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www.ildialogo.org Le interviste ai protagonisti del dialogo: Paolo Naso,a cura di Giovanni Sarubbi

Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico
Le interviste ai protagonisti del dialogo: Paolo Naso

a cura di Giovanni Sarubbi

La quattordicesima giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamica è passata. Si avvicina la quindicesima. È tempo di bilanci per poter progettare il futuro. Vogliamo farlo realizzando una serie di interviste ad esponenti del mondo cristiano e musulmano che a questa giornata hanno partecipato. Vogliamo chiedere che idee hanno sul dialogo tra le religioni, qual è lo stato del dialogo nella propria religione, che futuro dare a questa iniziativa nata come contraltare alla teoria dello “scontro di civiltà”.
Cominciamo queste interviste con Paolo Naso, cristiano protestante, docente di Scienza politica alla Sapienza, direttore di vari programmi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia  e tra i primi firmatari dell'appello dal quale ha avuto origine la Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico nel 2001. Da qualche mese Naso è anche coordinatore del Consiglio per l'Islam italiano istituito preso il Ministero dell'Interno.
D. Innanzitutto che bilancio fai di questi 15 anni della giornata. E' ancora necessaria una giornata del dialogo cristiano-islamico?
R. Il bilancio è nettamente positivo perché  la Giornata ha strutturato un appuntamento annuale nel quale si fa il punto su un nodo cruciale delle relazioni interreligiose,  culturali e sociali del nostro tempo. Il dialogo tra musulmani e cristiani non è un optional della società multiculturale ma, per evidenti ragioni anche geopolitiche, ne costituisce un asse centrale ed essenziale.
Qualcuno lamenta  che "una giornata all'anno" non cambia la sostanza delle relazioni. Certo, ma il ragionamento  allora, dovrebbe valere per molti altri appuntamenti che invece sono preziose occasioni per mettere a fuoco un tema: penso alla giornata della memoria della Shoah o a quella per la legalità. Il valore della Giornata del dialogo sta allora proprio nella sua ripetitività, ovvero nel richiamo costante  - almeno una volta l'anno  - a fare qualcosa per promuovere l'incontro, il dialogo e la conoscenza tra cristiani e musulmani.
D. La giornata del dialogo cristiano-islamico è nata come contrapposizione alla guerra. Questa giornata ed i rapporti tra cristiani e musulmani sono stati anzi pesantemente condizionati dalla guerra, “la terza guerra mondiale a pezzi”, come l'ha chiamata Papa Francesco. Che ruolo può avere in questa prospettiva?
R. Occorre superare la fase del "dialogo della conoscenza" per promuovere, invece, quello della comune azione. Intendo dire che per una fase è stato fondamentale capire storia, valori,visioni di fede delle due tradizioni religiose. È stato un lungo apprendistato di conoscenza che ancora oggi serve a superare pregiudizi e incomprensioni, ma che oggi va integrato on un'azione comune per dire insieme no alla guerra, al fanatismo, al fondamentalismo di ogni colore e di credo.
D. Riguardo all'islam, che idea hai della situazione attuale sul piano internazionale? Spesso l'Islam è coinvolto in situazioni di conflitto. 
R. È vero, e mi pare che si possano riconoscere tre fronti di conflitto. Uno è quello che l'estremismo islamista ha aperto contro il mondo occidentale, i suoi simboli,i suoi valori fondamentali, la sua tradizione di democrazia e laicità. Un secondo fronte è quello che certa politica occidentale ha aperto nei confronti dell'islam - di tutto l'Islam - giudicandolo nel suo complesso una minaccia ai principi e ai valori della democrazia. Un terzo fronte - solitamente dimenticato - è quello che contrappone musulmani  ad altri musulmani. Concentrati sui primi due, dimentichiamo che il terzo fronte è quello più sanguinoso e drammatico e che le prime vittime sono proprio i musulmani che vivono nei paesi in conflitto, e vittime collaterali sono quelli che vivendo in Occidente subiscono discriminazioni e pregiudizi perché giudicati complici dei loro carnefici.
D. Qual è lo stato oggi delle comunità cristiane e musulmane italiane, quali sono dal tuo punto di vista le principali contraddizioni che esse vivono e quali i rapporti fra le intra-islamici? Spesso di parla di frammentazione dell'islam.
R. È un falso problema. I musulmani hanno pieno diritto a differenziarsi, anche sul piano  della rappresentanza, per scuole di pensiero, tradizioni culturali e persino collocazione politica. È così per il mondo evangelico, per quello ortodosso e così via, e non mi risulta che questo dato socio-religioso sia mai stato enfatizzato come accade per i musulmani. Detto questo, non tutte le organizzazioni islamiche sono uguali, non tutte hanno lo stesso grado di rappresentatività o lo stesso livello di organizzazione dei propri ordinamenti o la stessa capacità di procedere alla costruzione di rapporti istituzionali. L'importante è che la libertà religiosa venga tutelata e garantita.  E su questo piano la strada è ancora tutta da percorrere: pur nei gravi limiti della legislazione vigente, è incomprensibile che non vi sia alcun imam riconosciuto dal Ministero dell'Interno ai sensi della legge sui culti "ammessi" del 1929, e che l'unico ente islamico che disponga di personalità giuridica sia il Centro culturale connesso con la Moschea di Roma. Mi pare insomma oggettivo che nei confronti dell'islam permangano pregiudizi così solidi da impedire l'avvio di procedure istituzionali che pure si stanno moltiplicando per altre comunità di fede. La decisione del Ministero dell'interno di aprire ben due tavoli - la Consulta islamica e il Consiglio di esperti per l'Islam - è un segnale che va raccolto ma che  deve ancora dare i suoi frutti. 
D. Il problema del razzismo anti-islamico è oramai un' emergenza nazionale perché va avanti da una ventina d'anni. Cosa fare? Quale ruolo possono svolgere le comunità religiose nel loro insieme?
R. Non parlerei di razzismo anti-islamico ma piuttosto di islamofobia. Il razzismo, oltre che un comportamento, è un sistema di norme che avalla l'idea insensata della differenza tra presunte "razze" sancendo la superiorità di una  sulle altre. L'islamofobia è invece un sentimento di paura e sospetto determinato dal pregiudizio, o peggio da un'ideologia fondamentalista che mina i ponti della convivenza multireligiosa e interculturale. Concordo invece nell'affermare che si tratta di un virus letale, capace di distruggere i percorsi di covivenza, dialogo e integrazione faticosamente costruiti in questi anni. Se questa diagnosi ha un senso, è abbastanza chiaro quale debba essere la prognosi: promuovere conoscenza e dialogo, abbattere i muri invisibili che si ergono attorno alle moschee e quelli assai concreti che ne impediscono la costruzione. L'Italia ha bisogno di segnali forti da parte delle istituzioni che devono combattere  il pregiudizio e l'esclusione sociale; ma anche da parte delle comunità di fede.
D. Su che cosa si può dialogare? Cosa fare per favorire l'incontro dal basso di cristiani e musulmani che aiuti a riscoprirci tutti figli della stessa umanità? Quale ruolo possono avere le istituzioni democratiche in questo processo?
R. In questi anni abbiamo imparato che il dialogo si struttura costruttivamente a vari livelli: dal dialogo della vita quotidiana a quello teologico a quello spirituale, e ciascuno ha un suo senso e una sua utilità. La novità è che iniziamo a sperimentare un altro dialogo che definirei "della società civile" nel quale le diverse comunità di fede ragionano e cooperano su temi di ordine sociale e appunto civile. Penso a ciò che insieme -  cristiani, musulmani e credenti di altre confessioni - possono fare per migliorare la qualità della vita di un quartiere degradato, per affermare i principi della legalità, per accogliere e integrare i migranti e così via. Evangelicamente è un dialogo "sui frutti" più che sugli alberi che mi pare meriti più attenzione e considerazione. Il fatto interessante è che le istituzioni sembrano cogliere questa novità e in qualche caso - penso ad alcuni tavoli municipali, prefettizi o regionali - colgono questa novità che potenzialmente può avere un impatto sociale molto positivo. Il valore indotto è che, lavorando insieme, si finisce per vedere l'altro in una luce diversa anche sul piano della fede.
D. Infine cosa è mancato nella nostra azione in questi 15 anni? Come trasformare un evento annuale in qualcosa che diventi una pratica quotidiana? 
R. Per carattere preferisco  considerare il bicchiere sempre mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto. E quindi mi pare più utile valorizzare e migliorare ciò che si sta facendo piuttosto che recriminare su quello che non si è fatto o si è fatto male. Non è un atteggiamento determinato da ingenuo ottimismo della buona volontà ma semmai dalla consapevolezza delle difficoltà che abbiamo di fronte. il dibattito pubblico  sui temi dell'immigrazione, della convivenza e del dialogo interculturale in Italia mantiene una decenza che si è persa in altri paesi europei. Leggo i giornali e mi sono ben note le voci nostrane che seminano paure e pregiudizio ma dobbiamo riconoscere che nel paese "tiene" un atteggiamento razionale e civile che si è perso altrove. Tutto si può e si deve migliorare ma evidentemente alcuni settori della società civile, la Chiesa cattolica, le chiese evangeliche, alcune rappresentanze islamiche hanno seminato un valore prezioso che argina discorsi populisti e discriminatori. La Giornata ha contribuito a creare questo clima: nata nel modo che hai ricordato, negli anni ha preso la sua strada e oggi non appartiene più ai pochi firmatari del 2001 ma a una platea assai più vasta che annovera  anche istituzioni religiose e civili. Qualcuno, coltivando delle gelosie,  lamenta che così "non è più la stessa cosa". Io replico che per fortuna il linguaggio e la pratica del dialogo cristiano-islamico non appartengono più a una cerchia ristretta di esperti o di appassionati ma diventa patrimonio e senso comune. E questo va bene oltre che ai cristiani, ai musulmani e alle istituzioni, alla democrazia italiana.



Mercoledì 25 Maggio,2016 Ore: 09:33
 
 
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