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www.ildialogo.org IL SANGUE DELLE UVE,di Sebastiano Saglimbeni

IL SANGUE DELLE UVE

di Sebastiano Saglimbeni

Particolare di Bacco-Caravaggio“Il sangue delle uve” è il titolo che di recente ho dato ad una mia traduzione delle liriche e dei frammenti di Alceo, vissuto nel 630 a. C. Lo scrivo motivato dalla circostanza della famosissima fiera del vino che ogni anno si svolge in Verona dove approdano tanti produttori del nostro Paese per esporre e divulgare il loro prodotto. Ne ho conosciuto alcuni che nutro nel mio intimo per la loro finezza e fierezza. Il vino che trovo definirlo il sangue delle uve lo leggiamo nella Genesi. Dopo il diluvio universale, Dio donò la pianta della vite a Noè perché la coltivasse e la facesse produrre. Alceo inneggia al vino ottimo, che va bevuto in abbondanza come terapia, per offuscare quegli eccessi grevi del suo passato tempestoso e dell’inverno uggioso, sinonimo di vecchiaia. In un suo frammento, il vino va bevuto, sino a ubriacarci perché è morto il tiranno Mirsilo. Dobbiamo berlo quando muoiono i tiranni contemporanei? Per Anacreonte, vissuto nel 570 a. C., il vino serve per un’orgia, ma senza esagerare va sorseggiato fra dolci musiche di inni. Pure oggi così. Per Teocrito, nato a Siracusa nel 310 a. C., il vino serve per stimolare la verità. Egli invita un fanciullo a bere e a dire la verità. “Nel vino verità”, caro fanciullo, si dice, “ e noi/ bisogna che ubriacandoci siamo sinceri:/ ti rivelerò cose nascoste nel mio intimo”. Prima di questi poeti, Omero, secondo la tradizione, autore dei due poemi, l’Iliade e l’Odissea, capolavori in ore omnium, aveva cantato il vino. Il poeta della latinità Lucrezio Caro osserva, nel suo poema De rerum natura, come la mente e il corpo umani possono gravemente ammalarsi a causa della sconvolgente forza del vino; denuncia la violenza alla quale ricorre l’uomo avvinazzato. Di una altezza poetica si leggono gli esametri che Virgilio dedicò al vino nelle Bucoliche, nelle Georgiche e nell’Eneide. Nella V bucolica, ad esempio, canta un genere di vite, quella tuttora coltivata nelle terre mantovane, la lambrusca. Ed osserva, nei successivi esametri, che la vite è ornamento agli alberi e i grappoli alla vite. Nelle Georgiche si occupa a lungo della coltivazione della vite, di come vada delicatamente curata, delle terre adatte ad ospitarla e del tipo di uva. Ma è nell’Eneide il vero vino densamente cantato da Virgilio. Orazio, che tra i poeti della latinità, rimane il più formidabile cantore di vini, in una delle sue odi invita Mecenate nella sua casa frugale, dove ha conservato un bariletto di vino dolce, e lo esorta a lasciare la ricchezza generatrice di molti fastidi e la città del lusso e del fumo, in luogo di un povero focolare. Nel Satiricon di Petronio Arbiter, il protagonista del romanzo, Trimalcione, vuole per i suoi invitati un vino antichissimo, il Falerno Opimiano, di cento anni (vinum centum annorum). Un vino che in effetti si produceva sotto il consolato di Opimiano (121 a. C.). Il vino continua ad avere ampia trattazione nella letteratura italiana, con gli autori Lorenzo de’ Medici, che nel testo poetico “ Il trionfo di Bacco e Arianna”, canta la vita giovanile e spensierata, Francesco Redi, famoso per il “Bacco in Toscana”, Giuseppe Parini, che nel poemetto Il Giorno, adorna la mensa del “giovin signore” con vini stranieri, spagnoli, francesi e con quello ungherese, il tokai. Tra i molteplici autori dell’Ottocento va menzionato un grande cantore, appassionato del vino quanto Orazio, che è il Carducci. Egli, quando venne accusato di ubriacone, si difese scrivendo che non è il vino che lo ubriaca, ma l’azzurro. Chi non ricorda i suoi versi del testo “San Martino”, dove si legge il vino appena ottenuto, dopo la pigiatura, dall’ “aspro odor”, chi non ricorda quegli altri del “Canto dell’amore”. Qui egli invita Pio IX a bere un bicchiere, in nome di un brindisi alla libertà. La trattazione del vino continua in altri poeti e scrittori del Novecento, come Verga, Pirandello, Vittorini e Pavese, cantore dei vigneti nelle Langhe piemontesi.

Perché questo quadro letterario come premessa? Per ricollegarci agli effetti che la scrittura può produrre sul mercato, attraverso la reclame. Si pensi a quante volte, infatti, un prodotto, specialmente quello vinicolo, viene encomiato con la citazione di un verso antico o di un canto goliardico. Spesso citato dai produttori di vino è il verso orazionao “nunc est bibendum” o quello virgiliano “in vino veritas”. Si pensi pure a quanti specifici trattati si occupano della descrizione, del vino, delle sue dosature, delle sue conseguenti qualità, delle terre dove oggi viene più coltivato. Mostre annuali internazionali sono dedicate al vino che si produce nelle terre della Val di Cembra, come il Müllier Turgau. A Verona, i vini più accreditati, senza scendere nei particolari delle preparazioni, in quanto compito degli enologi, sono il Soave, il Valpolicella e il Bardolino. Sono questi che generalmente trovano consumo, da alcuni anni a questa parte, nelle case, ma anche fuori, nelle superstiti osterie, nei ristoranti. Nei Caffè, un tempo il luogo dove si discuteva di varia cultura, tanti sono i giovani che si danno appuntamento per consumare il succo di uve, soprattutto nelle serate di fine settimana. Che stiano dentro ai locali o fuori, l’usanza di tenere il calice in mano sino a notte inoltrata è ormai per loro uno stile di vita. Non altrettanto consumo si nota nel sud d’Italia, nelle Puglie, nella Campania, in Calabria e in Sicilia, dove certe qualità di dolci o di altre bevande sottomettono il ricorso al vino classico. Eppure la produzione non delude, ma il vero mercato s’incrementa con la costosa esportazione, fuori da queste regioni. Da aggiungere che l’esodo delle emigrazioni, ad iniziare dagli anni Cinquanta, e l’invecchiamento dei contadini rimasti, ha fatto morire in tante aree collinari molti vigneti e uliveti, nati con il sudore e il sacrificio dei padri.

Va ricordata la parte che continua a fare la fiera veronese dal 1966 sino a quest’anno, intensificando l’economia regionale e quella di altre regioni e Paesi europei e mondiali. Molte le ditte che hanno chiesto le loro presenze, in grandi e piccoli stand, nella Fiera del Vinitaly. Certo non è oro tutto quello che luccica. Ma una cosa rimane certa: il mercato del vino di tanti Paesi, grazie alle esposizioni nella fiera scaligera, ha potuto, in qualche modo, trovare una sua identificazione.

E qui nel mio ricordo, come esempio, alcuni espositori nella fiera scaligera di quest’anno 2012. Sono Paolo Calì, che da anni mi comunica la sua instancabile passione di produttore e il suo orgoglio di siculo; la combattiva Giuseppina Ciofani dell’azienda Villagrisa; le persone di Centopassi, che è, recita una scrittura del pieghevole, “l’anima vitivinicola delle cooperative sociali che, sotto il segno di Libera Terra, coltivano le terre confiscate alla mafia in Sicilia”. I loro vini, meravigliosa memoria, sono dedicati a Pio La Torre, a Emanuele Basile e a Placido Rizzotto. Di quest’ultimo, in questi giorni, si sta parlando, dopo che sono state ritrovate le sue ossa in una foiba. Uomini di valore. Che la mafia uccise. Altre persone nel mio ricordo sono quelle dell’azienda vitivinicola Avide di Ragusa, il cui prodotto è antico e deve il suo nome a Vittoria Colonna Henriquez; Vincenzo Pennisi, di Passopisciaro, in provincia di Catania; Ludovico Maria Botti, del Lazio; Lucia Paladin, splendida e fervida di umori, che si qualifica General manager per quei suoi, e dei suoi fratelli Carlo e Roberto, luoghi di produzione in terra veneta e in terra toscana. Una sorella e due fratelli sono una storia. Un’attività di 50 anni, in nome della terra e di quella pianta che Dio diede a Noè. Queste presenze che, come esempio, ho mentovato e tante altre, produttrici di vino, dovrebbero tenere un diario o scrivere le proprie memorie. Verrebbero fuori singolari storie di lavoro, di orgoglio e di ansie tormentose. Io ammiro questa gente che ogni anno si muove orgogliosamente per alcuni giorni per essere, per esistere con il loro prodotto in mostra.

Negli anni della civiltà preindustriale nelle piccole comunità, il vino che si produceva riposava dentro le botti quando non v’erano compratori, complice la povertà, e i contadini osservavano con certa saggezza, come se avessero in mente il detto latino “non omne vinum vetustate coacescit (non tuto il vino, invecchiando, diventa aceto).  



Giovedì 29 Marzo,2012 Ore: 16:43
 
 
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