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www.ildialogo.org TRE TRAGEDIE,di Sebastiano Saglimbeni

TRE TRAGEDIE

di Sebastiano Saglimbeni

Quest’anno, 2015, al Teatro greco di Siracusa vengono rappresentate tre tragedie, Le supplici di Eschilo, Ifigenia in Aulide di Euripide e Medea di Seneca. Un alto contributo, che fa rivivere il pensiero di tre intramontabili classici, due della grecità, uno della latinità. L’ evento ci motiva a riflettere su tre opere e sui loro autori che di seguito riguardiamo.

Eschilo, nato a Eleusi verso il 525, si prefisse il fine di essere un cittadino e un guerriero. Combatté a Maratona e a Platea, luoghi che apprendemmo dalla storia antica. Un epigramma funebre, mentre inneggia alle sue prodezze, trascura le sue tragedie, circa una novantina. Di queste rimangono, oltre ai frammenti, le Supplici, la tragedia più antica, i Persiani, Prometeo incatenato, i Sette contro Tebe, l’ Orestea, trilogia formata dall‘ Agamennone, le Coefore, le Eumenidi. Eschilo un artista arcaico che i suoi concittadini non valutarono degnamente all’inizio del suo pensiero scritto, ispirato a tutti i cicli di leggende nazionali, giudicato modesto e costruito - è stato osservato - con le briciole della ricca mensa di Omero. Solo in età matura gli vennero resi onori in patria e in Sicilia, ove, a Siracusa, fu ospite di Ierone. Morì nel 456. Un epitaffio sulla sua tomba recita: “Questo tumolo racchiude Eschilo, figlio di Euforione, ateniese, morto a Gela ricca di messi. Il suo glorioso valore possono dirlo, perché lo hanno conosciuto, il bosco di Maratona e il Melo dalle fitte chiome”. La tragedia le Supplici racconta delle cinquanta vergini, figlie di Danao, che per sfuggire alle nozze obbligate con i loro cugini, i figli di Egitto, si rifugiano con il loro vecchio padre ad Argo, dove implorano il re Pelasgo perché conceda loro ospitalità. Vergini svuotate di bassi compromessi e, come tali, osteggiano armate le nozze. Solenni e maestose le loro preghiere. Gennaro Perrotta nel suo Disegno storico della letteratura greca, apprezzato manuale di un tempo, scrive: “La poesia della tragedia è nel carattere del Coro: nella sua asprezza, nella sua religiosità, nel suo odio violento per gli uomini, nelle sue angosce di povera bestia inseguita”.
Euripide, un inquieto, dalle scritture nuove, sorprendenti. Nato a Salamina nel 484 e morto nel 406, sbranato dai cani, secondo una tradizione leggendaria. Sofocle, che seppe della morte di Euripide mentre stava per rappresentare una sua tetralogia, volle apparire dinanzi al popolo vestito a lutto. Assieme a lui i coreuti, senza corona sul capo, e gli attori. La tradizione attesta che fu il primo a possedere una biblioteca. Sdegnoso nei confronti della politica, a differenza di Sofocle, che la intese e la predilesse. Non ne parla difatti nei suoi testi. La cultura comica del suo tempo gli attribuì due mogli infedeli, per punire la sua misoginia, pure inventata. Delle sue 92 tragedie ne restano 17. La più antica è l’Algesti, del 438. Le due ultime sono l’Ifigenia in Aulide e le Baccanti, rappresentate dopo la morte del tragediografo dal figlio Euripide il giovane. Dal testo Ifigenia in Aulide l’antico male che generano le religioni. Ne parlerà, più tardi, Lucrezio nel libro I del De rerum natura. Si legga nella sua lingua un tratto: “Quod contra saepius illa/religio peperit scelerosa atque impia facta.// Aulide quo pacto Triviai virginis aram.//Iphianassai turparunt sanguine foede/ ductores Danaum delecti, prima virorum ”.(Mentre per contro assai spesso/, proprio essa,/ la religione, cagionò azioni scellerate ed empie.// Così in Aulide l’altare della vergine Trivia/ con il sangue d’ Ifianassa (Ifigenia) turpemente macchinarono/ gli eletti condottieri dei Danai, il fiore degli eroi). E subito dopo, il poeta latino, rimarcando quel male: “Tantum religio potuit suadere malorum.” (Solamente, la religione poté indurre a dei mali.) E si pensi, per una conferma dell’atavica bruciante verità, al fanatismo delle religioni di sempre. Ifigenia in Aulide, una tragedia nella quale vive di vita reale una donna che vuol esistere in vero, con il sogno delle nozze. Destinata al sacrificio, non valgono le sue suppliche al padre Agamennone perché venga risparmiata. Vige così la religio, il timore verso una divinità. Quando si accorge che il padre resta irremovibile nelle sue decisioni lo apostrofa come un disumano, un empio. Uno dei nostri grecisti, scomparso alcuni anni fa, Filippo Maria Pontani, scrive in Euripide e tutte le tragedie( Newton&Compton Editori, 2002): “L’ultimo saluto è alla luce del giorno; nella luce immateriale che la circonda, Ifigenia sembra mirare un vago paradiso. La tragedia è splendida: soprattutto la figura d’ Ifigenia, bambina e di un subito donna, ingenua e ferma, timorosa e sublime fino ad apparire una sorta di precoce Giovanna d’Arco, è fra le più poetiche che si conoscano”.
Seneca dall’esistenza tragica, a parte l’ agiatezza e gli onori. Tragica ad iniziare da quell’esilio in Corsica. L’umanista Concetto Marchesi, nelle pagine della sua Storia della letteratura latina, dedicate a Seneca, scrive che in quell’ isola dove “gli abitanti erano remoti e selvaggi più delle fiere, dove i Romani erano rappresentati dai rozzi e imbarbariti discendenti dei veterani di Mario e di Silla, tra rocce e valloni e foreste, quell’uomo di mondo, ammirato e invidiato, fu preso da cupa disperazione. Là egli solo era lo spettatore consapevole della propria rovina”. Da lì, un altro Seneca, quello che rientrerà a Roma e produrrà diverse opere che ne faranno di lui un grande autore latino in ore omnium. Le sue tragedie, scritte non per essere rappresentate, ma per essere lette, non riscuotono la fama quanto, ad esempio, l’opera Epistulae morales ad Lucilium, oggi un’opera molto tradotta e molto letta. Nato il 4 a.C. a Cordova, allo schiudersi dell’ èra volgare e morto a Roma nel 65 d.C. A Roma, fastosa e sordida, la sua educazione alla Scuola del neopitagorico Sozione. Un filosofo, un drammaturgo e un politico, esponente dello stoicismo. La sua Medea è ispirata all’omonima tragedia di Euripide e a quella smarita di Ovidio, un altro autore latino inquieto, che, per un error, venne esiliato nella lontana Tomi, nell’attuale Costanza. Tanto conflitto interiore nella Medea, il medesimo che travagliò il filosofo. Medea, abbandonata da Giasone che sta per coniugarsi con Creusa, uccide, impazzita, questa e i propri figli. Se in Euripide vige la volontà di intendere le ragioni del gesto efferato di Medea, in Seneca, Medea è condannata con soverchia ferocia. Si legge certo gusto del macabro e del truce. Non poi, le tragedie senecane, in numero di 8, cadute nell’oblio, perché hanno influenzato il teatro dei secoli XVI e XVII e soprattutto il dramma elisabettiano. Ludovico Ariosto trasse il titolo del suo Orlando furioso dall’Hercules furens di Seneca. Leggere oggi la sua Medea si ricevono lindezza di lingua e contenuto di tragicità, che è quella remotissima e quella odierna non dissimile. Lo sappiamo dalle cronache di ogni giorno. Bisognerebbe leggere l’Oedipus di Seneca per intendere il dramma che egli visse intus et in cute, quello del suo potere invincibile, una forza di suggestione che prevalse probabilmente sull’indole morbosa di Nerone, tragicamente finito. Tragicamente, prima di Nerone, finì il maestro, ma la morte del maestro un tragico e indimenticabile modello di grandezza morale.



Sabato 18 Aprile,2015 Ore: 22:00
 
 
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