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www.ildialogo.org IL SACERDOZIO DELLE DONNE: UNA QUESTIONE DI COSCIENZA E GIUSTIZIA INTERVISTA A P. ROY BOURGEOIS,di Agenzia Adista n. 80 - 05 Novembre 2011

IL SACERDOZIO DELLE DONNE: UNA QUESTIONE DI COSCIENZA E GIUSTIZIA INTERVISTA A P. ROY BOURGEOIS

di Agenzia Adista n. 80 - 05 Novembre 2011

36370. ROMA-ADISTA. Una questione di coscienza e di giustizia; una forma di obbedienza a Dio, che ha creato uomo e donna alla pari, a fronte di un’obbedienza all’uomo, che in questo caso contraddirebbe la fede. Questo è, per p. Roy Bourgeois, 73 anni, della congregazione missionaria Maryknoll Society, il senso profondo del proprio impegno a favore dell’ordinazione sacerdotale delle donne (per il quale è stato scomunicato e rischia ora l’espulsione dalla congregazione e la dimissione dallo stato clericale, v. Adista nn. 28, 30, 32, 37, 69, 76 e 78/11); un impegno maturato all’interno della sua quarantennale ricerca di giustizia per i poveri e per la pace, vissuta intensamente negli anni di missione in America Latina e nell’attivismo pacifista che è culminato nella fondazione dell’Osservatorio sulla Scuola delle Americhe (Soa) – l’istituzione statunitense che ha formato alla controinsurrezione e alle tecniche di tortura decine di migliaia di militari latinoamericani – e nelle manifestazioni nonviolente per la chiusura della stessa Scuola, in seguito alle quali è stato più volte arrestato e incarcerato.

P. Roy Bourgeois ha ripercorso il suo itinerario di vita e di impegno, inserendolo nel più ampio contesto ecclesiale di oggi, in una lunga intervista che ci ha rilasciato nel corso del suo “viaggio per la giustizia” a Roma, a metà ottobre, in occasione della consegna in Vaticano della petizione corredata di 15mila firme a favore del sacerdozio femminile e in difesa del suo operato. Di seguito il testo. (ludovica eugenio)

Roy, prima di affrontare il tema del tuo impegno a favore del sacerdozio femminile, vorrei chiederti che cosa ha significato, per te, nella tua quarantennale lotta per la giustizia e la pace, il fatto di essere sacerdote...

Sono nato e cresciuto in Louisiana in una famiglia cattolica del Sud, molto tradizionale. Quando ho finito l’Università con una laurea in Geologia – era l’epoca della guerra in Vietnam – sono diventato ufficiale della Marina. Sono andato in Vietnam come volontario; quell’esperienza ha costituito un punto di svolta nella mia vita. La mia fede è diventata più forte, con la morte – e Dio – così vicini. Fui sconvolto dalla violenza, dalla povertà, dalla sofferenza del popolo vietnamita, persi alcuni amici e sentii che Dio mi stava chiamando al sacerdozio. Ne parlai con il cappellano militare, che mi consiglio la comunità di Maryknoll, impegnata nella ricerca della giustizia in 25 Paesi. Quando tornai dal Vietnam, mi trovai all’inizio di un nuovo viaggio, mettendo in discussione la violenza, il militarismo e, per la prima volta, la politica estera del mio Paese, e tutto ciò nel contesto della mia fede. Fui ordinato nel 1972 e mandato dalla congregazione in Bolivia a servire i poveri. Fu quello il mio ingresso in America Latina. Vissi lì cinque anni, nelle favelas, e lì i poveri diventarono i miei insegnanti, lì fui introdotto ad una nuova teologia, la Teologia della Liberazione. Erano gli anni ‘70, c’erano Gustavo Gutierrez, Leonardo Boff… Cominciai a comprendere anche la politica estera del mio Paese: la Bolivia si trovava sotto la dittatura del generale Hugo Banzer, vicino di casa di Augusto Pinochet e addestrato alla Scuola delle Americhe. Fui introdotto alla lotta dei poveri, al tema della solidarietà. Era una sorta di invito ad entrare, proprio come prete, nella lotta per la giustizia. Era un periodo eccitante della TdL, che infondeva speranza nella gente, permettendomi di abbandonare il modello di Chiesa gerarchica, piramidale, patriarcale in cui ero cresciuto, per conoscere uno stile più laico, in cui tutti siamo invitati a tavola come uguali; Gesù ci ha invitati ad essere discepoli alla pari. Questo ha assunto un enorme significato per me, mi ha dato grande speranza. C’era un folto gruppo formato da gesuiti, redentoristi e altri religiosi che condivideva questa vita con i poveri.

 

E poi è arrivata un’altra svolta…

Sì. Durante il mio quinto anno in Bolivia, quando emersero casi documentati di tortura da parte del regime di Banzer, fui arrestato insieme a molti altri, alcuni dei quali vennero uccisi dopo che io fui obbligato a tornare negli Stati Uniti. Mi trovavo nel bel mezzo di un percorso, avviato in Bolivia, che si stava radicalizzando, e guardando indietro sono convinto che non si può vivere da prete in mezzo ai poveri, mettendosi al loro servizio, senza essere profondamente influenzato dalla loro lotta, senza voler esprimere profonda solidarietà con loro, oppressi dal loro governo che agiva supportato dal governo del mio Paese. La mia massima fonte d’ispirazione è stato mons. Romero. Non l’ho mai incontrato, ma il suo stare accanto al popolo mi ha molto segnato, soprattutto dal momento che in Bolivia i vescovi erano molto conservatori, non parlavano, erano raramente dalla parte dei poveri, spesso legati alla dittatura, come un po’ tutta la Chiesa cattolica, buona amica dei governi dittatoriali militari. Anche con il Salvador ho avuto un rapporto personale: quattro religiose americane, tra cui due di Maryknoll, erano andate a lavorare con i poveri su invito di mons. Romero, ed un mese dopo l’assassinio di quest’ultimo furono violentate e uccise dai militari salvadoregni. Questo portò molti di noi a sentirsi più vicini ancora al Salvador, a impegnarsi nella critica alla politica estera degli Usa in America Latina: stavamo armando ed addestrando gli uomini che poi andavano a uccidere. Abbiamo cercato di fermare gli aiuti militari americani al Salvador, un milione di dollari al giorno, presi dalle tasche dei contribuenti, in nostro nome. Abbiamo protestato contro tutto questo ed è così che siamo diventati attivisti.

Quando cinquecento soldati del Salvador sono venuti a Fort Benning, alla Scuole delle Americhe, per iniziare l’addestramento, siamo andati a protestare: tre di noi hanno scavalcato di notte i cancelli e si sono introdotti nella scuola, indossando uniformi militari, e diffondendo con uno stereo la registrazione dell’ultima omelia di Romero, in cui chiedeva di smettere di uccidere. Sono stato incriminato e incarcerato per un anno e mezzo. È stata un’esperienza difficile ma molto utile: avevamo capito che non potevamo tacere la verità. I due mesi di isolamento sono stati il miglior ritiro che io abbia vissuto.

 

Come è iniziata l’esperienza dell’Osservatorio sulla Scuola delle Americhe?

Quando sono uscito, sono tornato a lavorare, ho tenuto delle conferenze, ma non siamo riusciti a bloccare gli aiuti militari. Nel 1989 c’è stato l’assassinio dei gesuiti in Salvador, che ha suscitato molto clamore negli Usa, anche perché numerosi membri del Congresso li conoscevano, alcuni avevano studiato presso di loro. Furono in tanti a contestare la Soa perché aveva formato quelli che li avevano uccisi. Fu così che io e un piccolo gruppo cominciammo a dedicarci, aiutati da alcuni deputati, a una ricerca approfondita sulla Scuola delle Americhe, e ciò che scoprimmo fu che si trattava di una vera scuola di assassini che per decenni aveva formato più di 50.000 persone di 70 Paesi in materie come controinsorgenza, tecniche di tortura. Il nostro compito era semplice: dovevamo documentarci e documentare il Congresso e i media e cercare di abbattere quel muro di segretezza; negli Usa, infatti, il nemico peggiore con cui bisogna combattere è l’ignoranza: la gente non sa nulla della politica estera degli Stati Uniti, di ciò che viene compiuto all’estero nel nostro nome.

Era un compito difficile, ma abbiamo cominciato a fare progressi: abbiamo ottenuto appoggio da gruppi sempre più numerosi di persone, specialmente dopo che è emerso che chi aveva ucciso Romero era stato addestrato proprio alla Soa.

Così affittai un piccolo appartamento appena fuori dai cancelli della Scuola (ora abbiamo anche un ufficio nazionale a Washington): per me era importante stare lì, sul posto, e vedere quello che succedeva; nel frattempo sempre più venivo invitato a parlare nelle chiese, nei college: oggi, quando ci riuniamo periodicamente per le veglie per la chiusura della Soa davanti ai suoi cancelli, arriviamo anche a 15, 20mila persone che vengono da tutto il Paese; tra di esse, moltissime suore, che hanno aderito al movimento fin dall’inizio, genitori con figli… Ci sono conferenze, workshop, concerti, riflessioni sulle molte forme di oppressione: militarismo, razzismo, sessismo… È una grande celebrazione di speranza. Il focus certo è sulla politica estera degli Usa, ma oggi va ben oltre questo, affrontando le diverse forme di discriminazione. Siamo lì in nome della solidarietà, per pregare, tenere viva la memoria delle vittime e resistere. E quando ci arrestano perché abbiamo varcato il confine invalicabile della Scuola, per noi è un momento di riflessione e un fatto positivo, che porta un numero ancora più alto di persone nel movimento.

 

Come è accaduto che ti sia coinvolto nella questione delle donne prete? Sempre nell’ambito di questa ricerca di giustizia?

Sì. Proprio durante il mio ministero nel Soa Watch, già tanti anni fa, viaggiando per gli Stati Uniti per tenere incontri e conferenze, ho sempre più spesso incontrato donne cattoliche impegnate, che venivano da me e mi parlavano della loro vocazione al sacerdozio. Discutendone con altri preti, abbiamo constatato che questo tema non era stato mai affrontato in seminario, ma le donne sempre più insistentemente mi chiedevano: perché noi non possiamo essere ordinate? Come cattolici professiamo che uomini e donne sono stati creati uguali da Dio, e che la vocazione sacerdotale è un dono di Dio e solo di Dio. Di qui una domanda per me diventata fondamentale: chi siamo noi, come uomini, per dire che la nostra chiamata da parte di Dio è autentica, e quelle delle donne no? Ho fatto la domanda ad amici preti e devo dire che sono rimasto deluso, rattristato, arrabbiato: la risposta è stata il silenzio. lo dice il nostro insegnamento, la nostra tradizione, ma tutto questo non è sufficiente.

Ho ravvisato in questo una grave ingiustizia, e questa volta proprio vicino a me, nella mia Chiesa, contro le donne, contro la Chiesa e contro il Dio che ci ama e che chiama uomini e donne al sacerdozio. Devo questo probabilmente al mio periodo in Bolivia, in cui, quando c’era un’ingiustizia, capivo che un nostro silenzio sarebbe stato la voce dell’assenso. Ho capito che dovevo parlare. Dieci anni fa ho ricevuto un invito a parlare della Soa a Roma a preti e suore. In quell’occasione fui invitato a parlare dello stesso tema anche alla Radio Vaticana. Al termine dell’intervista, di una quindicina di minuti, dissi: «Abbiamo parlato di queste ingiustizie, ma c’è ci sarà sempre ingiustizia nella Chiesa finché le donne non potranno essere ordinate prete». Mi ricordo che il responsabile delle trasmissioni si infuriò con me. Il giorno dopo, di ritorno negli Usa, ricevetti una chiamata dal mio superiore generale che mi disse che in Vaticano erano molto arrabbiati con me. Ma anche in questo sono stato molto ispirato da mons. Romero, il quale diceva che bisognava parlare per conto di chi non aveva voce. Io sapevo che non avrei dovuto tacere. Da allora in poi, ogni volta che tenevo conferenze o incontri sulla Soa ho parlato anche di quest’ingiustizia nella Chiesa. Al centro di questo insegnamento ho individuato il sessismo. E a prescindere dalle giustificazioni che si danno all’esclusione delle donne dal sacerdozio, resta il fatto che essa è sbagliata, non è lo stile di Dio, è lo stile degli uomini. E alla radice di questo insegnamento, appunto, c’è il peccato del sessismo e della discriminazione.

Come i poveri in America Latina, così le donne in questo movimento hanno cominciato ad educarmi sulla loro esclusione, sul loro essere invisibili e non poter partecipare a una discussione sul sacerdozio. Questa presunta inferiorità delle donne risale a s. Tommaso d’Aquino.

 

C’è un rapporto tra esclusione delle donne e clericalismo?

Sì, si tratta anche di una questione che ha a che fare con il potere. I preti, gli uomini nella Chiesa, in Vaticano, si sentono minacciati da queste donne perché in qualche modo esse vanno a toccare il loro potere; negli ultimi due anni ho molto riflettuto su questa cultura del clericalismo. Il potere, specialmente quello che si respira qui a Roma, è molto seducente. Nel modo in cui preti, vescovi, cardinali, papa ti trattano e si relazionano con te si capisce che in un certo senso si sentono separati da ciò che è umano, umile: «Noi abbiamo la verità, noi conosciamo la volontà di Dio». Questo è devastante per la Chiesa. Ed è di questo che parlava il Vaticano II: uscire da questa mentalità di possesso, perché noi siamo la Chiesa. Questo è ciò di cui parlo negli incontri che faccio, e di fronte alla domanda su cosa dobbiamo fare, la risposta è molto semplice: agire in modo giusto. Dobbiamo amare con tenerezza e camminare umilmente con il nostro Dio. E quando rileggo i vari documenti ufficiali spesso non trovo nulla che richiami l’umiltà, l’amore o la giustizia. In breve, vedo una ingiustizia talmente grave, che devo parlare chiaramente.

Di questi tempi, non tutti hanno il coraggio di parlare liberamente nella Chiesa…

Vedo chiaramente che la Chiesa è che è totalmente sopraffatta dalla paura. Nel mio ministero, parlando del sacerdozio femminile, incontro insegnanti cattolici che lavorano nei college, nelle università cattoliche, cappellani, tutte persone che sono stipendiate dalla Chiesa… Beh, molti sono stati licenziati… Quante storie conosco! Quanti preti mi hanno detto, in privato, «Roy, io sarei anche favorevole al sacerdozio femminile, ma non posso dirlo in pubblico perché sarei licenziato, perderei la mia comunità, finirei in solitudine e perderei la mia pensione». È a questo che siamo arrivati? Alla preoccupazione di perdere la pensione? Io sono davvero grato di essere stato introdotto in questo movimento. Lentamente sono stato sempre più coinvolto finché ho ricevuto un invito ad un’ordinazione femminile. È stata un’occasione talmente gioiosa! Una donna che dice “sì” alla sua chiamata, soprattutto in un momento in cui la Chiesa vive una crisi così acuta di mancanza di preti e le chiese sono costrette a chiudere... Eppure, 60 giorni dopo, ho ricevuto una lettera del Vaticano che affermava che dovevo ritrattare il mio appoggio al sacerdozio femminile altrimenti sarei stato scomunicato latae sententiae. Dopo quella lettera sono andato in ritiro e ho scritto la mia risposta, in cui affrontavo la questione del primato della coscienza e dicevo che ciò che mi veniva chiesto di fare fondamentalmente era mentire, affermando che non credevo che Dio avesse creato uomini e donne uguali. Non ho avuto risposta. Ma si tratta di una sorta di autoscomunica, automatica. In ogni caso, nulla di scritto è arrivato e io ora sto parlando più che mai dell’ordinazione delle donne, davanti a uditori sempre più vasti, e la cosa infonde molta speranza: secondo sondaggi del New York Times, della Cbs, 6 cattolici su 10 appoggiano il sacerdozio femminile. E d’altra parte, secondo cifre dell’Associated Press e del Catholic News Service 4mila preti hanno abusato di 10mila minori: quanti di questi sono stati scomunicati? Quanti tra i vescovi che hanno coperto tanti abusi? Ma quello che mi colpisce è che, nella lettera del card. Levada e recentemente in quella del mio superiore di Maryknoll, si dica che ho “creato grave scandalo al popolo di Dio”. Grave scandalo…

 

Il tuo superiore generale ti ha minacciato di espulsione dalla congregazione e di dimissione dallo stato clericale. Che cosa ti aspetti? Cosa accadrà?

Il mio superiore, in quella lettera, parla di espulsione e di laicizzazione. Maryknoll è stata la mia famiglia per quarant’anni. Il mio superiore, p. Dougherty, si trova in una posizione molto difficile. La congregazione è molto nota per il suo impegno per la giustizia e per il suo lavoro con i poveri, è una comunità molto progressista, che mi ha sempre appoggiato sulla Soa. Ma sull’ordinazione delle donne no. Lui dice che come superiore generale deve aderire al magistero della Chiesa. Qui è il dilemma. Molti di coloro che aiutano Maryknoll, che hanno anche appoggiato Maryknoll economicamente per la sua missione educativa, sono sempre stati generosi anche per il nostro impegno per la giustizia e so che molti, molti di questi appoggiano l’ordinazione delle donne, considerata una questione di giustizia. Ora sono arrivate 5mila lettere al superiore generale, che dicono semplicemente: «Non devi espellere il tuo confratello, sta seguendo la sua coscienza sul tema del sacerdozio femminile».

D’altronde, ad un incontro con la mia congregazione ho detto ai miei confratelli: «C’è un grande dibattito nella Chiesa, il sensus fidelium va nella direzione dell’appoggio al sacerdozio femminile; le donne sono chiamate da Dio come voi». Ma il superiore mi ha risposto: «Non capisci, Roy, papa Giovanni Paolo II ha detto che non vi sarà discussione ulteriore su questo tema». «Ma i cattolici ormai sono adulti – ho ribattuto – e come adulti si sentono offesi. Il dibattito ci sarà, con o senza di voi. Anche se voi deciderete di non partecipare, la discussione andrà avanti lo stesso».

 

In Vaticano si afferma che la questione sia chiusa perché Giovanni Paolo II avrebbe dato un insegnamento infallibile su questa materia, ma sono in molti a pensare, nel mondo, che non sia così… La questione non è chiara.

Infatti, questo è il punto decisivo della questione. Tra teologi cattolici, storici della Chiesa, canonisti non c’è unanimità di vedute. Ad un recente incontro della congregazione, p. Dougherty ha detto, a proposito della mia situazione, che parlavo su un tema che è infallibile, che non si può discutere. Ma molti non lo considerano un insegnamento infallibile. In base a quanto diceva il secondo avvertimento canonico che ho ricevuto da Maryknoll, avevo diritto ad un giusto processo secondo la costituzione della congregazione e mi si consigliava di avvalermi dell’aiuto di un canonista per preparare la mia difesa. P. Thomas Doyle, che mi difende, mi ha detto: «Io credo in questa causa e ti difenderò ma ti devo dire che ci troveremo davanti membri della gerarchia ecclesiale che non credono nella giustizia». Lui ha difeso molte vittime di abusi sessuali e ha avuto relazioni molto dure e molto difficili con il Vaticano che non ha mai protetto le vittime ma ha sempre cercato di tutelare il potere e la Chiesa. Devo dire che Doyle ha presentato molto bene la mia difesa, focalizzando l’attenzione sul primato della coscienza e citando S. Tommaso e persino Ratzinger - che non ha mai ritrattato le sue affermazioni sul primato della coscienza! - e contestando l’infallibilità del magistero sul sacerdozio femminile. Il documento del Vaticano del 1994 sul sacerdozio si basava sul fatto che Gesù aveva chiamato i dodici apostoli, tutti uomini. Ma erano sposati? Erano ebrei? Dire che fossero uomini non esaurisce la questione.

 

Questa discussione, oggi presente soprattutto negli Stati Uniti, ha reso più distanti gerarchia e base della Chiesa?

Oggi i cattolici americani sono molto più istruiti e sanno di avere il diritto di parlare e quando si sentono dire che il sacerdozio femminile è un grave scandalo nella Chiesa capiscono che la Chiesa gerarchica è lontanissima dalla gente, da quello che pensa. La gente dice: vogliamo davvero parlare di gravi scandali? Allora parliamo degli abusi sessuali, parliamo del fatto che Joseph Ratzinger, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha ignorato le denunce per anni, è tutto documentato… Per rispondere a me, dopo l’ordinazione della donna prete, la Congregazione del card. Levada ha impiegato solo sessanta giorni a mandarmi la lettera in cui mi ordinava di ritrattare. Ecco perché mi chiedo: perché questa severità? Perché questa durezza? Questo movimento non si può fermare, è radicato nella giustizia e viene da Dio. Sta crescendo sempre di più. La discussione sulle donne prete, in definitiva, andrà avanti, con o senza di loro. È solo questione di tempo. Certo, sono preoccupato per la mia situazione ma, ad essere onesto, l’unico modo per continuare ad essere prete è quello di parlare in solidarietà, di accompagnare coloro che stanno lottando, perché vedo quest’ingiustizia in modo lampante. E quando mi chiedono che ne è della mia obbedienza ai superiori, rispondo: che ne è della mia coscienza se obbedisco agli uomini e non a Dio? E poi mi chiedono: sai che effetto avrà tutto questo su Maryknoll? Ti rendi conto dei problemi che stai causando alla tua congregazione parlando in pubblico sul sacerdozio femminile? Ma io sottolineo che oggi la gente è molto più consapevole dei gravi rischi di un’obbedienza cieca nella Chiesa, nella società… A Maryknoll d’altronde hanno un feedback di sostenitori che appoggiano il tema delle donne prete. Si può solo andare avanti, anche se ci sono molti nella Chiesa che si vogliono allontanare dallo spirito del Vaticano II, da quel modello di Chiesa. Anche negli Stati Uniti, vedo giovani preti che invece di andare avanti tendono a tornare indietro, e questo è legato al tema del potere, del mantenimento di una separazione ieratica rispetto al popolo di Dio: noi sì che sappiamo cosa vuole Dio, siamo i suoi rappresentanti. Ma ciononostante, in nessun modo si può tornare ad una Chiesa del passato. Oggi la Chiesa mi fa pensare ad una sorta di dittatura come in Bolivia, nel senso di un abuso di potere a causa del quale fedeli e preti hanno paura di esprimersi pubblicamente; non è che vengano imprigionati o uccisi come in Bolivia ma vengono licenziati dalla Chiesa, perdono il lavoro. Per cui, spero che ci sia un progresso, che la discussione avanzi. In questa prospettiva mi ha dato molta gioia l’episodio di piazza San Pietro, la polizia che ci ha trattenuti, perché la notizia è rimbalzata ovunque e il messaggio gridato in Vaticano, sotto le finestre del papa che magari ci stava guardando, «Ordain Catholic Women», è risuonato ovunque nel mondo. E per essere onesto, quando sono salito sulla macchina della polizia ho ringraziato Dio – come ogni volta in cui il giudice mi ha mandato in carcere -  perché quando succede una cosa del genere, ancora più gente aderisce al movimento, è qualcosa che aiuta il movimento a crescere, la discussione a diffondersi.

Ora faccio ritorno negli Stati Uniti con più speranza anche se non so quale sarà la risposta dei miei superiori di Maryknoll. Saranno arrabbiati, perché i media hanno diffuso la notizia di quello che è successo a Roma. Ho l’appoggio dei miei confratelli, ma la palla ora sta nelle mani del superiore generale, anche se il documento in mia difesa che ha ricevuto è ottimo. È stata utile anche una lettera che 55 preti di Maryknoll, tra cui 3 ex superiori, hanno mandato un paio di settimane fa a p. Dougherty che diceva: «Non espellere il nostro fratello Roy, parliamone, è una decisione che può danneggiare molto Maryknoll». Speriamo che tutto questo aiuti a tenere viva la discussione.

Se Maryknoll mi espellerà dalla congregazione, verrà anche avviato il processo di laicizzazione. Il dossier arriverà a mons. Joseph Tobin, segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che ha la facoltà di accettare la richiesta di espulsione; se lo farà, il processo passerà nelle mani di mons. Raymond Burke, prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica, che è il vescovo più conservatore in assoluto degli Stati Uniti. In quel caso non ho speranze.

Quello che è certo è che nei cattolici c’è molta rabbia: la loro sensazione è che la gerarchia abbia perso completamente il contatto con la realtà, con la gente. (l. e.)

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it



Mercoledì 02 Novembre,2011 Ore: 15:54
 
 
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