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www.ildialogo.org RICORDANDO TULLIO DE MAURO,di  Franco Casati

RICORDANDO TULLIO DE MAURO

di  Franco Casati

La recente scomparsa di Tullio De Mauro, autore di quella Storia linguistica dell’Italia Unita che ha saputo ricostruire il travagliatissimo percorso compiuto dalla lingua italiana per imporsi a livello nazionale, ha acceso i riflettori , per pochissimi giorni, sullo scarso livello di conoscenza che gli italiani hanno tuttora della propria lingua, vuoi per l’impoverimento della comunicazione dovuto ai mezzi informatici, vuoi per il sensibile abbassamento di livello dell’istruzione in ogni ordine e grado di scuola, vuoi per il processo inarrestabile di colonizzazione linguistica che l’inglese sta operando nei confronti del nostro idioma. A me viene da aggiungere, a queste cause, vista l’esterofilia che da sempre affligge gli italiani, lo scarso sentimento di appartenenza alla nazione, che ci caratterizza, e dunque alla sua comunità linguistica.
Nell’ambito dei valori culturali che concorrono a formare una nazione quello della lingua è senz’altro il più importante e indicativo. Tuttavia, a differenza di paesi quali l’Inghilterra, la Francia, la Spagna (solo per citarne alcuni) che esercitano un’azione di rigida tutela della propria lingua considerando, appunto, che essa è il fondamento identitario della nazione, da noi sembra invece di assistere a una gara a chi per primo riesce ad affossare gli ultimi residui dell’italiano. Non si può più leggere un articolo di giornale, in ogni settore dell’informazione, se non si è in grado di tradurre tutta una serie di lemmi o di locuzioni inglesi alternative a quelle italiane, così come non si riesce quasi più nei centri storici o commerciali a leggere insegne di negozi o slogan pubblicitari che non siano rigorosamente in inglese. La pubblicità, da sempre veicolo di destrutturazione logica e culturale del pensiero, anche in questa circostanza, attraverso tutti i mezzi di comunicazione di massa, sta facendo la sua subdola e devastante funzione contro l’uso dell’italiano.
Quest’estate, alcune mie cugine francesi, che ho portato a spasso per il centro storico della città, mi hanno confidato che non gli sembrava di trovarsi in Italia, guardandosi attorno, ma in qualche città inglese o americana, architetture a parte. La mia discreta conoscenza dell’inglese a volte non basta per consentirmi di decifrare queste nuove conquiste della nostra lingua, al di là dell’irritazione che mi provoca questa limitazione. Così, qualche giorno fa, davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento, dove campeggiava la scritta factory store, visto che una traduzione alla lettera mi dava scarsi risultati, ho preso il coraggio a due mani e sono entrato per chiedere informazioni. Udite, udite…nemmeno le commesse sapevano esattamente che cosa significasse quella scritta, cosicché dietro mia insistenza si sono decise a interpellare il direttore del negozio che mi ha spiegato l’arcano: vendita diretta, dalla fabbrica al pubblico, da non confondere con outlet, che significa grosso modo saldi. A questo punto mi sono sentito di chiedere, con modestia, quanti italiani che passavano davanti al negozio erano in grado di cogliere il messaggio (anche nell’interesse della loro attività di vendita). Così il direttore mi ha gentilmente confidato che questa scritta gli era stata imposta dall’alto, dai produttori, i quali garantivano che le giovani generazioni ne fossero informate. Mi sono consolato pensando che le forze economiche hanno più fiducia nei giovani di quanta ne abbia, puta caso, quel ministro del Lavoro che li ha definiti bamboccioni.
Sicuramente io soffro perché sono un ‘matusa’ quando sento sostituire certe care vecchie parole italiane, come ‘tifoso’ con supporter, ‘compleanno’ con birthday, o ‘matrimonio’ con wedding (e chi più ne ha più ne metta); tutte parole familiari e più facilmente pronunciabili che mi riportavano a felici momenti della mia vita. Da ‘matusa’ quale sono, scavalcato e affossato dalle nuove generazioni, voglio ricordare un paio di affermazioni di uno più ‘matusa’ di me, che mi sembrano (ahimè!) ritornate di attualità, di un certo Alessandro Manzoni che verso la metà dell’800, accompagnando la stesura dei suoi ‘Promessi Sposi’, scrisse un trattato ‘Della Lingua Italiana’, in cui così affermava:
“De’ vocaboli messi in campo senza alcun motivo ragionevole, nemmeno in apparenza, e per una qualche vanità sciocca, come, verbigrazia, quella di prendere i vocaboli da una lingua straniera, non per altro che perché sono stranieri, possono essere ricevuti dall’Uso, e entrar così davvero nella lingua in cui sono stati ficcati fuor di proposito, e rimanerci con lo stesso titolo di tutti gli altri che ne fanno parte…”. Ognuno faccia le proprie considerazioni.
Vorrei concludere il mio breve lamento, in omaggio a Tullio De Mauro grande paladino della nostra lingua, con una proposta operativa, tanto modesta quanto inutile, perché sono pienamente convinto che si tratta oramai di una battaglia persa, ma forse qualche valore simbolico potrebbe ancora avere il combattere contro i mulini a vento. Visto che la nostra classe politica, al di là di mere affermazioni di principio tanto retoriche quanto inutili, come si sono sentite appunto a seguito della scomparsa di Tullio De Mauro, da un punto di vista concreto non fa assolutamente niente, anzi meno di niente, per difendere la lingua italiana (e ricordo per inciso che ogni nazione ha i politici che si merita, espressione diretta della loro realtà), avanzo appunto una proposta, quasi inutile, sicuramente poco vantaggiosa per un politico (magari per un ministro dei Beni Culturali) e fastidiosa per quelli che dovessero metterla in atto: l’obbligo di accompagnare qualsiasi insegna o scritta, di negozio, centro commerciale o ufficio o altro, in lingua straniera, con una corrispondente in italiano. Si manterrebbe la libertà di scrivere in inglese, in cinese, in arabo, in rumeno od altro, nel rispetto dell’identità nazionale. Sarebbe una piccola cosa, ma sarebbe già qualcosa, anche se una goccia in un mare. Quando mi capita di andare in Alto Adige, al.di là di un ambiente niente affatto mediterraneo e di una popolazione mezzo tedesca, mi rendo tuttavia conto di trovarmi ancora in Italia solo perché accanto alle diciture in tedesco trovo le corrispondenti in italiano.
Il Manzoni nel saggio sopra citato affermava pure che gli italiani hanno coscienza di avere una lingua, ma che non sanno, a differenza dei francesi e degli inglesi, quale essa sia. Visto che nelle varie parti d’Italia si parlavano i dialetti trovare le parole italiane o le espressioni o i modi di dire corrispondenti a quelli dialettali non era facile. Lo stesso Manzoni ammette che certi discorsi gli riuscivano meglio in milanese che in italiano. Tullio De Mauro sosteneva che l’italiano è stato reso lingua comune dall’ avvento della televisione in avanti, perché per secoli era rimasto ingessato nell’uso letterario e riservato a pochi. Affermazione validissima se si pensa che a tutt’oggi l’80 % dell’informazione passa dai canali TV.
Ho il timore che un domani, quando in Italia buona parte della nostra lingua sarà stata sostituita dall’inglese, ci ritroveremo come gli italiani dell’epoca del Manzoni, coscienti di avere una lingua ma senza sapere più dove sia. Visto che per rispondere affermativamente a una domanda qualsiasi rispondiamo sempre okay, non ricorderemo nemmeno più qual è il suono del nostro sì.
Franco Casati



Martedì 07 Marzo,2017 Ore: 17:28
 
 
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