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www.ildialogo.org INGORDIGIA DELL’ORO IN POESIA,di Sebastiano Saglimbeni

INGORDIGIA DELL’ORO IN POESIA

di Sebastiano Saglimbeni

Per ricordare l’ingordigia dell’oro, prediletta e detestata, vale farla un po’ emergere da alcune scritture di poeti, non viventi, come si crede, dentro le nuvole. Nel III libro dell’Eneide, in una manciata di esametri suggestivi, Virgilio fa raccontare ad Enea, accolto nella regia di Didone, la tragica morte del giovane troiano Polidoro che il padre Priamo con molto oro aveva affidato all’amico re tracio Polimestore. Questi, subito dopo che Troia viene distrutta, uccide Polidoro e s’impossessa dell’oro (Polydorum obtruncat et auri/ vi potitur). Enea racconta che appresta una flotta, raccoglie uomini e con il padre e il figlio abbandona lacrimando i patri lidi, i porti, le pianure, laddove fu Troia (ubi Troia fuit). Approda, fra altre terre, in Tracia, dove fonda la città che prende il suo nome, Eneade. Vicino vi sorge un’altura, con sulla cima virgulti di corniolo e un mirto rigido con fitte verghe. Enea si avvicina e si sforza di svellere dal suolo un verde cespuglio, per ornare con rami frondosi gli altari, quando nota un prodigio. Dall’arbusto, che per prima strappa dal suolo, sgorgano dalle radici rotte gocce di sangue nero che lordano la terra con putredine (terram tabo maculant). Un algido tremore gli scombina le membra e il sangue gli si raggela per la paura. Ripete a strappare il ramoscello di un altro arbusto per conoscere le cause recondite del prodigio. Pure sgorga del sangue nero dalla corteccia e in preda a molti pensieri venera le ninfe campestri ed altre divinità del luogo. Ma dopo che strappa con forza il terzo ramoscello sente un lacrimoso gemito dal basso del cumulo e una voce uscente che gli colpisce l’udito e gli dice: “Perché offendi, Enea un infelice? Rispetta un sepolto;/ non disonorare mani innocenti. Sono di Troia, non a te/ estraneo; il sangue che scorgi non sgorga dal legno./ Oh, scappa da terre crudeli, scappa da un avido lido, /difatti io sono Polidoro. Mi trafisse in questo luogo e mi coprì/ una messe ferrea di dardi che si produssero come acute aste”.

Ad Enea, sconvolto per la paura, gli si drizza la chioma e la voce gli muore in gola. E qui segue l’esclamazione, che avrà una divulgazione a non finire sino ai tempi nostri e che recita: “ …a che cosa non avvilisci le menti mortali,/ o detestata ingordigia dell’oro!” (…quid non mortalia pectora cogis,/ auri sacra fames!).

La regina Didone, alla quale per l’oro era stato assassinato dal fratello ingordo il marito Sicheo, con gli altri nella regia ascolta. Enea continua a raccontare.

Il racconto di Polidoro, secondo Omero, nel XX libro dell’Iliade, è completamente diverso. Priamo non consente al giovane figlio Polidoro di partecipare alla guerra di Troia. Ma il figlio, forte della sua agilità, vi partecipa e viene ucciso in combattimento da Achille con un’asta alla schiena.

Nella tragedia, considerata anomala ed esemplare, Ecuba, di Euripide, Polimestore infrange il sacro vincolo dell’ospitalità, uccide Polidoro e disonora il cadavere gettandolo in mare. Ecuba, con l’aiuto di altre donne troiane, prigioniere dentro la tenda di Agamennone, acceca Polimestore ed uccide i suoi due figli.

Virgilio ha eseguito in parte il racconto del tragediografo.

Fatta questa digressione, ci viene da riflettere quanto in vero avvilisce da sempre le menti mortali l’ingordigia dell’oro che è denaro, per il quale non si contano i delitti che sul nostro pianeta terra continuano a perpetrarsi. Ne abbiamo parlato tante volte, estraendo questo malessere dalla letteratura, gli insegnanti, gli scrittori, come Melo Freni, Mario Geymonat, Paolo Pompei, Tonuti Spagnol, uno degli alunni di Pier Paolo Pasolini a Casarsa negli anni della guerra e subito dopo.

Ancora prima di Virgilio, un altro autore della classicità, Tito Lucrezio Caro, nel suo poema De rerum natura esprime realisticamente la sua amara denuncia nei confronti del prezioso metallo e scrive:

Quidve mali fit ut exhalent aurata metalla!

Quas hominum reddunt facies qualisque colores!

Versi di un grande poeta epicureo interprete della natura. Così risuonano nella nostra lingua:

E quali fetori talora sprigionano le miniere d’oro!

Come riducono le facce degli uomini e i colori!

Le miniere d’oro, che sprigionano nella parola di Tito Lucrezio Caro fetore, avevano generato sin dalla Preistoria un rapporto tra gli esseri umani, per l’utilizzo del metallo nella manifattura di ornamenti, grazie alla sua finezza, duttilità, malleabilità. Nell’Antico Egitto era stato descritto nei geroglifici del XIV secolo a. C. e citato nell’Antico Testamento. Oggi è un investimento certo. Che spesso fa precipitare le menti mortali di varia professione, nell’infamia e nei delitti efferati.

L’abbiamo voluto scrivere, per non dimenticarlo, ed abbiamo ricordato la grande poesia dove nella creatività ci sono la verità dell’esecrabile ingordigia dell’oro e dei fetori che sprigionano le miniere d’oro.




Mercoledì 28 Novembre,2012 Ore: 17:01
 
 
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