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www.ildialogo.org STATI GENERALI DELLA CULTURA: CON IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PER LA COSTITUENTE (MA NELLA CHIAREZZA, PER CARITA'). Testi dell'iniziativa del Sole-24 Ore, con alcune note,a c. di Federico La Sala

ITALIA (1994-2012): CULTURA, L'EMERGENZA DIMENTICATA DEL PAESE...
STATI GENERALI DELLA CULTURA: CON IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PER LA COSTITUENTE (MA NELLA CHIAREZZA, PER CARITA'). Testi dell'iniziativa del Sole-24 Ore, con alcune note

È il momento degli Stati Generali della Cultura per tirare le fila, con l’intervento del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, del Manifesto lanciato dal Sole 24 Ore il 19 febbraio scorso «per una Costituente della cultura». Sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica, sono organizzati da Sole 24 Ore, Accademia dei Lincei e Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, e si terranno a Roma al Teatro Eliseo, il 15 novembre, alle 11. Introdurrà i lavori Giuliano Amato.


a c. di Federico La Sala

ITALIA (1994-2012): LA MISERIA DELLA CULTURA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO. Note di premessa sul tema:

PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ... (Federico La Sala)


Con Napolitano per la Costituente *

È il momento degli Stati Generali della Cultura per tirare le fila, con l’intervento del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, del Manifesto lanciato dal Sole 24 Ore il 19 febbraio scorso «per una Costituente della cultura». Sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica, sono organizzati da Sole 24 Ore, Accademia dei Lincei e Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, e si terranno a Roma al Teatro Eliseo, il 15 novembre, alle 11. Introdurrà i lavori Giuliano Amato.

Seguiranno un cortometraggio di Vincenzo Cerami («Appunti per un film sulla rinascita italiana») e la tavola rotonda «Cultura, l’emergenza dimenticata del Paese», introdotta e moderata dal direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano, che presenterà l’«Indice24» della cultura (di cui Pier Luigi Sacco in questa pagina e Fabrizio Galimberti all’interno anticipano i contenuti), con le indicazioni economiche sul quadro competitivo globale e sulle possibilità concrete di sviluppo senza fondi pubblici dell’industria culturale italiana. Intervengono i ministri Fabrizio Barca, Lorenzo Ornaghi e Francesco Profumo, e Ilaria Borletti Buitoni, Ilaria Capua, Andrea Carandini, Lamberto Maffei, Carlo Ossola.

L’intervento del presidente della Repubblica chiuderà la mattinata. Nella sessione pomeridiana, «Fare economia della cultura. Idee e proposte», moderata dal responsabile della «Domenica» Armando Massarenti, intervengono Alessandro Laterza, Emmanuele Emanuele, Pier Luigi Sacco, Roberto Grossi, Antonio Cognata, Paolo Galluzzi, Gabriella Belli, Walter Santagata, Massimo Monaci, Guido Guerzoni, Alberto Melloni. Le conclusioni sono affidate al ministro Corrado Passera.

-  Per partecipare è necessario registrarsi online entro le ore 12 del 14 novembre nel sito
-  L’evento verrà trasmesso in diretta streaming
-  e potrà essere seguito su twitter: #SGCultura12

* Il Sole-24 Ore, 11.11.2012


La “Costituente” per la cultura * *

1 Una costituente per la cultura

Cultura e ricerca sono capisaldi della nostra Carta fondamentale. L’articolo 9 della Costituzione «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Sono temi intrecciati tra loro. Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi economico. Niente cultura, niente sviluppo. "Cultura" significa educazione, ricerca, conoscenza; "sviluppo" anche tutela del paesaggio.

2 Strategie di lungo periodo

Se vogliamo ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un’idea di cultura sopra le macerie che somigliano a quelle su cui è nato il risveglio dell’Italia nel dopoguerra, dobbiamo pensare a un’ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione delle culture, puntando sulla capacità di guidare il cambiamento. Cultura e ricerca innescano l’innovazione, e creano occupazione, producono progresso e sviluppo.

3 Cooperazione tra i ministeri

Oggi si impone un radicale cambiamento di marcia. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte del Governo, significa che strategia e scelte operative devono essere condivise dal ministro dei Beni Culturali con quello dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e con il premier. Il ministero dei Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in coordinazione con quelli dell’Ambiente e del Turismo.

4 L’arte a scuola e la cultura scientifica

L’azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’Università, lo studio dell’arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per il futuro. Per studio dell’arte si intende l’acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell’arte. Ciò non significa rinunciare alla cultura scientifica, ma anche assecondare la creatività.

5 Pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale

Una cultura del merito deve attraversare tutte le fasi educative, formando i cittadini all’accettazione di regole per la valutazione di ricercatori e progetti di studio. La complementarità pubblico/privato, che implica l’intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa. Provvedimenti legislativi a sostegno dei privati vanno sostenuti con sgravi fiscali: queste misure presentano anche equità fiscale.

* Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2012 



Lunedì 12 Novembre,2012 Ore: 18:41
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 12/11/2012 19.42
Titolo:In memoria di Watzlawick. Se le idee si ammalano ...
Watzlawick, se le idee si ammalano

di Umberto Galimberti (la Repubblica, 04.04.2007)

Paul Watzlawick, morto ieri nella sua casa di Palo Alto in California all’età di 85 anni, è lo psicologo che meglio di tutti è riuscito a coniugare i problemi della psiche con quelli del pensiero e quindi a sollevare le tematiche psicologiche al livello che a loro compete, perché ad “ammalarsi” non è solo la nostra anima, ma anche le nostre idee che, quando sono sbagliate, intralciano e complicano la nostra vita rendendola infelice. E proprio Istruzioni per rendersi infelici, che Feltrinelli pubblicò nel 1984 facendo undici edizioni in due anni, è stato il libro che ha reso noto Watzlawick in Italia al grande pubblico.

Nato a Villach, in Austria, nel 1921, Watzlawick nel 1949 ha conseguito all’Università di Venezia la laurea in lingue moderne e filosofia. L’anno successivo prese a frequentare l’Istituto di Psicologia analitica di Zurigo dove nel 1954 conseguì il diploma di analista. Dal 1957 al 1960 ottenne la cattedra di psicoterapia presso l’Università di El Salvador e dal 1960 si trasferì al Mental Research Institute di Palo Alto dove lavorò con Don D. Jackson, Janet Helmick Beavin e Gregory Bateson, diventando il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana, delle teorie del cambiamento, del costruttivismo radicale e della teoria breve fondata sulla modificazione delle idee con cui ci costruiamo la nostra “immagine” del mondo, spesso dissonante con la “realtà” del mondo.

Le tesi centrali che sono alla base del pensiero di Watzlawick sono: in primo luogo che la nevrosi, la psicosi e in generale le forme psicopatologiche non originano nell’individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui, in secondo luogo che è possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare che è la comunicazione a produrre le interazioni patologiche.

A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo soliti chiamare “follia”. Questa analisi, ben descritta in Pragmatica della comunicazione umana non si limita a un’interpretazione dei meccanismi interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono di intervenire nelle interazioni e di modificarle. “Paradossalmente” è proprio con l’iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la “prescrizione del sintomo” e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente inespugnabili.

Partendo da queste premesse Watzlawick intende la terapia non come “guarigione”, ma come “cambiamento” a cui ha dedicato Il linguaggio del cambiamento, Il codino del Barone di Münchhausen e, con Giorgio Nardone L’arte del cambiamento. Secondo Watzlawick sono distinguibili due realtà, una delle quali è supposta oggettiva ed esterna, e un’altra che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo. Ogni persona deve sintetizzare queste due realtà ed è questa sintesi che determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni dovute al fatto che il mondo della razionalità è controllato dall’emisfero cerebrale sinistro che ci consente di interpretare la realtà oggettiva in termini razionali secondo una logica metodologica. Ma questa è spesso in conflitto con l’attività dell’emisfero destro da cui nascono fantasie, sogni e idee che possono sembrare illogiche e assurde.

Il linguaggio della psicoterapia deve intervenire sull’emisfero destro perché in esso l’immagine del mondo è concepita ed espressa, e, mutandone la grammatica attraverso paradossi, spostamenti di sintomi, giochi verbali, prescrizioni, si determina il cambiamento dell’immagine del mondo che è alla base della sofferenza psichica.

La rivoluzione non è da poco, perché smentisce la persuasione comune secondo cui, a partire dalla nascita la realtà non può che essere “scoperta”. No, dice Watzlawick ne La realtà inventata. Il costruttivismo, che è alla base della sua concezione sostiene che ciò che noi chiamiamo realtà è un’interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l’esperienza. La realtà non verrebbe quindi “scoperta”, ma “inventata”.

Da queste invenzioni nascono “stili di vita” che rendono ciechi non solo gli individui, ma interi sistemi relazionali umani (famiglia, aziende, sistemi sociali e politici) nei confronti di possibilità alternative. Con molti esempi Watzlawick mostra nei suoi libri come attraverso una nuova formulazione di vecchie immagini del mondo possano sorgere nuove “realtà”. E così la psicologia incomincia a respirare.

Oggi a raccogliere questo respiro è la consulenza filosofica che spero annoveri presto Watzlawick tra i suoi precursori e, sulla sua traccia, approfondisca quella terapia delle idee che, inosservate dalla psicologia, sono spesso la causa delle sofferenze dell’anima.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 12/11/2012 23.17
Titolo:Da "la cultura non si mangia" a "la cultura si mangia eccome"!!!
Un dubbio manifesto: la cultura della Domenica

di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 09.03.2012)

Ci sarebbero molte ragioni per non prendere sul serio il manifesto «per una costituente della cultura» lanciato dal giornale di Confindustria: prima tra tutte «una determinata opacità, oscillante tra convenzionale deferenza per le competenze umanistiche e indifferenza o fatale estraneità al tema» (così, perfettamente, Michele Dantini sul “Manifesto”).

Tra gli stessi firmatari molti confessano (ovviamente in privato) di trovare il testo irrilevante («Me l’hanno chiesto, son cose che passano come acqua»), mentre altri raccontano di esser stati inclusi a loro insaputa, o addirittura dopo un diniego. Ma la solenne adesione dei ministri Passera, Profumo e Ornaghi e il successo che il “manifesto” sta riscuotendo nel paese più conformista del mondo, significano che esso ha interpretato nel modo più rassicurante un’opinione diffusa. Al famoso “la cultura non si mangia” di Giulio Tremonti, il giornale di Confindustria oppone un discorso che vuol essere «strettamente economico»: “la cultura si mangia eccome”.

Niente di nuovo: è questo il dogma fondante del trentennale pensiero unico sul patrimonio culturale, per cui «le risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica» (Gianni De Michelis, 1985). Su questo dogma si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio storico e artistico della nazione italiana in una disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli.

È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi “capolavori” redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando un vasto precariato intellettuale.

È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali.

È in omaggio a questo dogma che la storia dell’arte è mutata da disciplina umanistica in “scienza dei beni culturali” (e infine in una sorta di escort intellettuale), e che le terze pagine dei quotidiani si sono convertite in inserzioni a pagamento. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico». Di tutto ciò il manifesto confindustriale non si occupa, preferendo affermare genericamente che «la cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo».

Naturalmente questo è vero, ed è giusto dire che anche dal punto di vista strettamente economico investire in cultura “paga”. Ma il pericolo principale di questa stagione è la debolezza dello Stato e la voracità con cui i privati declinano la valorizzazione (leggi monetizzazione) del patrimonio. E che il manifesto del Sole non intenda per nulla smarcarsi da questa linea dominante, induce a crederlo il nome del primo firmatario, quell’Andrea Carandini che è un guru del rapporto pubblico-privato nei beni culturali, visto che è riuscito ad autoerogarsi fondi pubblici per restaurare il castello di famiglia chiuso al pubblico.

Né tranquillizza il fatto che il “manifesto” fosse accompagnato da un articolo di fondo del sottosegretario Roberto Cecchi, artefice del più smaccato trionfo degli interessi privati in seno al Mibac (dal caso clamoroso del finto Michelangelo alla svendita del Colosseo a Diego della Valle). Induce, infine, a più di un dubbio la sede stessa in cui il “manifesto” è comparso, quel Domenicale che da anni pratica (almeno nelle pagine di storia dell’arte) un elegante cedimento delle ragioni culturali a quelle economiche, con lo sdoganamento di “eventi” impresentabili e di “scoperte” improbabili.

Un meccanismo approdato a una filiera completa: 24 Ore Cultura produce le mostre (per esempio l’ennesima su Artemisia Gentileschi), Motta (dello stesso gruppo) ne stampa i cataloghi, il «Domenicale» le vende con una pubblicità martellante. Dopo il pirotecnico lancio iniziale, il «Domenicale» ha dedicato ad Artemisia altre quattro pagine, con foto di Piero Chiambretti che visita la mostra e con l’immancabile sfruttamento intensivo della condizione femminile di Artemisia (stupro incluso). Così, una mostra mediocre che si apre con la commercialissima trovata di un letto sfatto che si tinge del rosso della verginità violata di Artemisia si trova a essere la mostra più pompata della storia italiana recente.

È forse pensando a questo tipo di esiti che il “manifesto” consiglia l’«acquisizione di pratiche creative, e non solo lo studio della storia dell’arte»? Più che un programma per il futuro, la santificazione del presente. La risposta vera a quanti affermano che la “cultura non si mangia” è, innanzitutto, che «non di solo pane vive l’uomo»: la nostra civiltà non si è mai basata solo su un «discorso strettamente economico», e la cultura è una delle pochissime possibilità di orientare le nostre vite fuori del dominio del mercato e del denaro. Il punto non è «niente cultura, niente sviluppo», ma: lo sviluppo non ci servirà a nulla, se non rimaniamo esseri umani. Perché è a questo che serve la cultura.

Sarebbe stato assai meglio se, invece del fumoso e conformista “manifesto” confindustriale, gli intellettuali italiani avessero sottoscritto una dichiarazione antiretorica e pragmatica come quella pronunciata, qualche anno fa, da uno dei massimi storici dell’arte del Novecento, Ernst Gombrich: «Se crediamo in un’istruzione per l’umanità, allora dobbiamo rivedere le nostre priorità e occuparci di quei giovani che, oltre a giovarsene personalmente, possono far progredire le discipline umanistiche e le scienze, le quali dovranno vivere più a lungo di noi se vogliamo che la nostra civiltà si tramandi. Sarebbe pura follia dare per scontata una cosa simile. Si sa che le civiltà muoiono.

Coloro che tengono i cordoni della borsa amano ripetere che “chi paga il pifferaio sceglie la musica”. Non dimentichiamo che in una società tutta volta alla tecnica non c’è posto per i pifferai, e che quando chiederanno musica si scontreranno con un silenzio ottuso. E se i pifferai spariscono, può darsi che non li risentiremo mai».
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 14/11/2012 10.12
Titolo:BENI CULTURALI E PRECARIATO. STRADA SENZA USCITA
Strada senza uscita
Data di pubblicazione: 05.11.2012

Autore: De Felice, Giuliano

Continua la discussione sul precariato nei beni culturali: una critica – dall’interno – delle responsabilità del mondo accademico. Scritto per eddyburg, 5 novembre 2012 (m.p.g.) *

"Le lauree in beni culturali e in archeologia aprono sbocchi nella ricerca, valorizzazione e tutela presso Enti di ricerca, istituzioni pubbliche e private (enti locali, soprintendenze, musei, biblioteche, archivi, ecc.) nonché presso aziende ed imprese operanti nel settore ...".

Queste parole potrebbero essere prese dal sito di un qualunque ateneo italiano, sezione corsi di laurea, paragrafo sbocchi professionali.

E suonano come una crudele presa in giro. Credo infatti che sia ormai evidente a tutti (e non da poco tempo) che nessun ente di ricerca e nessuna istituzione pubblica potrà mai assumere le migliaia di laureati in beni culturali sfornati annualmente dalle Università italiane; non parliamo nemmeno di aziende e imprese, che non hanno molto interesse a investire in un settore che non promette grandi prospettive di business e in cui la litigiosità fra gli attori è spesso paralizzante.

Eppure ci si continua a meravigliare della contrazione del numero degli iscritti nei corsi universitari, chiamando in causa di volta in volta declinazioni bizzarre e pericolanti del più classico degli o tempora o mores:

"colpa delle giovani generazioni, sono ignoranti", "in Italia non c'è interesse per la cultura", "viviamo un momento di imbarbarimento dei tempi".

Spesso avallate da un forte sentimento antimodernista e antitecnologico: "ormai non legge più nessuno", "i ragazzi giocano sempre con il telefonino", ecc. ecc.

Al di là di questi facili pretesti, buoni solo ad autoconvincersi dell’imminente fine del mondo, esistono in realtà cause ben più serie che minano alla radice un possibile, vero sviluppo del settore dei beni culturali.

Fra queste va sicuramente additato il disinteresse della formazione universitaria umanistica verso il mondo del lavoro.

Che lo sbocco professionale dei propri laureati non sia esattamente il primo pensiero delle facoltà umanistiche è cosa nota. La situazione negli ultimi dieci anni si è ulteriormente aggravata con l'istituzione dei corsi di laurea in beni culturali e affini, che, ben più della contemporanea e famigerata riforma del 3+2, hanno costituito un'occasione persa.

Quel che ha reso disastrosa questa prospettiva, che pure si presentava potenzialmente molto positiva è stata la mancanza di una riforma contestuale del mercato del lavoro e di un impulso deciso verso la creazione di nuove professioni, considerato che veniva meno anche la 'comoda' rete di protezione dell'insegnamento scolastico che storicamente assorbiva (o perlomeno ci provava) i laureati in Lettere che non riuscivano a trovare una occupazione più in linea con i propri studi (archeologi, storici dell'arte, ecc.).

Si sarebbero potute fare cose straordinarie in questi dieci anni, ma non si è nemmeno riusciti ad aggiornare i siti web. Tutti eravamo impegnati in battaglie di civiltà e a difendere il diritto allo studio, e abbiamo colpevolmente trascurato il dovere di pensare al lavoro.

Oggi che vengono al pettine questi nodi atavici (e gordiani!) ci lamentiamo del precariato che uccide la passione, e dei tanti giovani che non ottengono un riconoscimento professionale consono con i loro studi. Ma trascuriamo di indagare più nel profondo, chiedendoci, ad esempio, quanto le nostre ricerche e i nostri insegnamenti siano professionalizzanti e quanto invece siano frutto della totale autoreferenzialità del mondo accademico.

- Siamo infatti noi ricercatori a decidere che ricerche fare e come usare le risorse; poi, se nessuno ci vuole finanziare, è perché il mondo è cattivo e nessuno capisce nulla (all’infuori di noi ...).

- Siamo sempre noi a decidere, di conseguenza, che cosa insegnare, e se gli studenti non capiscono l'importanza dei nostri corsi ... (vedi punto precedente)

- Di conseguenza se i nostri studenti sono bravissimi ma imparano cose che non serviranno mai, questo è colpa del mondo che, ancora una volta è cattivo, e pieno di gente che non capisce nulla, ecc. ecc.

- Idem se i nostri collaboratori se ne vanno a tentare mestieri altrove;

- E lo stesso se nessuno si iscrive più ai corsi di studio;

- E ancora lo stesso motivo se non esistono programmi di finanziamento in cui è possibile candidare una nostra ricerca.

Per un istante proviamo anche noi, ricercatori e docenti, a pensare alle nostre responsabilità e alle colpe di una formazione che non porta all’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro ma solo ad una specializzazione estrema nella ricerca.

Specializzazione che non ha alcun esito se non quello di proporre una perpetuazione infinita di un meccanismo insostenibile di creazione di nuova ricerca (a sua volta fine a se stessa ...)

Sarebbe ora di smetterla con l'autocelebrazione della ricerca 
e con la conseguente immancabile commiserazione del volontariato e del precariato, termini di una triste liturgia che noi stessi abbiamo contribuito a costruire e imporre, 
con la didattica inutile
 e con la ricerca inutile, ma soprattutto rifugiandoci nella aulica impenetrabilità del nostro mondo.

Sarebbe di contro molto utile pensare al placement dei nostri laureati, e iniziare a lavorare per proporre una visione dei beni culturali che non sia più solo protezionistica ed erudita.

Nessun governo infatti darà mai le risorse per assumere diecimila ricercatori o cinquemila archivisti o mille ispettori di soprintendenza. Perché nessuno avrà mai le risorse per pagare un costo così alto.

Oggi infatti i beni culturali sono solo un costo. Dalla formazione al (poco) lavoro è un settore che produce, per la collettività, solo ed esclusivamente oneri, e, ed è la cosa più grave, non è in grado di immaginare un futuro diverso.

E' evidente invece la necessità di una mentalità nuova, e di un nuovo modello per l’utilizzo delle risorse (compreso il tempo) di tutti ed in particolare dei ricercatori e dei docenti universitari, che partecipano da protagonisti alla fase delicata di creazione (e demolizione) di prospettive e speranze.

Il ritardo è enorme. Senza indugio si deve costruire una nuova formazione nel settore, immaginare e realizzare scenari nuovi di impiego delle competenze dei nostri laureati, che non siano quelli, avvilenti, che tutti conosciamo. Prospettive nuove che diano finalmente impulso a un'industria: innovativa, creativa, tecnologicamente avanzata, che assorba e richieda lavoro competente e specializzato (che non è certo la sorveglianza archeologica ...).

Che spinga i nostri laureati a diventare dei professionisti, come fanno i loro colleghi, avvocati, ingegneri, architetti, medici e anche, più recentemente, insegnanti e professori di scuola ...

-- Il testo costituisce una rielaborazione di un post presente su Passato e futuro (www.passatoefuturo.com), un blog nato nell’ottobre 2012 per iniziativa di Giuliano De Felice, ricercatore in archeologia presso l’Università degli Studi di Foggia. I temi che affronta sono legati alla convinzione che uno sviluppo nel settore dei Beni Culturali in Italia sarà possibile solo all’interno di uno scenario completamente nuovo, in cui tutti gli attori imparino a ragionare in maniera condivisa e costruttiva, contribuendo ad una crescita che risulti sostenibile e misurabile in termini di ricchezza e occupazione. In Passato e Futuro riflessioni, proposte e denunce... e un pizzico di ironia.


* EDDYBURG, Data di pubblicazione: 05.11.2012

- http://eddyburg.it/article/articleview/19622/0/150/
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 15/11/2012 17.24
Titolo:Contestati i ministri Ornaghi, Barca e Profumo...
Napolitano: 'Non possiamo giocare con il rischio fallimento'
Applausi per Capo Stato a Stati Generali Cultura Contestati i ministri Ornaghi, Barca e Profumo

ANSA 15 novembre 2012, 16:36



ROMA - "Non possiamo giocare" con il rischio fallimento "qualunque governo ci sia". Lo dice Giorgio Napolitano sottolineando che "ci sono 80 miliardi di interessi da pagare in un anno" e "questi sono i modi in cui uno Stato può fallire".

"Bisogna cercare di far emergere una scala di interventi pubblici" e "che non ci si debba arrendere a rigidi formalismi" nei tagli "cosiddetti lineari", aggiunge Napolitano sottolineando che "bisognerebbe far salva una logica di investimenti per una ripresa del paese".

Dopo le contestazioni ai ministri gli applausi per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano agli Stati generali della Cultura in corso al Teatro Eliseo di Roma. Napolitano è stato accolto da applausi al suo arrivo. Applausi che stanno accompagnando anche il suo discorso, ancora in corso.

LE CONTESTAZIONI AI MINISTRI - "Ministro Ornaghi lei parla come un economista perche non parla di cultura? Noi siamo allarmati non ne possiamo più di sentire parole!". Si è animata con una rumorosa contestazione la tavola rotonda degli stati generali della cultura con Napolitano. Il ministro aveva appena cominciato a parlare quando dalla platea si sono alzate voci e contestazioni continuate anche quando a prendere la parola è stata la presidente del Fai Ilaria Buitoni.

Ma contestazioni ci sono state per tutti i ministri agli stati generali della cultura. Dopo Ornaghi sono stati interrotti anche il ministro Fabrizio Barca e il ministro Francesco Profumo: "Ieri sono stati picchiati adolescenti e nessun ministro ha detto niente!". Poi, mentre Profumo parlava della necessità di dare più certezze alla formazione e alla ricerca, anche l'urlo di un'altra ragazza: "voglio sapere del mio presente! Sono preoccupata ora!! Signor ministro voi intanto date soldi alla scuola privata!". Contestazioni anche "perché c'é tavola rotonda chiusa e senza dibattito", ha urlato qualcuno dalla platea mentre il ministro Barca interveniva: "questa platea sembra il Sulcis"
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/11/2012 09.28
Titolo:Ornaghi sale sul palco per dire “meno Stato e più privati” ...
Gli Stati generali della retorica

di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2012)

I ripetuti, forti e argomentati “vergogna!” che giovedì hanno clamorosamente cambiato l’agenda dei cosiddetti ‘Stati generali della cultura’ sono l’unico risultato concreto (ma imprevisto e imbarazzante) della retorica sulla ‘costituente della cultura’ che il Sole 24 Ore alimenta ossessivamente da nove mesi. Ma la montagna ha partorito un topolino interessante.

Il parterre schierato sul palco del teatro romano ‘Eliseo’ rappresentava in modo impeccabile l’ossificazione mortuaria della cultura italiana. E come si può chiedere di indicare nuove prospettive a chi ha imbottigliato la cultura italiana in una strada senza uscita?

Fa piacere sentire Giuliano Amato che riscopre l’articolo 9 della Costituzione: ma come non ricordare che l’ormai permanente blocco indiscriminato delle assunzioni dei giovani ricercatori italiani o dei soprintendenti fu inventato proprio da lui? E il danno è stato molto più grave dei pochi benefici ottenuti risparmiando su quei comparti strategici. Che il ministero per i Beni culturali sia “un morente ibernato” è verissimo: ma come non stupirsi che a dirlo sia uno dei congelatori, quell’Andrea Carandini che si precipitò a presiederne il Consiglio superiore quando Salvatore Settis sbatté la porta a causa del maxi-taglio da un miliardo e 300 milioni di euro disposto da Tremonti e subìto da Sandro Bondi?

E non parliamo dei ministri in carica: Lorenzo Ornaghi sale sul palco per dire “meno Stato e più privati”. Niente male per un ministro della Repubblica che dovrebbe invece difendere la dignità e i finanziamenti del sistema di tutela (un tempo) migliore del mondo. E quando un ragazzo gli urla: “Lei parla come un economista, non come un ministro della cultura”, il malcapitato ex rettore della Cattolica mormora che “non si può dire che questo governo non abbia fatto nulla per i beni culturali”. E invece è proprio così, tanto che Ornaghi non riesce a fare un solo esempio concreto.

Che il vento sia bruscamente cambiato se n’è reso conto il direttore del Sole, che nell’editoriale di ieri ha abbandonato la retorica vetero-craxiana sulla cultura come giacimento economico da cui estrarre reddito, e ha parlato della priorità della tutela del patrimonio, finalmente indicandolo come un valore in sé, e non come l’ennesimo strumento del mercato.

In tutto questo, l’affondo del capo dello Stato è apparso provvidenzialmente fuori degli schemi: in tempi di crisi si devono dire molti no, “ma alla cultura bisogna dire molti sì”. Certo, uno si chiede perché Napolitano abbia controfirmato la nomina a ministro dei Beni culturali dell’unico ministro non tecnico del governo Monti: nomina che è stata un vero segnale di disprezzo per la cultura. Ma non è mai troppo tardi, e la frustata presidenziale al governo e all’establishment culturale ha fatto capire che è finito il tempo in cui la pomposa definizione di ‘Stati generali’ può designare un teatrino in cui i responsabili dello sfascio si parlano addosso commentando lo sfascio medesimo. Se non altro di questo siamo gratissimi al Sole 24 Ore.

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