono e continuano a consumarsi lungo il percorso dell’avventura umana sul pianeta terra. E la favola si fa discorso tropologico o metaforico per fermare, in Fedro e in tanti che l’hanno prediletta, gli improbi e probi o ingiusti e giusti comportamenti umani. Per questo, la lezione del mondo fedriano, fatto di bestiario, in prevalenza, ancora oggi continua a trovare trattazione in diversi scrittori che ripropongono scritture di genere favolistico, con dentro animali, come il cane, la cicogna, il leone, il potente, a cui aspetta tutto, e il pavone, come significazione dell’ostentazione umana.
Sopra si accennava al silenzio che avvolse quel genere letterario di Fedro. Il latinista cattolico del secolo scorso, Benedetto Riposati, nella sua Storia della letteratura latina (Milano, 1967), un agile manuale, spiega, fra l’altro, i motivi che determinarono quel “dispettoso silenzio”, da parte dei contemporanei, su Fedro. Si senta questo studioso. “Fedro è un pessimista cupo e sconfortato, sinceramente persuaso della nequizia dell’umana natura, della viziosità e colpevolezza degli uomini: la poesia non gli procura serenità di spirito, ma lo apre alla triste realtà della vita. Vede la tragedia disumana dell’oppresso e dell’oppressore, del debole e del forte, dell’inerme e del potente, del giusto e dell’ingiusto, del semplice e dell’astuto, vede l’uomo, l’animale dagli istinti perversi e dalle infinite miserie dello spirito, e il suo tono moralistico s’incupisce, prende il sopravvento sull’elemento descrittivo e sull’individualizzazione concreta del carattere degli animali, che finiscono con l’assomigliarsi tutti tra loro e ripetersi nei gesti e nelle parole, a tutto danno dell’arte e della poesia (…) . Il tono poetico scompare, quello moralistico si appiattisce, diventa precettivo, pesante, fastidioso”.
Diverso, ovviamente, si legge il giudizio nella Storia della letteratura latina del grande latinista siciliano Concetto Marchesi, scritta in due volumi circa quarant’anni prima di quella del Riposati . Il nostro umanista Marchesi, pure studioso di Fedro, fra l’altro: “La narrazione scorre facile e chiara, senza inutili parole della naturale conversazione; l’epiteto luminoso e appropriato forma spesso col soggetto un’immagine sola. La tenuità aiuta la festività del racconto, privo di facezie ricercate. La favola esopica è per se stessa un’arguzia, alle volte profonda, di pensiero e di espressione: sì che gli altri espedienti, prevalentemente formali, del ridicolo, ne infiacchirebbero la vivacità. Qualche rara volta la troppa asciuttezza dello stile genera pure l’enigma; e la viziosa struttura di alcuni carmi rivela come non sia facile conseguire la compostezza artistica anche nei pochi versi di una favola(…). Il posto di Fedro è tra i piccoli poeti. Ma è un posto cospicuo”.
Noi ora ricordiamo questo favolista latino perché ne traiamo, a parte questi giudizi, una grande validità di scrittura, che studiata bene, in quei tratti sconosciuti, soprattutto, mai considerati come scelte nei testi scolastici, dove c’è la condizione umana e sociale, dove c’è dell’altro, l’inquietudine dello stesso autore, ci parrà ancora più validamente attuale. Come in questi quattro versi che recitano: “Mons parturibat, gemitus inmanes ciens,/ eratque in terris maxima expectatio./ A ille murem peperit. Hoc scriptum est tibi, / qui magna cum minaris, extricat nihil”.
Versi, questi, che ci fanno riflettere, ad esempio, sui nostri governanti, dei Sardanapalo, che promettono mari e monti, ma che, in luogo di questi, ci offrono la bestiolina fognaria.
Leggiamo e rileggiamo, per valutarla meglio nella sua espressività metaforica, la favolistica di Esopo, di Fedro, di La Fontaine, di Lessing, dei due Grimm, di Gozzi, di Trilussa e di altri più contemporanei. Esistono, di Esopo, di Fedro, di La Fontaine e dei due Grimm valide traduzioni divulgate da più editori. Si trovano nuove edizioni delle scritture favolistiche di Gozzi e di Trilussa.
Di recente, Newton Compton di Roma, ha editato nella collana I Mammut Esopo, con testo a fronte, Fedro con testo a fronte, e La Fontaine, senza testo francese a fronte, nella traduzione poetica di Emilio De Marchi e con un saggio introduttivo di Davide Monda. La traduzione di Esopo è stata eseguita da Mario Giammarco, quella di Fedro dall’autore di questa nota, con una introduzione di Alberto Cavarzere. Il libro si orna con 32 tavole di Gustave dorè e 62 incisioni di Grandville.
 L'immagine del leone  è un disegno di Ernesto Treccani.



Mercoledì 18 Dicembre,2013 Ore: 17:28
 
 
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