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www.ildialogo.org La Chiesa del silenzio,di Alejandra Dandan

La Chiesa del silenzio

di Alejandra Dandan

Argentina: nel processo per la morte del vescovo Angelelli emerge il ruolo attivo della Chiesa nel Terrorismo di stato. Da Adista Contesti n. 38 del 27/10/2012


Tratto dal blog argentino casapueblos-difundiendo-lo-silenciado.blogspot. com.ar (7 ottobre 2012). Titolo originale: Elevaron a juicio la causa por el asesinato de Enrique Angelelli

Le indagini sull’assassinio del vescovo Enrique Angelelli sono arrivate al dibattimento. L’impianto accusatorio costruito dai pubblici ministeri federali Darío Edgar Illanes e Carlos Gonella, tra le altre cose, mostra per la prima volta in chiave penale il ruolo svolto dalla gerarchia della Chiesa cattolica argentina durante la dittatura. Secondo i pubblici ministeri non rivestì un ruolo silenzioso né meramente complice, ma un «ruolo attivo» nelle politiche del terrorismo di Stato: «Il terrorismo di Stato fu un fenomeno molto più complesso di quanto cerchino di dimostrare alcune letture miopi, che lo riducono all’azione delle Forze armate. Risulta qui particolarmente chiaro che il terrorismo di Stato (1976-1983) agì criminalmente sotto la protezione della gerarchia della Chiesa cattolica in Argentina». O, in altre parole: «Che il sistema repressivo operò in coordinamento e con il consenso della Chiesa, o almeno di buona parte dei suoi vertici».

Sul caso Angelelli, Gonella e Illanes concludono che il vescovo morì in «un attentato» causato da un «incidente intenzionale»: «Possiamo affermare con sicurezza – spiegano – che la collisione automobilistica in cui mons. Enrique Angelelli perse la vita fu provocata in maniera deliberata da un altro veicolo che stava seguendo» lui e il sacerdote Arturo Pinto, che si salvò miracolosamente «per motivi indipendenti dalla volontà degli imputati».

Del delitto sono stati incriminati Jorge Rafael Videla e l’ex ministro dell’Interno Albano Harguindeguy, che «aveva emesso direttive precise per eliminare i gruppi legati al Movimento dei Sacerdoti per il Terzo Mondo»; l’ex capo del III Corpo dell’Esercito Luciano Benjamín Menéndez; e due capi dell’apparato repressivo di La Rioja: il vicecommodoro Fernando Estrella, imputato nel processo aperto per i sacerdoti di Chamical, e allora vicecomandante della base della Forza Aerea (Celpa), che funzionava come centro clandestino, e l’allora capo della D2, l’ex commissario Juan Carlos Romero.

Per dimostrare il rapporto tra il ruolo della gerarchia della Chiesa e il caso Angelelli, i pubblici ministeri indicano che dal «voluminoso dossier emerge che le persecuzioni ai danni dei sacerdoti di La Rioja erano note alla gerarchia regionale e nazionale». Però prima di collocare la storia del vescovo nel quadro dello sviluppo e della persecuzione del Movimento dei Sacerdoti per il Terzo Mondo (Mstm), i pubblici ministeri spiegano perché il sistema operò in coordinamento e accordo con la Chiesa. «È di particolare importanza ricordare che così come in altre indagini è risultato chiaro il ruolo svolto da altre istituzioni statali durante il terrorismo di Stato, come quello del Potere giudiziario, nel caso di cui parliamo si è dimostrato che il sistema repressivo instaurato dalle Forze Armate operava criminalmente anche come apparato di potere organizzato in coordinamento e con il consenso della Chiesa cattolica argentina». In questo senso, portano come prova il “dossier”, rivelato alcuni mesi fa, sull’incontro, il 10 aprile del 1978, tra Videla e la Commissione Esecutiva della Conferenza episcopale argentina, rappresentata dal vescovo Vicente Zazpe e dai cardinali Raúl Primatesta e Juan Aramburu.

Il contenuto del documento, che fa parte degli archivi segreti della Chiesa, è stato rivelato da Horacio Verbitsky su Página/12 (v. Adista n. 20/12). «Nella riunione tra Videla e l’episcopato – dicono i pubblici ministeri – risulta chiaro che si cercarono insieme soluzioni per il problema dei desaparecidos e che fu deciso non di informare sul destino di queste persone, bensì il contrario».

Primatesta scrisse nel documento che, durante l’incontro, Videla si mostrò preoccupato perché i vescovi avevano usato l’espressione “prigionieri politici”. Disse loro che «in ambito internazionale e giornalistico con questi termini si indicano coloro che sono prigionieri per le loro opinioni politiche o per questioni razziali o religiose, cosa che in questo caso non è vera: i prigionieri – e citò casi concreti come quello di Timerman – non sono tali per questi motivi ma per ragioni che hanno direttamente a che vedere con la guerriglia». Primatesta disse a Videla che «si trattava di una “nomenclatura comune” e che non vi erano altre intenzioni dietro». E gli spiegò che il loro problema erano i richiami dei vescovi che a loro volta ricevevano le denunce dei familiari e che inoltre si avvicinava l’assemblea di Puebla, un ambiente “non locale” dove avrebbero potute essere poste domande alle quali avrebbero dovuto rispondere.

Il testo riporta quanto segue: «Il presidente rispose che apparentemente la cosa più ovvia sarebbe stata dire che erano già morti. Ma anche se sembrava la cosa più ovvia, ne sarebbe scaturita una serie di domande su dove fossero sepolti i corpi: in una fossa comune? In questo caso: chi li ha messi nella fossa? Domande cui l’autorità del governo non poteva rispondere sinceramente per le conseguenze sulle persone. Si stava dialogando sulla necessità di trovare una soluzione…», lasciò scritto il cardinale sulla riunione, nella quale, poco dopo, secondo la ricostruzione, disse che la «Chiesa vuole comprendere, cooperare».

«È davvero incredibile l’uso fatto dai prelati sulla “nomenclatura comune”», sottolineano i pubblici ministeri. «Ma la cosa più incredibile e scandalosa è la lucida analisi sui desaparecidos e sui problemi che ne potevano nascere a Puebla», la III Conferenza dell’episcopato latinoamericano che si sarebbe riunita il 27 gennaio del 1979 nel santuario di Nostra Signora di Guadalupe, in Messico, per portare avanti le linee della II Conferenza di Medellín.

A questo punto i pubblici ministeri ricordano una frase di Aramburu in chiusura dell’incontro con Videla: «Gli suggerii, perlomeno, di dire che non erano nelle condizioni di informare, di dire che c’erano dei desaparecidos, al di là delle persone i cui nomi avevano reso noti». E ricordano poi il commento dello stesso Videla alla rivista El Sur: «I vescovi ci hanno consigliato sulla maniera di trattare la questione dei desaparecidos».

Primatesta apparirà di nuovo nella storia di Angelelli, in quanto fu la persona che «gestì» il suo «allontanamento» dalla provincia di Córdoba e che disse al vicario castrense dell’Esercito Victorio Bonamín: «Se ne andasse dai suoi compagni!».

Nonostante abbiano ricostruito in chiave penale la partecipazione della Chiesa alla dittatura, i pubblici ministeri non hanno avanzato accuse contro nessun vescovo. Gonella dice che non lo hanno fatto perché sono tutti morti: se Primatesta fosse vivo sarebbe tra gli imputati.

Un attentato pianificato

L’incartamento sull’assassinio del vescovo Angelelli contiene alcune importanti definizioni. I pubblici ministeri presentano il caso come un «attentato» nel contesto di un incidente intenzionale. Il fatto, dicono, «fu pianificato, ordinato e eseguito il 4 agosto del 1976 con lo scopo di eliminare il vescovo di La Rioja, mons. Enrique Angelelli, che, con il sacerdote Arturo Pinto, partì alle 14.30 da Chamical con un dossier sull’omicidio dei sacerdoti Carlos de Dios Murias e Gabriel Longueville, avvenuto qualche giorno prima. Uscì da Chamical dirigendosi verso La Rioja, alla guida di una Fiat 125 modello 1973, seguendo la Strada nazionale 38, prendendo la strada vecchia per evitare che membri del Celpa venissero a conoscenza del viaggio».

Al km 1056, passata una salita, a circa sei km da Punta de los Llanos, «gli si avvicinò a gran velocità un veicolo di colore chiaro, presumibilmente una Peugeot 404, guidata da persone che finora non sono state identificate, che viaggiava nella stessa direzione e che raggiunse l’auto alla sinistra chiudendola verso destra con una manovra intenzionalmente brusca, provocando un impatto». L’auto uscì di strada, finì sulla banchina per poi tornare di nuovo sulla strada, capovolta. Questo «comportò, tra le 15.15 e le 15.30, la morte di Angelelli e ferite a Arturo Pinto che non morì per ragioni indipendenti dalla volontà degli imputati». Pinto perse la memoria e apprese della morte di Angelelli solo quando uscì dall’ospedale: ciononostante quanto disse durante le notti di delirio costituisce una parte importante delle prove che sostengono la tesi dell’incidente provocato. Pinto, tra i lamenti, diceva: «Presto monsignore, ci raggiungono». Parlava di una Peugeot bianca che li seguiva.

Mario Rubén Gorosito, allora infermiere, disse che l’unica cosa che si capiva era qualcosa come: «Monsignore, che succede? L’auto bianca, i documenti, ci segue un’auto bianca». E la religiosa Delia Ursula Braida, tra gli altri, lo sentì dire, mentre era privo di conoscenza e delirava: «Che è successo al vescovo… è morto… ci hanno bastonato… ci seguiva una Peugeot bianca…».

Per i pubblici ministeri, tutto ciò «conferma che si trattò di un omicidio provocato»: un dato che mettono a confronto con due perizie. Entrambe evidenziano un’ammaccatura sull’auto che, per le sue caratteristiche, pensano sia stata prodotta dall’urto con un altro veicolo.

Tuttavia, il peso simbolico dell’imputazione è altrove: nella ricostruzione che i pubblici ministeri hanno fatto in chiave storica del contesto di sviluppo del Movimento dei Sacerdoti per il Terzo Mondo, della figura di Angelelli, del ruolo politico del suo progetto pastorale e dei conflitti che questo generò con i settori più reazionari della Chiesa e con i gruppi economici legati alla terra.

Le prove dell’escalation

Angelelli arrivò a La Rioja nel 1968, mentre nel Paese aveva inizio il Mstm. La presenza del vescovo nella provincia ebbe due fasi, un’interpretazione della sua biografia che i pubblici ministeri hanno riportato in questo testo. Il momento centrale è il 1971 quando gli vietarono la diffusione delle “messe radiofoniche” con le quali arrivava ovunque nella provincia. «A partire dall’anno seguente, impossibilitato nella parola, passò a fare militanza con l’azione diretta», dice il dossier. La persecuzione cominciò «con sottili messaggi, velate minacce» sui mezzi a stampa. Il 20 novembre del 1973, il quotidiano El Sol criticò le posizioni del vescovo dicendo che anticipavano «una politica di apertura al marxismo nella Chiesa». E la persecuzione continuò «attraverso concreti atti intimidatori come il divieto della messa, e poi la repressione e l’incarcerazione, per finire con ogni atto di crudeltà possibile nei confronti dei suoi diretti collaboratori: sequestro, tortura e omicidio dei sacerdoti Carlos de Dios Murias e Gabriel Longueville, il 18 luglio del 1976; l’omicidio del laico Wenceslao Pedernera una settimana dopo e infine l’attentato astuto e vile che pose fine alla vita del vescovo il 4 agosto del 1976, nel quale per miracolo non perse la vita anche il suo accompagnatore, Arturo Aldo Pinto».

Una delle prove più importanti è costituita dai documenti del Dipartimento di Intelligence della Polizia di La Rioja che mostrano come questo confezionò liste di sacerdoti che, a suo avviso, appartenevano al Mstm, con indicato il luogo in cui si trovavano.

Anche la presentazione di Angelelli come sovversivo, il modo in cui lo hanno ostacolato, le minacce e la ricostruzione degli ultimi momenti fanno parte dell’incartamento.

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it



Sabato 27 Ottobre,2012 Ore: 14:46
 
 
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