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www.ildialogo.org Il potere nella Chiesa: storia di un tradimento,da Adista Documenti n. 26 del 13/07/2013

Il potere nella Chiesa: storia di un tradimento

da Adista Documenti n. 26 del 13/07/2013

DOC-2538. MADRID-ADISTA. È sulla questione del potere che si è consumato uno dei più gravi tradimenti operati dalla Chiesa nei confronti del messaggio evangelico: questione rispetto a cui Gesù mostrò sempre la massima intransigenza, nella convinzione che proprio su tale terreno la comunità dei discepoli si sarebbe giocata il suo destino. Ed è proprio sul tema specifico dell’autorità nella Chiesa che si sofferma, in un articolo pubblicato dalla rivista Éxodo (n. 118, aprile 2013), il teologo spagnolo José María Castillo, il quale, sul problema del potere, aveva già condotto altre riflessioni, più centrate però sulla questione della laicità (v. Adista n. 38/10) e della democrazia (v. Adista n. 94/10). Partendo, nel suo articolo, dal Diritto Canonico, che attribuisce al papa il diritto esclusivo di operare come giudice rispetto ad ogni decisione assunta in questioni spirituali o in relazione ad esse - cioè, commenta Castillo, «su tutto, considerando che qualsiasi decisione umana può essere legata a questioni che riguardano lo spirito» -, il teologo evidenzia come per il Gesù terreno, al contrario, il potere non possa mai essere esercitato collocandosi al di sopra degli altri. Se infatti la parola “potere” indica sempre una relazione di dipendenza, la relazione di Gesù con i discepoli e con la gente si esprime invece, nei Vangeli, «mediante l’esperienza della “sequela” che nasce dalla forza dell’esempio, mai dalla “sottomissione” del debole al forte, del piccolo al grande». È nelle lettere di Paolo - il quale organizzò le “assemblee del popolo” cristiano con criteri differenti dagli insegnamenti del Gesù terreno - che, secondo il teologo spagnolo, possono individuarsi le radici di quel crescente processo di concentrazione del potere della Chiesa nel potere papale di cui sperimentiamo ancora oggi le conseguenze. Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, l’articolo di José María Castillo. (claudia fanti)

Il problema dell’autorità nella Chiesa cattolica


di José María Castillo

 

UNA POTESTÀ ILLIMITATA?

Per come è redatto e promulgato (1983) il Codice di Diritto Canonico, è legittimo porsi una domanda: la Chiesa cattolica si arroga un potere senza limiti in questo mondo?È chiaro che nella Chiesa nessuno lo pensa. Perché, fra l’altro, noi cattolici sappiamo che la Chiesa non ha il potere di uccidere, odiare o fare ciò che il Vangelo vieta. Il problema è che, come ci ha insegnato la storia, la Chiesa ha agito in maniera tale che, spesso, ha fatto (e continua a fare) non poche cose che contraddicono ciò che il Vangelo prescrive. Da qui l’interrogativo.

Un interrogativo che ha la sua ragion d’essere nel testo del Diritto Canonico, in cui si afferma che il romano pontefice ha potestà «ordinaria suprema, piena, immediata e universale» (c. 331). Una potestà, inoltre, contro la quale «non si dà appello né ricorso» alcuno (c. 333, 3). Di più, il pontefice (la “Prima sede”, c. 361) «non è giudicato da nessuno» (c. 1404). Vale a dire che il papa non deve rendere conto a nessuno delle sue decisioni. E, cosa più sorprendente di tutte, «è diritto esclusivo del papa essere giudice» di ogni decisione assunta in questioni spirituali o in relazione ad esse (c. 1401). Cioè su tutto, considerando che qualsiasi decisione umana può essere legata a questioni che riguardano lo spirito.Ebbene, la cosa più eclatante è che il papa ha un potere tale, in un campo talmente illimitato, da esercitare il «diritto esclusivo» (dumtaxat ius) di agire come giudice di coloro che violano il citato canone 1401, a cominciare da quanti esercitano l’autorità massima di uno Stato (qui supremum tenent civitatis magistratum) (c. 1405, 1). Così il Diritto ufficiale della Chiesa cattolica si arroga il potere di giudicare (e presumibilmente condannare) qualunque capo di Stato, qualsiasi sia il suo Paese e la sua religione. Di più, il papa «è giudice supremo in tutto l'orbe cattolico, e giudica o personalmente o tramite i tribunali ordinari della Sede Apostolica oppure per mezzo di giudici da lui delegati» (c. 1442).

E per evitare scappatoie che possano limitare il potere papale, il canone 1372 stabilisce che «chi contro un atto del Romano Pontefice ricorre al Concilio Ecumenico o al collegio dei Vescovi deve essere punito con una censura», che può essere la «scomunica» (c. 1331), l’«interdizione» (c. 1332) o la «sospensione a divinis» (c. 1333). Si cerca in tal modo di risolvere “giuridicamente” un problema decisivo dell’ecclesiologia: quello di sapere chi è il soggetto che detiene il potere supremo nella Chiesa. Una questione che “teologicamente” non è in alcun modo risolta, come risultò evidente al Concilio Vaticano II (LG 22), laddove si afferma che il papa è il soggetto di «potestà piena, suprema e universale» sulla Chiesa, ma si dice anche, sempre nella Lumen Gentium (22), che questo potere non lo detiene solo il papa, ma anche il Collegio episcopale. Come si armonizzano allora i due poteri in uno? Il Vaticano II non risolse la questione. La Nota esplicativa previa imposta da Paolo VI (che però non la firmò), licenziò la questione ricorrendo alla “potestà di giurisdizione” che, secondo il canone 129, esiste nella Chiesa «per istituzione divina», quando in realtà è noto che la iurisdictio ha la sua origine nel pensiero medievale e fu fissata dal giurista Bartolo di Sassoferrato, professore a Bologna a partire dal 1328.Ma c’è di più. Perché il papa, oltre che successore di Pietro, è capo dello Stato della Città del Vaticano. E secondo l’articolo 1 della Legge Fondamentale di questo Stato, «il sommo Pontefice (…) ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». Il Vaticano è, quindi, l’ultima monarchia assoluta che resta in Europa. In uno Stato siffatto manca la distinzione tra i poteri, che è la base dello Stato di Diritto.

Ci sono poi altre ragioni per chiedersi se si attribuisca al papato un’autorità illimitata. Per quanto magari nessuno lo faccia, il linguaggio giuridico utilizzato dal Diritto ecclesiastico dà motivo di sospettare che, per quanto riguarda il tema dell’autorità nella Chiesa cattolica, la teologia ammetta tranquillamente un modo di esprimersi che produce la sensazione di avere a che fare con una mentalità autenticamente paranoica.A chi può capitare oggi di affermare in documenti pubblici e ufficiali che il papa – e solamente lui – ha una potestà suprema, piena, immediata, universale, che non può essere giudicata da nessuno, che ha il potere di giudicare e condannare anche i capi di Stato del mondo intero, un potere che non ammette appello o ricorso alcuno e che prevede il castigo per chi ricorre a un Concilio o ai vescovi contro le decisioni prese? Una persona sana di mente non direbbe che è uno sproposito considerarsi tanto importante e vedersi tanto superiore al resto dei mortali? È evidente che dietro questo linguaggio giuridico ci sia una mentalità teologica, che è quella che alimenta un modo tale di intendere l’“autorità” e il “potere” da farli apparire, giuridicamente e teologicamente, uno spauracchio e uno spettro. Perché una simile autorità non esiste. Né esiste un simile potere. A meno che non si parli di Dio, anziché della Chiesa. E, in questo caso, in realtà non sappiamo di cosa stiamo parlando. Perché Dio nessuno lo ha mai visto (Gv 1,18).Però, e soprattutto, la cosa più impressionante è che un simile sistema di governo equivale a un “potere assoluto” nel quale, tra le altre cose, l’accettazione e la realizzazione dei diritti umani è impossibile. È proprio quello che succede nella Chiesa cattolica. Il papa concentra a tal punto tutti i diritti che gli altri cattolici ne rimangono privi, se parliamo di diritti in senso stretto.


GESÙ E IL POTERE

La parola “potere” indica sempre una relazione di dipendenza. Quando si tratta di relazione tra persone, trova espressione nel sostantivo exousía che può essere inteso anche come “autorità”. In ogni caso, il potere o l’autorità rendono manifesta una “disuguaglianza”. Chi esercita il potere è in una condizione di superiorità rispetto a chi vi si sottomette. Da qui l’utilizzo fatto, nella vita e nel linguaggio di Gesù, del verbo “obbedire” (hypakoúô). Nei Vangeli l’obbedienza si riferisce unicamente ai demoni (Mc 1,27), al vento e alle onde del mare (Mc 4,41), e a una pianta (il gelso, Lc 17,6).

Mai nei Vangeli si insinua che Gesù si relazioni con qualcuno nei termini di un rapporto tra chi comanda e chi è tenuto a obbedire. La relazione di Gesù con i discepoli e con la gente si esprime sempre mediante l’esperienza di una “sequela” che nasce dalla forza dell’esempio, mai dalla “sottomissione” del debole al forte, del piccolo al grande.Gesù diede “autorità” (“exousía”) ai dodici discepoli (Mt 10,1). Ma il Vangelo puntualizza che si tratta del potere «di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità». Non è un potere dottrinale e, ancor meno, giudiziale. È un potere terapeutico, per alleviare le sofferenze e rendere felici le persone nelle loro relazioni con gli altri e con Dio.Il problema, che molte volte appare nei Vangeli, è la resistenza opposta dai discepoli a questa visione di Gesù: dalla discussione tra loro su chi fosse il più importante (Mc 9,33-37) fino all’ambizione dei figli di Zebedeo per i primi posti nel Regno (Mc 10,35-41), passando per i severi ammonimenti di Gesù contro ogni pretesa di comportarsi come i «capi delle nazioni» e i grandi che esercitano il potere (Mc 10,42-45).Ed è noto che in queste resistenze al progetto di Gesù, secondo cui la mentalità del potere è estranea ai piani di Dio, fu Pietro a distinguersi, da quando Gesù lo chiamò «Satana!» (Mt 16,23), a quando Pietro si oppose al fatto che Gesù svolgesse un compito da schiavo lavandogli i piedi (Gv 13,6-9), fino al suo rinnegarlo durante la passione. Non si trattava, in questo caso, dell’atteggiamento di un codardo, ma della reazione di un uomo deluso di fronte al fallimento del messianismo, cosa che né a Pietro né agli altri apostoli entrava in testa.Il movimento originario di Gesù fu un “fenomeno di comportamento sociale deviato”. Un movimento che trovò, nella comunità da lui riunita, il sostituto del Tempio con le sue cariche e i suoi poteri. Fino ad accettare la funzione più bassa che una società possa assegnare: quella del criminale giustiziato. Cosicché è a partire da tale comportamento che Gesù intese, visse ed esercitò una forma di autorità che si sarebbe imposta presto su tutti gli altri poteri. In quanto non si basa sull’imposizione e sul dominio delle coscienze, ma sull’esempio di chi indica la condotta da seguire a partire dalla debolezza e dalla piccolezza dello schiavo e del sovversivo, che attrae e trascina per la sua bontà.


LE PRIME “CHIESE”

Questa idea e questo modo di esercitare l’autorità sono giunti fino a noi (e abbiamo potuto conoscerli) grazie ai Vangeli, i quali ci raccontano cosa pensava e come agiva il Gesù terreno. Ma tra il Gesù terreno e il testo dei Vangeli, che oggi noi leggiamo, ci sono le lettere di Paolo. E questo comporta varie cose di estrema importanza.

1. Le lettere di Paolo furono scritte tra il 50 e il 55-56, mentre i Vangeli vennero redatti circa 30 anni dopo, a partire dal 70.

2. Fu Paolo a organizzare le “assemblee del popolo” cristiano chiamandole “chiese” (“ekklesíai”)

3. Pertanto, le comunità cristiane si organizzarono come “chiese” senza conoscere – in molti casi – i Vangeli, dal momento che Paolo non conobbe il Gesù terreno, ma solo il “Risorto” (Gal 1,11-16; 1Cor 9,1; 15,8; 2Cor 4,6; cfr. At 9,1-19; 22,3-21; 26,9-18). Tanto da arrivare a dire che il Cristo «secondo la carne» non lo interessò mai (2Cor 5,16).

4. La conseguenza logica di tutto ciò è che la Chiesa si è organizzata e ha creato le sue strutture senza conoscere Gesù, considerando che, come è stato detto molto bene, «la portata della conoscenza passiva della tradizione di Gesù posseduta da Paolo è, in fondo, irrilevante per la comprensione della teologia paolina». Per questo, le idee riguardo alla comunità cristiana e al modo di intendere ed esercitare il potere nelle assemblee cristiane sono questioni che poco o nulla hanno potuto influire sulla Chiesa nascente, nonostante la questione fosse stata di importanza capitale per Gesù durante la sua vita terrena. Paolo, infatti, non poté elaborare le sue idee e la sua prassi sul potere a partire dal Gesù che andò per il mondo, ma a partire dal Figlio di Dio risorto e glorificato, Messia e Signore nostro (Rm 1,4).


PAOLO, APOSTOLO DI GESÙ CRISTO

A partire dalla sua esperienza del Risorto sulla via di Damasco, Paolo ebbe un’ossessione. La sua vita e il suo lavoro avevano acquisito un orientamento nuovo che non era solo «la fede in Gesù Cristo»: egli era stato reso, direttamente da Dio, «apostolo di Gesù Cristo». Egli sapeva che c’erano stati prima di lui apostoli a Gerusalemme (1Cor 15,8-11; Gal 1,17-19). Che c’era chi rivendicava per sé il titolo di “apostolo” (Fil 2,25; 2Cor 11,5.13; 12,11 ecc.). Ma il suo apostolato dipendeva direttamente e unicamente da Dio. Non era opera e grazia degli esseri umani (Gal 1,1; cfr. 1,11). Suo giudice era unicamente il Signore (1Cor 4,3-5). Logicamente, in queste condizioni, Paolo doveva imporsi. E imporre la sua autorità nelle assemblee, vale a dire, nella Chiesa.E lo fece. Paolo non sapeva che Gesù aveva agito diversamente. Per Paolo l’apostolato implicava un mandato ricevuto dal Signore risorto (1Cor 15,8-9); la sua missione come apostolo dei gentili era autorizzata da una rivelazione (Gal 1,15 s). Scelto da Dio (Gal 1,15; Rm 1,1), Paolo si vedeva investito di un’autorità speciale rispetto ai gentili (Rm 1,5.11-15; 11,13; 15,14-24). Cosicché, per Paolo, quando egli predicava, era come se Dio stesso parlasse (1Tes 2,2-4.13; 4,15; 1Cor 14,37; 2Cor 5,18-20). Fino all’estremo che chi negava il Vangelo di Paolo rifiutava Dio (1Tes 4,8; Gal 1,8). In definitiva, Paolo non aveva altro rimedio che sottolineare la propria autorità apostolica per legittimare la propria dottrina radicale, nella quale, come sappiamo, arrivò ad utilizzare espressioni assai forti.

Furono poste in tal modo le basi di una concezione peculiare dell’autorità nella Chiesa. Un’autorità che Dio concede direttamente a coloro che sceglie come apostoli. Un’autorità che si identifica con l’autorità di Dio stesso. Un’autorità che si ritiene interamente necessaria e irrinunciabile per legittimare e mantenere un insegnamento: quello che impartisce la Chiesa. A partire da queste basi, si capisce perfettamente l’evoluzione che non tardò a prodursi. Naturalmente, in questo modo di intendere e di praticare l’autorità si trova una serie di elementi che poco o nulla hanno a che vedere con ciò che visse e insegnò Gesù. Di più, alcuni di questi elementi sono difficilmente conciliabili con gli insegnamenti del Vangelo. Però, come si è detto, il Vangelo arrivò tardi. Quando le comunità o “chiese” conobbero i Vangeli, le assemblee cristiane si stavano costituendo già da vari anni con criteri diversi dagli insegnamenti di Gesù. Criteri però perfettamente ammessi e già assimilati come “ciò che Dio vuole e ha disposto”.

In tali condizioni, i cambiamenti che si produssero (probabilmente) durante il II secolo si rivelarono decisivi.

ALLA BASE DI UN PROCESSO DI DEGENERAZIONE

Non si tratta ora di studiare la storia del processo che, durante il II secolo, fece sì che il governo della Chiesa si concentrasse nel vescovo di Roma. I dati certi che si conoscono sulla questione fino ad oggi sono pochi. Né il Frammento Muratoriano né la nota affermazione di Ireneo, vescovo di Lione, secondo cui tutti devono essere in accordo con la Chiesa di Roma, che è quella che ha il «principato più potente», offrono un’argomentazione sufficiente per dedurne un primato giuridico o apostolico della Chiesa romana. E nemmeno in essa si allude a Pietro per giustificare i suoi privilegi sulle altre “Chiese” del mondo.

Il migliore specialista che la teologia cattolica abbia avuto finora per quanto riguarda la storia dell’ecclesiologia, Yves Congar, ci ha lasciato un riassunto condensato che ci illumina in tale contesto. Lamentandosi degli abusi commessi durante il pontificato di Pio XII, Congar scrive nel suo diario: «Vedo con sempre più chiarezza che alla base di tutto c’è una questione di ecclesiologia e mi rendo conto di quali siano le posizioni ecclesiologiche in gioco. I miei studi di storia delle dottrine ecclesiologiche mi aiutano a vedere le cose con chiarezza. Tutto parte da qui: in Matteo 16,19 i Padri hanno visto l’istituzione del sacerdozio o dell’episcopato. Per loro, ciò che si fonda su Pietro è l’ecclesia, il primato canonico del vescovo di Roma. Tuttavia, la stessa Roma, e questo a partire, forse, dal II secolo, interpreta le cose diversamente. Essa vede in Matteo 16,19 la propria istituzione. Per essa, i poteri non passano da Pietro all’ecclesia, ma da Pietro alla sede romana. Cosicché l’ecclesia non si forma a partire da Cristo, tramite Pietro, ma a partire dal papa. Per la Chiesa, il fatto di essere costruita su Pietro significa, agli occhi dei papi, ricevere consistenza e vita dal papa, nel quale, come nella testa, risiede la piena potestà».

È chiaro che lo stesso Congar, anni dopo, avrebbe precisato meglio questo giudizio, per ciò che riguarda il valore del testo di Matteo 16,19 e per ciò che riguarda l’inesplicabile concentrazione di tutto il potere della Chiesa in un solo uomo, il papa, limitando – o anche annullando – il potere dei laici, dei sacerdoti e soprattutto del collegio episcopale. E ciò sulla base di argomenti teologicamente inesistenti, come avvenuto al Vaticano II, secondo quanto già spiegato in questo articolo. In ogni caso, Congar ha pienamente ragione quando afferma che la teologia (della Curia romana) ritiene che i poteri che il papato si attribuisce e, di fatto, esercita in tutti gli ambiti che vuole, provengono direttamente da Dio, come è il caso della cosiddetta “potestà di giurisdizione” alla quale il canone 129 riconosce «origine divina». È uno dei tanti casi in cui “il giuridico” si vede elevato alla categoria di “teologico”. Senza altro argomento plausibile che è questo ciò che (senza dirlo) interessa al sistema romano.


UNA STORIA DI FALSITÀ

Tra le cose più importanti e quelle che più hanno condizionato il crescente processo di concentrazione del potere della Chiesa nel potere papale, si dovrebbe senza dubbio considerare la sostituzione dell’“autorità” con la “potestà”. Papa Gelasio (492-496) assegnava l’“autorità” al papa, mentre la “potestà” era propria dell’imperatore. L’“autorità” evoca una fonte carismatica di legittimità, mentre la “potestà” indica un potere sostanzialmente esecutivo. Questa era l’idea nell’Alto Medioevo. Con il passare del tempo, la potestà, qualificata inoltre come sacra, si è concentrata nel papa, di modo che essa, solo nel capitolo III della Lumen Gentium, è applicata al “potere gerarchico” 15 volte. È evidente lo slittamento del potere religioso verso forme di potere politico. E non sembra solo un uso semantico. Vale a dire che la teologia cattolica ha permesso e legittimato esattamente ciò che Gesù aveva severamente proibito nel Vangelo (Mc 10,42-45).Altro dato decisivo da tenere in considerazione è quello delle false Decretali, che si è soliti datare all’incirca all’anno 850 e che si suppone abbiano la loro origine in Isidoro Mercator. Si tratta di 313 documenti falsi nei quali si attribuisce all’autorità dei papi del tempo dei martiri l’origine delle strutture ecclesiastiche del IX secolo. Così non solo si è distrutta la conoscenza storica dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa, ma si è accreditata l’idea che tutte le determinazioni della vita della Chiesa siano sgorgate dal papato, come se questo fosse la sua fonte. E, come se non bastasse, si è imposta una concezione del papato meramente giuridica. In tal modo, si è stabilito il criterio teologico in base a cui tutta la vita della Chiesa dipende dalla testa che è la Chiesa di Roma. Così si è preparato il cammino affinché Giovanni VIII (872-882) sostenesse la convinzione secondo cui la cristianità doveva vivere sottomessa non solo al governo papale, ma anche a quello dei principi cristiani. Il terreno teologico era quindi fertile affinché Gregorio VII desse vita (XI secolo) alla riforma decisiva che concentrò tutto il potere della Chiesa nel papa. È così che, fino ad oggi, sono state corrotte la teologia e la pratica dell’autorità nella Chiesa.

CONCLUSIONI

1. La Chiesa che abbiamo non era nei pensieri di Gesù. Né abbiamo tracce del fatto che volesse organizzare un’istituzione strutturata sulla base della sottomissione a un uomo, il papa.

2. Gesù visse come la peggiore tentazione, per il movimento dei seguaci da lui formato, il fatto che qualcuno di loro potesse pretendere di mettersi al primo posto, giustificando una simile condotta con l’esigenza di mantenere l’unità.

3. È una legge del comportamento sociale che un gruppo che vuole perpetuarsi nella storia necessiti di alcune forme di istituzionalizzazione. Ciò presuppone l’esistenza di un’autorità centrale che coordini il tutto. Da questo punto di vista è ragionevole l’esistenza del papato.

4. Nessun papa ha il potere di agire contro il Vangelo.

5. L’autorità nella Chiesa non è di natura giuridica o politica. È urgente che la Chiesa operi un superamento di queste strutture mondane che hanno adulterato il significato e l’importanza della “sequela” di Gesù come principio determinante della vita cristiana.

6. Gesù non scelse, per l’apostolato, solo Pietro. Gesù scelse i dodici, che la Chiesa non ha mai sentito la necessità di perpetuare. Si cercò un sostituto per Giuda, ma poi, alla morte degli altri, nessuno pensò di trovare i successori. In ogni caso, la “successione episcopale”, come messa in pratica della “successione apostolica”, pertiene alla fede della Chiesa. Ed è al Collegio episcopale nel suo insieme che spetta coordinare la diversità dei ministeri e dei compiti che realizza la Chiesa. La “testa” che coordina il Collegio episcopale, dal III secolo, è il vescovo di Roma.

7. È urgente che la Chiesa modifichi la sua teologia, in modo che in essa possano venir realizzati tutti i diritti umani.

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it

 



Sabato 13 Luglio,2013 Ore: 22:08
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Ugo Agnoletto Susegana 14/7/2013 21.13
Titolo:falsità del cristianesimo
non sono false soltanto le decretali o la donatio constantini. E' falso il metodo della chiesa cattolica perché anche i vangeli sono stati falsificati. Sono falsi anche i nomi dei dodici apostoli perché non coincidono da vangelo a vangelo. Noi di Gesù sappiamo solo quello che i cristiani dei primi secoli astutamente hanno voluto raccontarci. Quindi tra Gesù e Chiesa cattolica c'è uno iato insanabile. Oggi una persona sana di mente non può più credere nella chiesa cattolica, perché, se vuole, ha tutti i mezzi che vuole per capire gli imbrogli fatti dalla chiesa cattolica.
Autore Città Giorno Ora
Andres Dato Genova 16/7/2013 20.29
Titolo:falsità e cristianesimo delle origini
Ho letto l'articolo di J.M. CAstillo e il commenti di U. Agnoletto. Desidero avere riferimenti bibliografici a sostegno delle tesi ivi contenute.
Sentiti ringraziamenti.
Andrès Dato
Autore Città Giorno Ora
Ugo Agnoletto Susegana 17/7/2013 18.44
Titolo:riferimenti
riferimenti: Il Gallo cantò ancora e Storia criminale del cristianesimo, ambedue di Deschener. Comunque ha visto che anche riguardo gli F35 la chiesa è dalla parte del potere e di una chiesa così non c'è proprio bisogno, anzi

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