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www.ildialogo.org IL CIRCOLO VIZIOSO DEL PERCORSO DI PIETRO BARCELLONA: DAL CATTOLICESIMO MARXISTA A CATTOLICESIMO RATZINGERIANO. Come è diventato un altro restando se stesso. Una sua nota - con appunti,a c. di Federico La Sala

L’ITALIA, GLI INTELLETTUALI, E IL GIOCO DELLE "TRE CARTE": COSTITUZIONE, CRISTIANESIMO, E CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
IL CIRCOLO VIZIOSO DEL PERCORSO DI PIETRO BARCELLONA: DAL CATTOLICESIMO MARXISTA A CATTOLICESIMO RATZINGERIANO. Come è diventato un altro restando se stesso. Una sua nota - con appunti

Come ha scritto egregiamente Massimo Cacciari nel volume Ama il prossimo tuo, il samaritano del Vangelo non è un altruista ma uno che sente nella ferita dell’altro la propria ferita, un uomo che cura l’altro per curare se stesso.


a c. di Federico La Sala

Sul tema, per approfondimenti, si cfr.:

ALL’OMBRA DELL’UOMO DELLA PROVVIDENZA: 2002-2012, DIECI ANNI DI FILOSOFIA AL "SAN RAFFAELE". Un "avviso a pagamento" di Massimo Cacciari, Edoardo Boncinelli, Elena Loewenthal, Alberto Martinelli, Angelo Panebianco, Giovanni Reale, Marco Santambrogio, Emanuele Severino, Vincenzo Vitiello

PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA
-  KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI.

A TODI, AL FORUM DELLE ASSOCIAZIONI CATTOLICHE. Una memoria

KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI"). (Federico La Sala)

 


 

Come sono diventato cristiano

di Pietro Barcellona (l’Unità, 4 agosto 2012)

In tutti i profili che mi riguardano su internet o in altri contesti, come ad esempio nelle recensioni ai miei libri, vengo sistematicamente definito come «un ateo marxista convertito al cristianesimo».

Nei termini in cui questa sorta di definizione della storia intellettuale di una persona si risolve in una mera notizia essa non è solo falsa ma è anche strumentale ad una sorta di doppia censura: da parte dei giornali laici, perché le mie posizioni appaiono viziate da una grave contaminazione religiosa, e da parte del mondo cattolico perché esse risulterebbero inaffidabili e tendenzialmente fuori da ogni linea ecclesiale.

Poiché continuo a collocarmi idealmente in quell’area della sinistra che persiste tenacemente nella critica al capitalismo come forma totalizzante di vita e che allo stesso tempo considera indispensabile a una profonda revisione delle nostre categorie interpretative il rapporto con la trascendenza, vorrei provare a rendere esplicito il mio percorso per una ragione di chiarezza e di rispetto verso tutti coloro ai quali mi sono rivolto nei miei scritti e nei miei libri.

Io non mi sono convertito l’altro ieri per effetto di un’improvvisa illuminazione ma ho vissuto in tutta la mia vita un percorso tormentato di ricerca oltre ciò che di volta in volta è sembrata l’ultima spiegazione possibile del nostro stare al mondo. Il filo costante della mia ricerca sono stati la critica del presente e il rifiuto di un mondo che non mi è sembrato mai il migliore dei mondi possibili. La mia riflessione politica si è sempre perciò intrecciata con la riflessione filosofico-religiosa.

A diciotto anni, studente dei salesiani, presentai un programma autonomo che comprendeva il concetto dell’angoscia di Kierkegaard (Scuola di Cristianesimo) e La fenomenologia dello Spirito di Hegel. Era la mia prima ribellione al conformismo del programma ufficiale. Qualche anno dopo, ai tempi dell’università, incontrai un giovane agitatore comunista, venuto in Sicilia su incarico del partito, e divenni subito suo amico e compagno di pensieri.

Il mio bisogno di rivolta contro uno stato di cose ripugnanti trovò in un libro suggeritomi dall’amico torinese il punto più significativo per dare ordine ai miei pensieri confusi. Si trattava del libro di Concetto Marchesi in cui l’autore spiegava le ragioni del suo esser comunista con l’insopportabile visione dei giovani braccianti che tornavano malati di malaria dal lago di Lentini con una borsetta di pane e una bottiglia di vino.

La cosa che mi colpì fu che Marchesi non era propenso ad un atteggiamento di altruismo caritatevole ma colpito nella sua stessa persona come se questa fosse offesa nella propria dignità dalla condizione subumana dei braccianti di Lentini.

Da allora cominciai a cercare le ragioni del mio spirito di scissione rispetto ad una società omologata sul conformismo piccolo borghese che considerava l’ingiustizia un puro accidente naturale al quale dedicare qualche rimedio compensativo.

IL PROBLEMA DI CHI SUBISCE VIOLENZA

Già in quegli anni era per me invece diventato centrale il problema del dolore di chi subisce la violenza dell’emarginazione e che viene implicitamente condannato ad occupare sempre l’ultimo gradino della scala sociale. Una rabbia cresceva dentro di me che non riguardava soltanto una generica vocazione alla generosità verso i più deboli ma la consapevolezza di una ferita interiore che toccava la mia stessa identità di meridionale.

Come ha scritto egregiamente Massimo Cacciari nel volume Ama il prossimo tuo, il samaritano del Vangelo non è un altruista ma uno che sente nella ferita dell’altro la propria ferita, un uomo che cura l’altro per curare se stesso.

Per questo ho scritto in anni ormai lontani L’egoismo maturo e la follia del capitale, perché ciò che mi colpiva dell’egemonia capitalistica sulla vita quotidiana era la folle pretesa di ridurre l’uomo ad una pura dimensione economica. L’alienazione di cui avevo appreso con Marx la straordinaria manifestazione nel feticismo delle merci e del denaro mi è apparsa subito un furto dell’anima e ho visto nell’espropriazione della libertà interiore la ragione più profonda della passività delle masse, specialmente meridionali.

Sin da allora ho contaminato la mia molto dilettantesca conoscenza del marxismo con l’apporto della psicoanalisi come antidoto a una pura accettazione del presente dominato da un conformismo senza alcuno spirito critico che produceva passività e adattamento nelle masse meridionali.

In quegli anni l’incontro con Ingrao è stato decisivo perché ha allargato il mio orizzonte oltre la triste banalità delle spiegazioni economicistiche. La critica dell’economicismo che ho sviluppato in tutti i miei scritti ha sostanzialmente messo in discussione uno dei punti che allora sembravano indiscutibili della vulgata marxista: la distinzione fra struttura e sovrastruttura.

Mi sono convinto che restare nella trappola della gestione economica del capitalismo impedisce ogni vero trascendimento dello stato di cose presenti. Il codice del capitalismo è quello dell’egoismo competitivo e dell’individualismo esasperato e, seguendo questa via, si resta fatalmente prigionieri di una logica calcolistica e contabile.

L’impatto traumatico con la crisi dell’ ’89 ha sconvolto la mia esistenza fino a provocarmi una depressione grave che ho affrontato con una lunga psicoanalisi. Mi sono convinto attraverso questa dolorosa esperienza che nell’idea di comunismo che avevo perseguito si manifestava un delirio di onnipotenza (Democrazia e tecnocrazia, Editori Riuniti) in cui una sorta di esplosione megalomanica tendeva ad impedire l’emersione di ogni punto di vista diverso. Era il tema dell’ortodossia assoluta che cominciavo a vedere come il vero nemico del pensiero.

Ciò che mi appariva chiaro era che finché l’uomo pretende di spiegare con i propri saperi tutto ciò che riguarda le condotte umane finisce col negare ciò che di specificamente umano la nostra condizione mortale esprime: il bisogno di trascendere l’orizzonte dentro il quale ci troviamo ad agire per riscoprire una presenza ulteriore rispetto all’azione degli uomini. Mi servirono in quegli anni le riflessioni di Ernesto de Martino che intuiva come nella tendenza al trascendimento ci fosse qualcosa in più di una pura istintività naturale.

Approfondendo questo tema sono stato costretto a chiarire i rapporti fra teologia e politica, e tra il messianesimo e la speranza di una società di uomini liberi. Condivido la riflessione di Massimo Cacciari e quella di Mario Tronti dove si afferma con chiarezza che non può esserci spazio ulteriore per un pensiero teologico-politico senza affrontare il tema della trascendenza.

Dopo il crollo del Muro di Berlino mi sono sentito fisicamente assediato dal non senso dell’esistenza. Perché non uccidere, non sfruttare, non seviziare, non torturare un altro uomo che ostacola comunque i tuoi desideri di godimento se non c’è una ragione ulteriore che istituisce il criterio per distinguere in qualche modo ciò che si può fare da ciò che non si può fare?

Nel proseguire questa riflessione di ricerca ho scritto dei libri molto trasparenti nelle intenzioni e che segnano un processo orientato verso un traguardo, ma mai concluso in un’asserzione definitiva. La critica della ragione laica e la lezione magistrale svolta per il compleanno di Ingrao sul tema dell’epoca del postumano, erano già espressamente indicativi di una ricerca che tendeva a mettere in campo la questione della trascendenza. Veniva ripresa fra l’altro tutta la riflessione della Kristeva sull’assoluta novità di un dio sofferente che si pone come percorso doloroso per raggiungere una salvezza effettivamente trasformativa della condizione umana.

Le pagine della Kristeva sul Cristo sofferente mi hanno coinvolto e commosso. La mia non è una conversione quindi, ma un processo lungo, aperto e tormentato. In questo processo mi è apparsa la possibilità di sentire la presenza fuori di te di qualcosa che ti sollecita soltanto a seguire un esempio di amore, nel quale l’alterità non è lo specchio illuministico dell’Io ma la pura condivisione di un’esperienza che si realizza principalmente sul piano dell’esistenza concreta e non su quello intellettualistico della razionalità.

Mi veniva davanti agli occhi un Cristo pasoliniano, intriso di passioni umane, proporre un modello di vita fondato essenzialmente sulla identificazione con il prossimo sofferente. Nella lettura dei Vangeli che ho cercato di fare, Gesù Cristo mi è parso sempre come un interlocutore umano che si limitava a proporre un modello di identificazione con gli ultimi emarginati ed esclusi. Nella mia esperienza ho potuto verificare cosa significhi sul piano esistenziale l’identificazione con un’altra persona, il farla diventare una parte di te e prenderti cura di lei come ti prendi cura di te stesso.

L’identificazione non è una pura imitazione di un modello ma un’integrazione della propria persona con le parti doloranti che sono state prima riconosciute nell’altro.Per questo io oggi sono convinto che ciò che Cristo rappresenta nella storia del rapporto fra l’umano e il divino sia uno spartiacque della nostra visione del mondo. Ma il Cristo da cui io mi sento attratto e affascinato non è quello delle gerarchie e della precettistica, ma quello molto più rischioso di cercare di riviverne la presenza in ogni incontro con chi soffre la disperazione della delusione affettiva e del dolore della solitudine.

In questi termini non so se sia proprio corretto definire il mio status come quello di un «convertito» che si è definitivamente acquietato. Sono sicuramente un cristiano che nella temperie del presente è convinto che solo il discorso di Cristo si può opporre al nichilismo biologico dello scientismo che cerca di cancellare ogni specificità della condizione umana. Penso con assoluta convinzione che la via della salvezza e la fuoriuscita dal pensiero unico dell’economia dominante possono realizzarsi soltanto restituendo all’uomo la sua vocazione divina. Non per farne l’arrogante e presuntuoso sostituto di Dio ma l’interlocutore privilegiato di una vicenda enigmatica come resta sempre quella della salvezza rispetto all’inevitabile «morte del sole» che nessun sapere può riuscire mai a spiegare.



Sabato 04 Agosto,2012 Ore: 12:35
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 05/8/2012 16.17
Titolo:ASCOLTARE IL PAPA. ...
- Sul quotidiano dei vescovi "Avvenire" il documento di quattro intellettuali di formazione marxista:
- Barcellona, Sorbi, Tronti e Vacca

- "Laicità e relativismo, Bersani ascolti il Papa" *

TODI - La sinistra collabori con la Chiesa, nell’interesse dell’Italia. L’invito a farlo proviene da quattro noti intellettuali di formazione marxista, ed è partito ieri con una lettera aperta pubblicata sul quotidiano dei vescovi Avvenire. Il documento è firmato da Paolo Sorbi, Pietro Barcellona, Mario Tronti e Giuseppe Vacca. Il titolo scelto, con le foto dei quattro studiosi, è "Nuova alleanza per l’emergenza antropologica".

Sorbi, Barcellona, Tronti e Vacca esortano il Pd, e il suo segretario Pierluigi Bersani, a fare i conti con l’insegnamento di Benedetto XVI sulla insopprimibile dignità della vita umana e sul primato della persona, «cercando di andare oltre tutti gli steccati». «La definizione della nuova laicità - spiegano - e l’assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell’Italia, esigono uno sviluppo dell’iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell’interesse del Paese». Annota Sorbi sul quotidiano della Cei, alla vigilia dell’incontro di Todi, che «il rischio incombente per un centrosinistra rassegnato a seguire derive radicali è di non riuscire a elaborare una cultura di governo all’altezza delle gigantesche sfide del nostro tempo». (m.ans.)

* la Repubblica, 17.10.2011
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 17/8/2012 11.45
Titolo:PUBBLICITA' PER LA TRASCENDENZA DELLA CITTA' DEL VATICANO....
SE L' EUROPA SENZA DIO CI CONSEGNA AI TECNICI


DI PIETRO BARCELLONA *


Nonostante ogni tanto si levi qualche voce di denuncia degli effetti devastanti che le attuali politiche economiche (sostenute dai governi europei e incoraggiate dalla cosiddetta troika e dagli economisti tedeschi) stanno producendo sul funzionamento effettivo della nostra democrazia, ho l’impressione che il pensiero dominante non lasci alcuno spazio alla pensabilità di alternative possibili.

Per fare qualche esempio basta citare gli editoriali di Galli della Loggia sul Corriere della Sera e quello di Guido Rossi sul Sole 24 Ore. Dalle politiche economiche adottate al livello della comunità viene sostanzialmente neutralizzata ogni opzione politica capace di caratterizzare il ruolo di un partito nazionale rispetto ai vincoli rigidamente imperativi che riguardano la questione del bilancio pubblico. Guido Rossi addirittura ipotizza il regresso ad una fase feudale in cui le gerarchie tecnocratiche impongono a tutti i cittadini europei le loro inderogabili direttive.

La sovranità popolare è messa fuori campo e le forze politiche trasformate in attori di una sceneggiata senza alcuna effettività pratica. È proprio ridicolo che la Germania rinfacci al presidente del Consiglio Monti di aver mostrato scarsa sensibilità democratica nei confronti dell’opinione pubblica tedesca alla quale il governo federale ritiene di dovere prestare il massimo ossequio contro le visioni tecnocratiche e autoritarie che sarebbero espresse nelle parole del presidente del Consiglio italiano.

In realtà il punto su cui occorre misurare la tenuta democratica dei Paesi dell’Eurozona non è certo la disputa fasulla tra Merkel che difende la democrazia e Monti che si affida alle tecnostrutture dell’economia europea e mondiale. Il punto vero è un altro ed è quello di come in questi ultimi anni il pensiero economico, che attribuisce ai “mercati” e alla contabilità nazionale il ruolo di unici interpreti del senso comune delle società europee, sia diventato dominante nella coscienza di tutti. Si è molto discusso del pensiero unico che attribuisce all’economia il ruolo centrale nella società globalizzata e ai mercati il ruolo di criterio ultimo cui affidare la misura di ogni scelta di governo. Tuttavia la forza di penetrazione del nuovo imperativo epocale di corrispondere alle esigenze dei “mercati” è in realtà fuori discussione anche nei critici delle attuali scelte economiche, giacché tutti sono accomunati dalla premessa secondo la quale se non si riesce a riacquistare la fiducia dei mercati la vera alternativa è la catastrofe come in Grecia.

Ora, è su questo pensiero unico che bisogna puntare la lente di ingrandimento per capire lo spirito del nostro presente che, come sempre, è la cartina di tornasole di come effettivamente si svolge la vita quotidiana degli uomini e delle donne.

Nel corso di questo mese ho avuto modo di leggere uno straordinario libro di un pensatore tedesco di origine ebraica, Eric Voegelin, che ha svolto una preziosa riflessione sulla nazificazione della Germania ai tempi di Hitler e che è riuscito a cogliere l’attualità drammatica di certi processi degenerativi anche nella realtà tedesca e occidentale del nostro tempo. Le lezioni di Voegelin sono del 1964 e hanno un’incredibile attualità se riferite a questo periodo della nostra storia. Voegelin sostiene che il processo di nazificazione accompagna l’ascesa di Hitler ma non ne è il prodotto, giacché riflette un lungo periodo di decadenza morale e intellettuale del popolo tedesco, caratterizzato da fenomeni che appaiono tuttora diffusi nella mentalità tedesca ed europea: la nazificazione del popolo tedesco avviene attraverso il progressivo abbandono di ogni coscienza morale e la progressiva disumanizzazione degli individui che compongono il popolo e la comunità.

Viene cioè affermandosi, secondo Voegelin, una progressiva deresponsabilizzazione e un’indifferenza politico-morale che spingono il popolo ad accettare passivamente tutto ciò che viene comunicato da fonti considerate autorevoli sulla base di una costante manipolazione propagandistica. La spersonalizzazione di ogni regola di condotta e la sua legittimazione in base ad una presunta autorità della fonte di comando destituiscono ogni spazio di libera decisione e ogni capacità critica. La manipolazione da parte del bombardamento sistematico di false informazioni, costruite al fine di creare una seconda realtà rispetto a quella effettiva, rende gli uomini − come dice testualmente Voegelin − dei veri e propri” idioti”.

Scrive De Benedetti nella prefazione: “ogni crimine oggi avviene per via amministrativa in nome di un management delle cose al quale non si può dire di no soltanto per una colpevole stupidità. Il pifferaio magico del nostro tempo conduce i topi nel fiume perché ha falsato un bilancio, ha imbrogliato una proiezione di mercato, ha frainteso gli umori del popolo, e però la maggior parte degli uomini non si trova di fronte una camicia bruna in stivaloni ma solo un capodipartimento qualificato come tecnico assolutamente competente. Si somministra il male e il danno ai più deboli in via democratica, si fa male con l’ordinaria amministrazione. Non c’è nessuna grandezza ma solo banalità dell’osservanza”. Voegelin definisce la situazione del senso comune popolare con il termine di buttermelcher, per indicare la diffusione dello spirito piccolo-borghese dell’ipocrisia sociale delle buone maniere come pedigree per un curriculum di inserimento nella società del consenso di massa e come rinuncia totale alla critica di quella che egli chiama la “seconda realtà” della finzione e della menzogna.

L’aspetto che trovo più interessante nella lezione di Voegelin è quanto questo processo di annichilimento della vita interiore del cittadino e dell’individuo sia accompagnato da un mutamento dell’orizzonte dei saperi, orientati sempre più verso una rappresentazione dell’individuo come mero prodotto della storia biologica e sociale. Una sorta di cultura del “neonaturalismo scientista” che abolisce totalmente il problema del significato della vita in rapporto a tutte le “verità che non siano empiricamente dimostrabili”: un’ottusa immanenza nella vita quotidiana che si risolve nella gestione dei propri interessi particolari senza alcun senso di responsabilità e senza alcuna capacità di mettere in discussione ciò che appare coperto dalla autorità del potere.

Voegelin è molto duro nel definire una società in preda ad una inconsapevole nazificazione come caratterizzata da masse di “idioti” − nel senso di uomini privi di ogni coscienza critica e morale − e di gruppi di “farabutti” attrezzati ad utilizzare la stupidità degli altri. Questo spirito opaco di acquiescenza penetra tutte le articolazioni della società: nelle facoltà di medicina si diffondono culture positivistiche ed eugenetiche che tendono a porsi il problema del miglior funzionamento dell’uomo come macchina produttiva; nelle facoltà di diritto si apprende l’arte del formalismo tecnico che nega ogni rilevanza al significato sostanziale degli interessi e dei valori in gioco; negli stili di vita di massa prevale il conformismo e il carrierismo, l’opportunismo e il trasformismo. Ogni essere umano non risponde più ad un’autorità trascendente ma soltanto ad un capoufficio o a un direttore di dipartimento.

Tutti gli opinionisti esaltano la moderazione e la pacificazione degli animi in vista di un benessere diventato oramai puro accesso ai consumi che simbolizzano gli status gerarchici della società. Secondo Voegelin questo enorme degrado, che si caratterizza per una totale disumanizzazione e per una incapacità di fare esperienza delle realtà profonde, dipende dalla negazione di ogni trascendenza capace di ricondurre l’essere umano alla domanda fondamentale della sua finitezza e del suo destino mortale. Certo, da quando è morto Dio non è più facile stabilire perché un uomo non possa torturare e uccidere un altro uomo. In realtà, in una visione come quella descritta da Voegelin ciò che è completamente negato è il valore della vita di ogni persona e, nonostante le continue affermazioni sulla dignità di un essere umano, non si riesce proprio a capire su quali basi possa essere fondata tale dignità fino a garantirla da ogni sopruso e da ogni manipolazione.

Per questa ragione sono convinto e ho scritto più volte che il problema della trascendenza non può essere ignorato da chi si pone il problema della convivenza democratica. Non possono essere assunte soltanto le regole e le procedure come garanzie di un rapporto umano tra gli appartenenti ad un gruppo o a una comunità. È necessario un principio fondamentale e condiviso che riguardi il valore della vita, il suo significato oltre le esperienze particolari. L’ondata fisicalista e l’offensiva delle neuroscienze, che tendono ad eliminare ogni significato profondo della vita umana, sono certamente produttive di disorientamento morale e di perdita di responsabilità verso la vita. Se l’uomo è un puro assemblaggio di molecole, prodotto da uno strano intreccio di caso e necessità, non si riesce proprio a capire in che modo io sono responsabile della mia vita e di quella degli altri. I segni di una disumanizzazione della vita collettiva vanno ben oltre il significato parossistico dell’egemonia del pensiero economico che riduce la contabilità umana a insiemi di numeri e di valori monetari.

Vorrei cominciare da una banalità: i figli della nostra epoca sono in grado di credere ai genitori, a queste coppie di uomini e donne che li mettono al mondo assumendosi la responsabilità di accoglierli per educarli a comprendere il significato della vita? Senza la responsabilità di persone concrete che si assumono il compito di trasformare un piccolo d’uomo in un essere socievole, non ci può essere alcuna “ santificazione” della vita. La santificazione della vita dovrebbe essere il perno su cui si costruisce l’insieme delle relazioni umane che danno vita a gruppi e popoli. Essa però non è fatta di norme giuridiche nè di imperativi religiosi ma dalla consapevolezza che il venire al mondo inaugura uno spazio nuovo per tutta l’umanità. Santificare la vita significa dare a un essere umano le condizioni per entrare in rapporto con gli altri fiduciosamente, per potere amare ed essere amato senza secondi fini. La santificazione della vita significa il rispetto del suo mistero, il porre un limite ragionevolmente argomentato contro tutto ciò che tende a trasformare la natura umana in un puro accidente programmabile secondo calcoli che non hanno nulla a che vedere col senso profondo del venire al mondo.

Una vita democratica che si pone come “seconda realtà immaginaria”, fatta di conteggi e di strategie astute, non pone neppure come problema la questione della difesa della vita umana.

*

Pietro Barcellona
Fonte: www.ilsussidiario.net
Link: http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2012/8/16/LETTURE-Se-l-Europa-senza-Dio-si-consegna-ai-tec...
16.08.2012
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 02/11/2012 18.26
Titolo:Verita (e Fede) incontrovertibile e democrazia cieca e zoppa ....
Ma la Verità ci salverà dal populismo?

di Pietro Barcellona (l’Unità, 02.11.2012)

SEBBENE I DIBATTITI FILOSOFICI SEMBRINO SITUARSI SU UN TERRENO LONTANO DALLA VITA QUOTIDIANA, i concetti che ne vengono fuori interferiscono notevolmente con la formazione del senso comune: la rilevanza politica delle teorie filosofiche è sempre più evidente, innanzitutto nella formazione del lessico della contemporaneità.

Ad esempio, l’attacco che Maurizio Ferraris da molti anni conduce contro il soggettivismo delle interpretazioni è diventato persino strumento politico per contrastare il populismo: alcuni opinionisti sostengono che l’oggettività impedisca la proliferazione di linguaggi falsi e demagogici, che dimostrerebbero la propria fallacia appena messi a confronto con la nudità dei fatti.

Per capire il significato del tentativo di affermare l’oggettività del mondo reale delle cose sulla soggettività ondivaga e ambigua degli interpreti, bisognerebbe per prima cosa metterne in rilievo la sostanziale infondatezza epistemologica.

Recentemente, in uno scritto polemico verso le tesi di Severino, Ferraris ha affermato che una «multa» è un fatto assolutamente indipendente da ogni interpretazione soggettiva; ma se si riflette su cosa rappresenti la parola multa nel linguaggio corrente, ci si accorge che non si tratta di un fatto che dispiega da se stesso le proprie conseguenze, ma, al contrario, di un fatto che assume un significato pratico soltanto se inscritto nelle fattispecie giuridicamente rilevanti. Il fatto puro della multa non esiste se non all’interno del discorso giuridico.

Basterebbe considerare con più attenzione gli studi di antropologia culturale per rendersi conto che non esistono fatti puri; anche eventi naturali come un’eruzione vulcanica o un terremoto diventano oggetti di comprensione umana e di comunicazione verbale soltanto attraverso il loro inserimento in universi simbolici che esprimono il livello della coscienza collettiva del gruppo rispetto alla natura e al mondo esterno. Il fulmine, che allo stato attuale del nostro sapere possiamo definire come una scarica elettrica che va dalle nuvole verso la terra, è stato per molti secoli vissuto come un segno dell’ira divina. Dal punto di vista epistemologico questa credenza non contraddice per nulla le attuali conclusioni del sapere scientifico che descrive il fenomeno in termini di scarica elettrica; in entrambi i casi, però, le parole adoperate per rappresentare il fatto sono espressive della configurazione del rapporto fra soggettività interpretante e realtà fenomenica.

Tutto ciò che rappresentiamo mentalmente con parole associate ad immagini ha un sostegno nella realtà materiale, biologica e fisica del mondo che ci circonda: indagare il rapporto tra questo sostegno materiale e lo sviluppo di rappresentazioni mentali, che attraverso le parole assegnano un significato alle cose, è un problema che interroga la nostra capacità di riflessione sui processi di pensiero e sul rapporto col mondo.

Al punto in cui siamo, nella vicenda millenaria dell’autorappresentazione degli esseri umani, dovremmo riconoscere che non esiste alcuna via diretta e immediata per avere accesso alle cose se non attraverso la mediazione del pensiero e del linguaggio, che non sono arbitrarie costruzioni determinate dalla capricciosità del parlante ma appartengono ad un contesto di uomini e donne, di soggetti e di oggetti che interagiscono in un rapporto di comunicazione oggettivata attraverso il discorso.

Ciascuno produce un mondo di significazioni e allo stesso tempo abita uno spazio di significati già istituiti che gli consentono di orientarsi praticamente nell’ambiente che lo circonda, motivandolo sia alle cosiddette azioni inconsapevoli e abituali sia alla ricerca di nuove parole e nuove significazioni; tale scarto tra oggettività e soggettività rende possibile configurare la libertà e la responsabilità di ciascuno rispetto al mondo a cui appartiene.

Alla luce di queste considerazioni si capisce il significato politico di tutti i tentativi di affermare il primato dell’oggettività dei fatti e delle cose del mondo sulla soggettività interpretante: solo un’assoluta oggettività dei processi che connettono i movimenti pratici e le operazioni mentali consentirebbe di affermare l’esistenza di una Verità che impedisce ogni arbitrarietà delle scelte e ogni significativo mutamento della visione del mondo.

L’oggettività della Verità, consegnata interamente al processo «naturale» di connessione fra le molecole che compongono il vivente, impedisce di ipotizzare uno spazio di libertà che produca una trasformazione dell’accadere non spiegabile meccanicisticamente. Ma se si abbandona il terreno di questa ideologia dell’oggettività, bisogna riconoscere che la conversazione umana non esprime certezza assoluta ma opinioni confrontabili; il regime della doxa è alla base della costruzione della polis e della forma democratica della convivenza. Al contrario il regime della Verità oggettiva non consente di dare alcun peso alle opinioni che, in quanto tali, sono fragili ed estemporanee.

Il tentativo di Ferraris di riformulare una teoria della Verità incontrovertibile risponde, dunque, all’esigenza politica di ridurre ogni spazio di discrezionalità e sottrae la decisione politica alla contestazione popolare. Viceversa, riconoscere l’inaccessibilità immediata alla Verità non esclude il riconoscimento di una trascendenza che si manifesta attraverso i limiti che incontriamo nella nostra esperienza quotidiana. Ci scontriamo continuamente con la dura realtà del mondo e con la fatica di vivere, per questo siamo spinti a cercare un senso che dia conto della nostra finitezza e mortalità. Il limite della soggettività e dell’ermeneutica impedisce, nel contesto storico in cui si vive, di cadere nell’onnipotenza nichilistica.

Come sosteneva Castoriadis, la democrazia deve essere un regime dell’autolimitazione, in cui l’interesse alla continuazione della specie umana impedisce di disporre del mondo in modo da pregiudicarne la disponibilità per le future generazioni. La democrazia delle opinioni non implica la babele delle lingue, ma il riconoscimento di un patrimonio comune che riguarda la memoria del passato e le speranze del futuro.

Già dal principio dell’autolimitazione della democrazia si possono ricavare regole che impediscono il dispiegarsi della selvatichezza egoistica che abita dentro ciascun essere umano. Per questo, come ha osservato Massimo Recalcati, il riconoscimento dell’inconscio come opacità del sapere di se stessi e del mondo è la garanzia che la democrazia non diventi delirio di onnipotenza.

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