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www.ildialogo.org L’UOMO E IL MONDO OFFESO SECONDO ELIO VITTORINI *  ,<b>di Sebastiano Saglimbeni</b>

L’UOMO E IL MONDO OFFESO SECONDO ELIO VITTORINI *  

di Sebastiano Saglimbeni

Il mio popolo non è tutto

su queste vie ricche di lumi...

“L’uomo, si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è ammalato, e a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutto quello che in lui è offeso, e che era in lui, in lui, per renderlo felice. Questo è l’uomo”. Certamente, da questa citazione, estratta da Uomini e no, di Elio Vittorini può derivarci la convinzione che lo scrittore seppe intendere profondamente la condizione umana e sociale offese, il mondo offeso, come aveva iniziato a scrivere nel 1937 in Conversazione in Sicilia in cui qualitativamente poetico il suo discorso si incentra sul “genere umano perduto” che crede nell’offesa, nella guerra. Per questo e per altro che dirò continuo a sentire l’attualità di questo autore che riuscì a parlare a tanti nel recente ieri. E continua. Per i mali di sempre, gli offesi di sempre, i traumi della storia, Vittorini spese un’infinità di scrittura. Questa insegna ai lettori che la intendono; insegna con i suoi contenuti, insegna con il suo stile che spesso tradisce la concinnitas, ma rinnova la forma o - meglio - la inventa. Ho scritto su Vittorini all’indomani della sua scomparsa ed ho ricevuto con la lettura di Conversazione, avendola trattata e partecipata nelle scuole, poesia ed informazione su questa nostra storia, ancora con protagonisti disumani, al margine del rispetto per il debole, per l’uomo. Vittorini, che partiva “per vedere il mondo”, dalla Sicilia e che leggeva “per sapere del mondo”, per tanta scrittura prodotta (creativa, interpretativa) subì inevitabili polemiche, a volte, facili ed esagerate.

L’uomo e il mondo offeso. Se l’uomo è offeso è offeso da un altro uomo, pertanto, si può pensare che Vittorini sentisse dentro la sua conoscenza sonante un verso della tragedia sofoclea Antigone, vale a dire: “Molte sono le cose terribili, ma niente è più terribile dell’uomo”. Le molte cose terribili che si sono verificate nelle sterminate stagioni trascorse e che si ripeteranno in quelle future, sono quelle che si identificano con gli accadimenti procurati dalla medesima, ineluttabile forza della natura, che punisce l’azione dell’uomo sbagliata. Questa nostra èra segna la più alta ripetitività di quella tragicità focalizzata nel lontano passato classico dagli scrittori tragici; è l’èra della tragicità sentita da Vittorini e fermata nella sua prosa lirica, poetica, aperta alle istanze sociali.

L’uomo offeso ma da un altro uomo che offende, forte del suo potere politico, che nel tempo si indebolirà, ma rinascerà. E Vittorini offeso nel 1942 dal segretario federale fascista con epiteti, come “canaglia” ed altro, si difende, non offende, subisce, qualche anno dopo, nel luglio del 1943, un paio di mesi di carcerazione, solo per avere scritto un libro che non rispettava la mala regola del regime mussoliniano. La difesa, uscito dal carcere, consisteva nel resistere al disonore, nella partecipazione alla Resistenza, quel movimento necessario, di portata europea, contro le dittature che avevano offeso l’uomo con lo scatenamento di una guerra crudele. Certo, la Resistenza, con tutte le sue zone d’ombra, fu giusta, incentrata su ragioni di difesa, pure intesa dai quei cattolici perseguitati dal regime.

E’ subito dopo la chiusura della Resistenza e con l’entrata della Costituente che si incomincia a vagliare in Italia l’azione civile di Vittorini. Già nel 1945, egli aveva pubblicato presso Bompiani Uomini e no, il romanzo incentrato sulla lotta di Liberazione. Per lo scrittore travagliato da dissidi personali ed esterni, si verifica una fase di nuova posizione civile, tendente a revisionare la cultura trascorsa, rigettando quegli indugi di quella egemone, riguardante quell’ideologia infame. E leggiamo un po’ il pensiero dello scrittore. Da Conversazione in Sicilia. “Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, ed io avevo le scarpe rotte, l’acqua mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete(...) Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui”. Dopo la citazione di questo tratto che è l’inizio del romanzo, si valutino le non lamentose iterazioni verbali che sono nelle scarpe rotte, nella pioggia, nei manifesti e, poi, si valuti la denuncia del genere umano perduto e il malessere che mina il giovane autore, frastornato, il quale non sa quale scelta accettare per una posizione in quella tragica temperie pericolosa. E’ su questo breve romanzo che bisogna un po’ più degli altri guardare da lettori, da veri osservatori di scritture nuove. Conversazione era uscito a puntate in “Letteratura” dal 1938 al 1939, con il titolo Nome e lagrime, in volume, presso l’editore Parenti di Firenze nel 1941; stesso anno, con il titolo originale Conversazione in Sicilia, presso Bompiani, a Milano, ma pure successivamente, nel 1966, aveva divulgato un’edizione Einaudi con introduzione di Edoardo Sanguineti. In quest’opera non pare agevole estrarre l’aspetto ideologico ed unitario, in quanto il discorso si articola con senso poetico e corre verso il misterioso, l’assoluto. E’ il romanzo, questo, che vuole superare certe posizioni assunte ne Il garofano rosso, un altro capolavoro che per mia scelta indichiamo dopo Conversazione. Pure Il garofano rosso venne pubblicato a puntate, in “Solaria”, nel 1933, ma alla terza puntata aveva subito la censura del regime fascista e il sequestro della rivista. Solo dopo la caduta del regime, nel 1948, con una prefazione, a firma dello stesso Vittorini, di cui ho scritto sul mio agile lavoro Il fiore e l’intenso/Il Garofano di Elio Vittorini (Edizioni del Paniere, 1991), il romanzo esce completo presso Mondadori. Non molti conoscono oggi questo romanzo singolare, che è la storia dei sedici anni di Vittorini, già anticipatamente adulto, smaliziato, investito di passione politica e di quella sensuale. Lo sfondo è l’istituzione scolastica tradizionale e la Sicilia del 1924, anno dell’assassinio politico del deputato socialdemocratico Giacomo Matteotti. “Il garofano rosso offre dunque”, osserva Giovanna Gronda in Per conoscere Elio Vittorini (Mondadori,1989), “l’immagine di una giovinezza, la storia di una amicizia tra adolescenti, la scoperta della donna, temi cari alla tradizione narrativa, raccontati in prima persona da un autore venticinquenne cui non erano ignoti i grandi modelli dell’educazione sentimentale europea…ma il tema era familiare anche in Italia: gli davano voce in quegli anni Comisso, Tecchi, Moravia, e il romanzo di Vittorini trovò lettori attenti e sensibili, capaci di recuperare nelle sue pagine il sapore della propria giovinezza, grati all’autore, come scrisse l’autrice Manzini in una delle prime recensioni, di aver fatto loro ‘ritrovare un po’ del nostro tempo perduto ’ ”. Abbiamo citato Giovanna Gronda, docente di Letteratura italiana all’Università di Udine, scomparsa alcuni anni fa. Il suo lavoro su Vittorini resta veramente un’opera assai orientativa per chi vorrà ancora intendere l’autore siciliano in tutta la sua scrittura di prosatore, di saggista e di speleologo raro di talenti creativi nel secolo scorso. Il romanzo Il garofano si assapora in quelle proposizioni, che suonano massime, e che dicono della paura dell’uomo e dell’alleanza dell’uomo contro le paure. Come: “La gente si allea nelle paure. E tu vedi come i bravi e i giusti siano alleati in una paura intelligente…Come i perfidi siano alleati in una paura idiota! L’umanità è tutta divisa da parti e alleanze contro le paure…”. E da segnali incisivi del genere, Vittorini parla all’uomo che sempre si è mosso con questi comportamenti e lo ammonisce pessimisticamente, ma lo ammonisce. Ma il mondo offeso, in altri termini, Vittorini lo evince da altri comportamenti sociali dell’uomo. E ci è di esempio il romanzo, rimasto incompiuto, Erica e i suoi fratelli, scritto dal gennaio al luglio del 1936. Nel 1938, la rivista “Campo di Marte”, con sede redazionale a Firenze, fondata da Alfonso Gatto e da Vasco Pratolini, pubblicava un buon tratto di questo lavoro, mentre la pubblicazione completa avveniva nel 1954 sulla rivista romana diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci, “Nuovi argomenti”. La figura chiave Erica, per vicende di miserie in famiglia, deve prostituirsi per campare i fratellini. Per lei e per questi, ella si dona, così pura, così innocente, per non soggiacere alla miseria, alla fame e per non vedere il suo sangue soffrire.

L’indifferenza sociale degli abbienti è qui il mondo che offende, che non risponde incolto e con la pentola piena a chi non ha morso un pezzo di pane. “Vittorini”, scrive Il Bertacchi,“rifiuta l’idealismo giustificatore dell’ordine e scrive una vicenda di fame e di miseria”. E’ la miseria che collettivamente viene subita dalle persone della quarta dimensione in Conversazione, in cui l’isola siciliana è l’Isolamondo, dove l’uomo “è ignudo nel vino e inerme, umiliato”. Prima, nell’incipit di questo mio testo, avevo detto di Uomini e no, del quale romanzo definito dell’ “impegno”, avevo trascritto una citazione sull’uomo che cade, che ha fame, che è offeso. Il romanzo - va ricordato - fu scritto durante l’imperversare della Resistenza. Pubblicato da Bompiani, subito dopo la Liberazione, nel 1945, viene oggi da pochi giudicato come un libro di poesia, viene pure visto il lavoro che più incorpora contraddizioni. Ma ci deriva la costante dell’uomo e del mondo offeso, come tema, sia pure non scopertamente. “Appena vi sia l’offesa”, egli, fra l’altro, ci scrive, “ noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. E chi ha offeso che cos’è? Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo. Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare”. Il mondo offeso e l’uomo offeso diversamente, in categorie sociali, trovano continuità di trattazione ne Il Sempione strizza l’occhio al Fréjus edito nel 1947: Vittorini, un anno dopo, in proposito, sente di chiarire qualcosa con una nota al lettore con la quale vuole dire che il romanzo avrebbe dovuto intitolarsi Discorso sulla morte o Sull’importanza di vivere. Il titolo del romanzo è deviante, ma si evince dai discorsi dentro il genere tematico. Un’opera in cui gli stenti atavici vengono raccontati sotto forma di sfogo, elevazione, ma è il discorso sociale che prende piede, la condizione dei lavoratori, bersagliati da ansie per l’economia vacua familiare. E pure qui gli offesi dalla forza imprenditoriale, dall’inganno imprenditoriale, che diventa dispotico, non più produttività distribuita misuratamente, e tutto sempre a discapito della classe subalterna. Nel romanzo che poi si movimenta con dialoghi che paiono ritmi generati da lamenti risolve tutto la morte. Così descritta: “Ma non è la morte che viene, come la gente dice. Siamo noi che ci andiamo. Quando abbiamo trovato il poco che potevamo trovare, allora è finita. Non vi è più nulla che ci dica qualcosa. Beviamo ancora vino, ma non vi cerchiamo più nulla, e non ci dice nulla. Niente ci dice più nulla, e, qualunque sia la nostra età, possiamo pensare che siamo già morti. Altrimenti siamo morti e stolti insieme”. Non si esaurisce la tematica sull’uomo e sul mondo offeso, non viene sommessamente espressa nelle successive opere vittoriniane. Ne Le donne di Messina, da dove abbiamo estratto la citazione riportata in cima a questo nostro testo, romanzo edito nel 1949 e ripubblicato, con rifacimenti sostanziali, nel 1964, alla figura dello Zio Agrippa, che vagheggia, tra i suoi dolori per la figlia fuggita, un mondo di rapporti autentici e generosi tra gli uomini, contrasta la figura di Carlo il Calvo, uomo simbolo del potere ignobile del ventennio fascista. L’uomo offeso e l’uomo che offende con il suo potere oppressivo di stampo fascista, di ritorno, dopo la Resistenza. Nell’impossibilità della costruzione di una nuova società e di un dialogo che unisca nell’impresa economica rispunta il tema del mondo e dell’uomo offesi.

Il libro Le donne di Messina, pure dal titolo deviante, ricorda Sandro Briosi nel suo lavoro Invito alla lettura di Elio Vittorini, edito da Mursia nel 1971, “è disorganico è spesso artificioso nello sforzo di fondere piani stilistici e narrativi troppo diversi e lontani ed in quello, soprattutto, di conciliare una visione ancora ‘primitivistica’, immobile della realtà con la volontà di presentare fatti e personaggi che mutano, che fanno storia”.

Con La garibaldina, romanzo breve uscito nel 1950, viene trascurato il tono sperimentale, viene descritto un ideale primitivistico in un mondo dove la purezza è possibile poterla mantenere se ci si trincera in un altro mondo “assurdo” e - osserva ancora Briosi - “sostanzialmente reazionario”. Il tema, nel suo complesso, rimane quello di una società beffarda. La mostruosità dentro la società, sia pure velata dalla narrazione che sa di fantastico, di mitico, trova trattazione ne Le città del mondo, opera composta nel 1952, ma rimasta incompiuta, divulgata nel 1969 dopo la morte di Vittorini. Le maschere qui, soprattutto femminili, si leggono riuscite nella loro dose psicologica, sia per il male che causano, sia per il bene che credono di compiere. La prostituzione, di tipo arcaico, è il tema in questo movimentato romanzo. Fra le diverse figure, una giovane fuggita da casa, Rea Silvia, che un’anziana signora, di mestiere prostituta, vuole iniziare al mestiere antico,ma proteggendola, amandola come figlia, in quanto lei incomincia a diventare vecchia. La prostituzione, per la vecchia, che si chiama Odeida, giova a uomini di tante condizioni sociali ed è pura, naturale. Il mondo e l’uomo offeso è qui nella delusione che nulla, sostanzialmente, muta nel mondo, nonostante il risveglio sociale che non è trasformazione, ma mito del nuovo, del godimento individuale e capitalistico.

Nelle altre opere, non di natura creativa, più a sfondo sociale, che sono articoli, lettere, piccoli saggi, Vittorini non consuma il tema di prima: in altri termini lo intende, lo sviluppa, suggerisce vie di risoluzioni per sollevare la parte del mondo offeso e dell’uomo offeso, ma il problema si rigenera quando sembra che sia stato risolto: e l’uomo offeso e il mondo offeso riesistono finché uno mangia, e l’altro non mangia, finché uno ride e l’altro piange. E “ogni morto di fame è un uomo pericoloso, capace di tutto, di rubare, di tirare coltellate e di darsi anche alla delinquenza politica”.

Lo scrittore, all’indomani della sua morte, avvenuta il 12 febbraio del 1966, rivive in tanti interessi di critica; le sue opere si ristampano in pregevoli formati: e sono, soprattutto, le editrici Bompiani, Einaudi, Mondadori e Rizzoli che si fanno carico per la divulgazione. Ovviamente, continuano gli entusiasmi giusti e i dissensi, spesso sbagliati, sulla sua opera. Che, a mio sentire, rimane poesia alta, denuncia pura a questo mondo immondo.

* Dalla silloge di contributi letterari Trapassato presente/Scritture d’obbligo, edita dall’Associazione Concetto Marchesi nel 2008. Il testo ha subito qualche lieve rimaneggiamento.




Sabato 16 Marzo,2013 Ore: 08:54
 
 
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