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www.ildialogo.org L'ANIMO CONTADINO E L'ATTACCAMENTO ALLA SUA TERRA BRILLANO NEGLI SCRITTI INEDITI SU GAMBARA E DINTORNI DI TULLIO CAVALLI,A CURA DI CARLO CASTELLINI

L'ANIMO CONTADINO E L'ATTACCAMENTO ALLA SUA TERRA BRILLANO NEGLI SCRITTI INEDITI SU GAMBARA E DINTORNI DI TULLIO CAVALLI

A CURA DI CARLO CASTELLINI

SULLA SOGLIA DI GAMBARA, DI TULLIO CAVALLI, DALL'INEDITO “LA MIA PARROCCHIA”, 1952, A CURA DI CARLO CASTELLINI.
Scendendo da Brescia verso il sud, incontro alla pianura, si attraversano vaste borgate che punteggiano qua e là il susseguirsi regolare dei campi portanti fatica degli uomini. Oltrepassata la vetusta Leno, da cui si irradiò l'opera dei Benedettini alla bonifica di questa terra, la strada prosegue per Gambara, uno degli ultimi paesi sulla provinciale, al confine tra il mantovano e il cremonese.
Vi si giunge da Gottolengo e lungo la via l'occhio si riposa; Infatti dall'un lato e dall'altro, la terra lavorata si distende uguale all'orizzonte; platani o gelsi con il loro susseguirsi cadenzano, interrompono e ritmano la distesa. Non vi sono troppi rumori da queste parti: solo di volta in volta un'allodola, o un passero o un fringuello rigano questo silenzio e fan da contrappunto al rollio uguale del carro del contadino.
Ma la terra è buona. E sia che il paesaggio appaia netto nelle giornate primaverili mentre si sveglia la vita, o fosco per la nebbia di novembre, che muovendosi pigramente avvolge ogni cosa, un senso di sicurezza emana da ciò che appare: la sicurezza che la terra è fedele e sta dando ove il quaranta, ove il sessanta, ove il cento per uno.
E non è che insegni il pianto il cimitero che s'incontra prima di entrare nel paese. Le colonne architravate dell'atrio e dell'interno si allineano con un senso di tristezza contenuta e direi serena: e non fa male vagare con la mente sotto il grande porticato che avvolge il recinto sacro, esattamente come vagano gli spiriti di quelli che non sono più.
Il facile ricordo di costruzioni egiziane a cui si richiama la forma del cimitero dà un senso di possanza ad ogni cosa. Il silenzio generale della terra e il silenzio potente dei morti sono eterne verità sulla soglia di Gambara. Così si entra nel paese i cui abitanti pur nel volgersi capriccioso delle vicende giornaliere conservano l'attaccamento ai valori più sacri e più sicuri, quelli che furono loro dai padri tramandati. (TULLIO CAVALLI).
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PECCATO DOVER TORNARE IN CITTA' DI TULLIO CAVALLI, DA IL BOLLETTINO DELLA MIA PARROCCHIA, GIUGNO, 1974, A CURA DI CARLO CASTELLINI.
Non so quanti sono partiti da Gambara nel 1950: forse duecento famiglie, forse più. E' il periodo in cui lo sviluppo incomincia chiamarsi industria e l'agricoltura muore. Sono anni duri e la gente se ne va. Vanno in Piemonte a sostituire i contadini diventati operai della Fiat.: vanno a Milano a fare i manovali – omaggio del sottosviluppo alla metropoli, e qualcuno va all'estero.
Quelle volte che tornano sempre più raramente, a Ferragosto, ai Morti, solo per un giorno, salutano gli amici che sono rimasti al paese. E se gli chiedi come va ti guardano con un sorriso incerto:”Si, si, va bene....Ti ricordi quando i....Non ci si vede mai.....” e la conversazione si spegne subito, non è più come una volta. E ripartono subito per Torino, per Milano, ma nel passare davanti al cimitero gli si stringe il cuore perchè non sono più di Gambara e non saranno mai di Milano o di Torino, non sono più di nessuno.
Certo già in quegli anni i Gambaresi emigrati non tirano più la cinghia, non vanno più in giro con le pezze sul sedere, hanno già la moto o il televisore mentre noi, a Gambara, andiamo ancora alla Macagna o nelle varie osterie per vedere Mike o la Bolognani. Alla domenica sono a San Siro e dicono con non curanza “t'è vist el Giani?”. E poi hanno i figli che vanno alle scuole superiori lì a due passi, e parlano italiano come i figli dei padroni...
E' gente che sa il fatto suo, gli emigrati, se la cavano benino: non arriveranno mai alle leve del potere perchè sono di un altro mondo e la città manda avanti prima i suoi. Ma chissà, forse i figli, o i figli dei figli...
E poi la vita in città è un'altra cosa: nessuno sa chi sei,, nessuno ti conosce, nessuno ti saluta. Ma se alla mattina, intanto che vai al lavoro, con la borsa sotto il braccio, improvvisamente ti vien voglia di cantare, la voce si spegne in gola, perchè qui nessuno canta, nessuno sorride, e la gente sul tram guarda diritto e pensa ai fatti suoi, alle rate degli elettrodomestici.
E se ti succede qualcosa? E se vai all'ospedale? E se muori? Sei come un cane, un cane di campagna, perchè quelli di città è un'altra cosa. Siamo partiti in tanti in quegli anni, uno dopo l'altro, per un piatto di lenticchie, senza renderci conto – o almeno io non mi rendevo conto -che eravamo soltanto le ultime insignificanti ruote di un meccanismo più grande, perchè sono quelli gli anni in cui è appassita, presa per fame, la nostra cultura, il nostro modo di guardare le
cose e le persone,l la nostra civiltà, spazzata via come un mucchio di immondizie. Ci hanno pensato l'industria e la politica, il cinema,la radio, la televisione, la pubblicità, e non è rimasto niente: nemmeno il dialetto o le campane.
Adesso ci sono i sacchetti di plastica e i pic-nic, le feste della mamma e il televisore, le tavole rotonde sui “valori comunitari” e i “problemi ecologici”, e la gente civile parla italiano e i bambini vanno a dormire dopo carosello e non dopo l'Ave Maria come le galline.
Anche dentro di me è rimasto poco di quel mondo, solo frammenti di ricordi: il lavoro nei campi di tabacco, il bagno ai Quater, la strada a piedi dal paese alla al cascina, e “ricordati l'erba per i conigli”. (Una sera il fittavolo mi vide che gli strappavo l'erba in un prato, mi guardò un po'- io avrei voluto essere sotto terra – e poi se ne andò senza dire niente).
O quando partivo in bicicletta alle cinque, un freddo cane, per Remedello, poi il treno a Milano per andare all'Università a imparare la cultura dei signori. Sono soltanto momenti che non fanno una storia. Perchè bisognerebbe essere capaci di far rivivere tante altre cose: il volto di quegli uomini che si riunivano nel quarantotto attorno a mio padre e parlavano delle loro illusioni, dei sogni, del millenario sfruttamento che avevano subito.
E i braccianti, gli obbligati, che alla mattina si trovavano al monumento per andare alla Canoa insieme – cinquemila lire alla quindicina se fai tutte le sei giornate, un po' di latte e un po' di legna. E alla cascina di fianco alle stalle, le case di altri braccianti, il pavimento di terra battuta, e lì, vicino, il pezzetto di orto, con la concimaia. A San Martino, poi, via, a un'altra cascina, a un'uguale povertà. Sul carretto preso a prestito, il tavolo, qualche sedia, il letto col paiù (il materasso di crine, il pagliericcio, Ndr) e, dietro, la moglie e i figli......
Parlavamo di queste cose tanto tempo fa, una volta all'anno, la sera del maiale, riuniti intorno alla tavola, dopo aver cantato le canzoni che adesso la gente impegnata va a scoprire. E venivano fuori i ricordi più lontani: del ragazzo che a dieci anni faceva il famiol (famiglio, Ndr), e dormiva sul fienile, o dell'altro che fu mandato a Brescia, - lontana come l'America – a fare il garzone di fornaio, ti ricordi? Dormivi nel sottoscala e portavi il pane alla gente. E quella volta che sei finito con la bicicletta nelle rotaie del tram, ti sei messo a piangere.
E poi dell'unico paio di scarpe che avevate e alla domenica uscivate a turno… .… E ancora più indietro – quanti anni fa - di una vedova che la mattina di Pasqua, andò a messa prima e non aveva niente da dar da mangiare ai quattro figli: e uscita di chiesa trovò, lì sul sagrato, sei ventini -una lira e venti centesimi – e comprò un chilo di carne il giorno di Pasqua.
I più anziani parlavano di queste cose con gli occhi lustri, e io non riuscivo a spiegarmi come tutta quella gente calpestata per millenni da tutti, dai padroni, e dai politici, dagli uomini di scienza e dai furbi, dai preti e dai mangiapreti, sia riuscita a sopravvivere, ad amare, a non ribellarsi, a credere in qualche cosa: meriterebbero un monumento, per quel che serve. Ma non si fanno monumenti ai poveri diavoli.
Adesso sono quasi tutti al cimitero, e uno, quando passa di là, per tornare a Brescia, si sente colpevole di non aver capito e di non aver fatto niente. Poi, a destra, verso l'orizzonte, ma vicinissima, ora che gli alberi sono brulli, appare la Lama: il posto più bello del mondo. Ed è un peccato che si abbia sempre così fretta di tornare in città. (TULLIO CAVALLI).
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TERRA STANCA, DI TULLIO CAVALLI, DA “LA VOCE DEL POPOLO”, 1959, A CURA DI CARLO CASTELLINI.
Si deve scendere per un tratto da Brescia, lungo la provinciale, per giungere a Gambara. Siamo nella Pianura Padana, dove l'occhio può spaziare fino all'orizzonte, rigato dalle sagome tormentate dei gelsi, e ammirare i campi, che in questi giorni verdeggiano di frumento, e i casolari sparsi e gli uomini intenti alla millenaria fatica.
E' facile, passando da queste parti, che risuoni il richiamo di versi bucolici orecchiati sui banchi di scuola. E chi trascina pallidi giorni tra il frastuono delle macchine, e l'incombere delle case nella città è preso, forse inconsciamente, da una distaccata nostalgia per la vita semplice degli agricoltori, sotto questo cielo infinito.
Ma le poetiche pastorellerie non sono mai state così false. Chi conosce questa gente sa che qui non esiste la poesia delle messi d'oro o della terra bruna di ottobre che attende il seme fecondo. Da questa campagna non si innalzano canti. Questi sono solo facili luoghi comuni, lontani e assurdi per chi dei campi non è costretto a vedere altro che la fatica senza fine.
A Gambara i contadini vanno al lavoro ogni giorno – e non sono disoccupati o sottoccupati – come in un rito, senza cantare, maledicendo invece senza odio la loro vita e la terra dalla quale devono rubare il sostentamento. Non importa se il raccolto è abbondante e la pianura dà come non ha mai dato all'uomo, ma le bocche sono troppe, pochi i mezzi meccanici e la terra è stanca.
E la stessa stanchezza è negli uomini che hanno sempre lavorato quasi tutti la terra. Forse questo è di molti altri paesi, ma qui più che altrove. Non ci sono industrie. Non ci sono centri vicini e, d'altra parte, si è troppo impreparati per cercare altre strade, perchè mancano scuole, corsi di addestramento.
Nei giovani c'è una sottile disperazione. Si sono trovati nel giro di pochi anni, a contatto con un mondo in fermento. Hanno fatto il militare, ora, hanno il cinema e la televisione, modi assurdi che creano una sorda ira contro la loro vita quotidiana. A loro ormai non basta più la rassegnazione degli anziani: sentono la nausea che si è accumulata in centinaia di generazioni che prima di loro hanno lavorato senza osare di sperare in qualcosa di meglio. I più giovani hanno bisogno di credere in se stessi e qualche volta provano ad abbandonare la terra ma hanno solo le loro braccia e, se vanno nelle grandi città, possono sperare solo di essere manovali.
Anche se il tenore di vita negli ultimi cinquant'anni è migliorato notevolmente, è però, maturata anche la coscienza di sé, l'insoddisfazione, sono sorte nuove esigenze. Sarebbe facile dire che a Gambara, sono necessarie le fognature, case più decenti, la circonvallazione. E' verissimo, ci sono tante cose necessarie.
“Che ne facciamo delle luci al neon, delle fognature, del bagno, nelle case? Mi diceva un amico gambarese, che sembrava sapesse il fatto suo. “Insegnateci prima ad adoperare tutte queste cose. E' come se indossassi il vestito della festa per andare nei campi”. Forse egli esagerava, ma le sue parole contengono un fondo di verità.A Gambara non si tratta di questo o di quel lavoro di utilità pubblica, ma di un problema più di fondo e forse troppo grosso: togliere quella sfiducia che è negli occhi di coloro che vivono qui, che dà luogo all'inerzia, li fa così facile preda degli estremismi e li rende diffidenti e restii a qualsiasi manifestazione più elevata.
In tale atmosfera le iniziative appassiscono ed i problemi politici ed economici, sfiorano solo le chiacchiere da caffé: se ne parla con un certo distacco come di faccende che non riguardano perchè tanto le cose sono sempre andate così.
Questo vale soprattutto per i giovani. Alla domenica li vedo fermarsi fuori delle osterie: e guardando il cielo primaverile che invita ad andare, e ammirando con una specie di amor rabbioso, le rare macchine che passano e vanno chissà dove, dicono imprecando:”Questo paese....”. Poi entrano e bevono per sentirsi qualcun altro.
Alla sera, dopo il cinema e il ballo, come ubriachi di quella irreale evasione, cantano
talvolta in gruppi senza gioia – e se non sono disoccupati – attendono la nuova settimana di lavoro.
E quando tornate verso la città,e si riapre al di là delle ultime case di Gambara, la Pianura Padana limitata dai Ronchi, riprovate il ritmo di quei versi arcadici che vi frullavano prima per il capo: forse non hanno più lo stesso sapore. (TULLIO CAVALLI).
 



Mercoledì 07 Settembre,2016 Ore: 18:51
 
 
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