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www.ildialogo.org Il processo all’Isolotto 40 anni dopo, tra storia, resistenza, futuro,da Adista Documenti n. 14 del 14/04/2012

La memoria di domani.
Il processo all’Isolotto 40 anni dopo, tra storia, resistenza, futuro

da Adista Documenti n. 14 del 14/04/2012

DOC-2430. FIRENZE-ADISTA. La memoria è essenziale per la vita degli individui. Li collega alle proprie radici familiari, culturali sociali; fornisce punti di riferimento; li aiuta a sentirsi “adeguati” alla realtà circostante, inseriti in un processo storico. Dà, insomma, un senso all’azione personale e sociale. La memoria collettiva, poi, è qualcosa di più. «È anche – scrive Enzo Mazzi – un luogo di resistenza, anzi il luogo privilegiato della resistenza rispetto ai sistemi di dominio che tendono sempre a frantumare il vivere sociale», secondo la logica del divide et impera». La memoria è infatti, è ancora Mazzi a parlare, «l’ultimo baluardo rimasto in piedi a contrastare la marcia trionfale del neoliberismo mercantile globale. Il quale infatti ha istituito una strategia di oblio, tesa a disgregare e annullare la memoria. Perché il liberismo ha bisogno di creare sul vuoto una nuova umanità di produttori-consumatori senza identità e memoria». Infatti, «è solo ricordando che si può elaborare in positivo il lutto, si può superare la paura, si possono volgere in positivo i conflitti, si può dare senso e forza alla lotta per la pacificazione nella giustizia; mentre l’oblio offre solo illusioni, copre le ferite rendendole invisibili, ma produce cancrene profonde».
Per tutte queste ragioni la vicenda raccontata ed analizzata nel volume Il processo all’Isolotto (introduzione di Enzo Mazzi, manifestolibri, 2011, pp. 200, euro 21; il libro può essere richiesto, senza spese di spedizione aggiuntive, anche ad Adista, tel. 06/6868692; e-mail: abbonamenti@adista.it; oppure acquistato online sul sito www.adistaonline.it) non è pura riesumazione di un passato sepolto ma, appunto “memoria storica” creativa, generatrice di presente e di futuro, che ha senso anche e soprattutto per l’oggi.
La storia
Il 22 settembre 1968, durante l'omelia, nelle chiese dell'Isolotto, del Vingone e della Casella viene letta e firmata, anche dai tre parroci e da altri preti, una lettera di solidarietà con gli occupanti del duomo di Parma nella quale, fra l'altro, si esprime disaccordo col papa che ha accusato gli occupanti stessi di mancanza di amore per la Chiesa. In conseguenza di quella lettera, l’arcivescovo di Firenze, il card. Ermenegildo Florit (quello, per intenderci, che aveva esiliato don Milani a Barbiana), impone al parroco dell’Isolotto, don Enzo Mazzi, e a lui solo, di ritrattare, pena la rimozione dal suo incarico. Dopo un lungo confronto collettivo con la sua comunità, don Mazzi (31 ottobre) rifiuta il diktat. La comunità è tutta con lui. Ciononostante, la Curia fiorentina tenta di normalizzare la parrocchia e manda un prete, don Ernesto Alba, a celebrare messa a Santa Maria delle Grazie. Nessuno vuole parteciparvi, così, per sostenere le celebrazioni, che andrebbero deserte, intervengono squadre neofasciste munite di spranghe e bastoni. La popolazione reagisce pacificamente con metodi non-violenti. Ma, invece di incriminare i neofascisti, la magistratura fiorentina, a seguito di una denuncia (7 gennaio 1969) di don Alba concordata con la Curia di Firenze, indaga cinque sacerdoti e undici laici per “istigazione a delinquere” e “turbamento di funzioni religiose del culto cattolico”. Quasi mille persone si autodenunciano per lo stesso reato. Di esse, non si sa secondo quale criterio, la Procura incrimina 438 persone e il giudice istruttore ne rinvia a giudizio 358. Nel luglio del 1970 arriva però un colpo di scena: contro la sentenza del giudice istruttore, contro la richiesta scritta di ciascuno dei singoli imputati, che chiedono di essere processati per ottenere il pieno e definitivo riconoscimento della loro innocenza, la Procura di Firenze dichiara l’amnistia per il reato di turbamento di funzione religiosa. A processo vanno quindi solo i cinque preti e i quattro laici incriminati per istigazione a delinquere, reato che non può rientrare nell’amnistia. Si vuole, insomma, evitare a tutti i costi un processo di massa, che assumesse un carattere simbolico e politico. Ma quel processo lo divenne. A sostenere l’accusa, un giovanissimo Pierluigi Vigna. A difendere uno degli imputati, pronunciando a suo favore una celebre e intensa arringa finale, Lelio Basso, insigne giurista, segretario del Psiup, difensore dei diritti umani e promotore del Tribunale Permanente dei Popoli. La sentenza, arrivata il 5 luglio 1971, assolse tutti gli imputati per non aver commesso il fatto.
A 40 anni di distanza, a discutere della fondamentale importanza che quel processo, e l’evento Isolotto nel suo complesso, ebbe per la società italiana e per la Chiesa, c’erano, in un incontro svoltosi a Firenze il 22 marzo scorso, Giancarla Codrignani, storica esponente della Chiesa di base e già parlamentare della Sinistra Indipendente; Mario Capanna, leader del ’68 studentesco che all’Isolotto in quegli anni non riuscì ad andare, pur avendolo desiderato, ma che divenne, a metà degli anni ’80, amico di Enzo e della comunità; e Beniamino Deidda, oggi procuratore generale della Repubblica di Firenze ed all’epoca giovane magistrato della Pretura fiorentina, che durante un’assemblea all’Isolotto aveva preso pubblicamente posizione a favore degli imputati. Per questa ragione, il Consiglio Giudiziario di Firenze formulò parere negativo alla sua promozione a magistrato di tribunale. Una decisione in palese e stridente contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che garantisce a tutti i cittadini la libertà di manifestare il proprio pensiero. E che il Consiglio Superiore della Magistratura infatti annullò. Deidda, che all’epoca era tra i promotori di Magistratura Democratica e tra i primi magistrati a denunciare la funzione di “classe” svolta dalla magistratura, nel suo intervento cerca di analizzare le ragioni che portarono la Procura di Firenze ad accettare acriticamente e supinamente, contro il diritto ed il buon senso, la linea dettata dalla Curia. Pubblichiamo qui di seguito la sua relazione. (valerio gigante)

 PER CONTRASTARE LA STRATEGIA DELL’OBLIO

 di Beniamino Deidda

Dopo oltre 40 anni nessuno dubita che quel che è accaduto all’Isolotto alla fine degli anni ‘60 abbia dato vita ad una straordinaria esperienza religiosa, sociale e politica. Le ricadute che essa ha avuto sul piano sociale, politico e più propriamente religioso meriterebbero un’analisi puntuale che non spetta a me fare. Ma quell’esperienza ebbe anche aspetti rilevanti sul piano giuridico, perché su di essa si abbatté la repressione poliziesca e giudiziaria. Ed è proprio sugli aspetti giuridici, e sulla lezione che ancora oggi è possibile ricavarne, che mi voglio brevemente intrattenere.

Di certo, al cittadino di oggi, forse un po’ più avvertito che in passato, suonerebbe strano apprendere che un monsignore, dopo essersi consultato con la curia, prenda l’iniziativa di recarsi in Questura per denunciare che un gruppo di fedeli gli impedisce di celebrare la messa imposta dal vescovo. Apparirebbe strano, e non solo e non tanto per la ragione che si invocava la punizione di chi disobbediva ad un ordine dell’autorità ecclesiastica. Già all’epoca molti di noi avevano fatto notare come lo Stato intervenisse con la forza del processo penale per risolvere una questione ed un dissidio tutti interni alla dimensione religiosa. E non solo il diritto, ma anche il buon senso avrebbe suggerito una composizione interna alla comunità ecclesiale, piuttosto che un processo penale che inevitabilmente avrebbe spostato la questione dal terreno della confessione religiosa e dell’obbedienza alla gerarchia al terreno del diritto comune e dei reati penalmente sanzionati. Già dunque allora per i cattolici più avvertiti la denuncia di monsignor Alba presentava più di una stonatura.

All’opinione pubblica di oggi quell’episodio mostra irrimediabilmente quanto tempo sia passato. E non è stato un tempo vano. In mezzo ci sono stati lustri nei quali il dissenso e la disobbedienza hanno investito le istituzioni civili, militari, politiche e non hanno risparmiato neppure la Chiesa. Quella dell’Isolotto è stata un’esperienza che ha mostrato come ci si potesse sottrarre alla mediazione della gerarchia e dell’autorità; come ci si potesse organizzare e rivendicare gli spazi della propria libertà senza chiedere il permesso ai governi, ai cardinali, al potere e ai capi. È cominciata con l’esperienza dell’Isolotto – e ancora prima – una fase della vita democratica non ancora esplorata, nella quale il potere come tale non era più avvolto dal fascino che possiedono le cose indiscutibili. Per la prima volta, nell’Italia repubblicana si sperimentava quanto fosse vera l’intuizione di Hans Kelsen secondo cui l’idea di democrazia è inconciliabile con la figura del capo al quale si assegnano funzioni di rappresentanza del volere del popolo. Per la prima volta, il popolo si riappropriava della sua sovranità e la esprimeva senza l’intermediazione del potere. La fioritura di esperienze sociali che nascevano dal basso non hanno risparmiato la Chiesa, nella quale anzi l’aspetto eminentemente spirituale conferiva ai movimenti di contestazione una forza di convincimento e di diffusione di cui altre esperienze erano prive.

La comunità dell’Isolotto inoltre presentava un’altra caratteristica che la rendeva assai temibile per il potere costituito. Mentre altre esperienze più ideologizzate si ritagliavano per definizione uno spazio contrapposto ad altre forze ideologiche, quella dell’Isolotto non presentava un’evidente piattaforma ideologica: raccoglieva indifferentemente religiosi e laici, cattolici e atei, comunisti e democristiani di sinistra, radicali progressisti ed extraparlamentari. Si proponeva insomma di riunire tutti senza discriminazioni ideologiche in una comunità solidale intorno ad un progetto di rinnovamento religioso e sociale insieme.

Ricordo queste cose perché esse spiegano i motivi dell’incriminazione. Perché è vero - come in quei giorni ricordava qualche uomo d’ordine a proposito del processo dell’Isolotto - che l’azione penale è per la nostra Costituzione obbligatoria. Ma questo significa solo che tutte le denunce e tutte le notizie di reato devono essere prese in considerazione e che i magistrati sono tenuti a pronunciarsi nel merito. Ma niente avrebbe impedito che il Pm, ricevuta la denuncia di monsignor Alba, decidesse di archiviarla, ritenendola infondata. E invece ha proceduto a contestare le imputazioni. Perché? Perché tutti i poteri costituiti di quel tempo, proprio a ragione della  loro natura autoritaria, percepivano come pericolosa la pratica dell’Isolotto. E il pericolo non era evidente solo per la Chiesa, ma per chiunque fondasse il suo potere sull’obbedienza all’Autorità. E anche la magistratura del tempo ha fiutato il pericolo ed ha reagito. Per intendere bene il senso dell’azione repressiva della magistratura bisogna pensare che ci si trovava di fronte ad una società di credenti e non credenti che in modo autonomo si sostituiva alla società dei poteri costituiti, creando dal basso una comunione libera e non autoritaria. Cosa ci poteva essere in quegli anni di più allarmante per la magistratura o, almeno, per la parte più autoritaria di essa?

Si ha un bel dire, come faceva Pietro Ingrao con grande rigore, che il processo dell’Isolotto era semplicemente inconcepibile perché il dissenso e la polemica che animavano quella esperienza era un fatto tutto interno alla Chiesa. Certo che lo era. Certo che lo Stato, se avesse avuto a cuore la sua natura di Stato di diritto, avrebbe sentito il dovere di non interferire in una vicenda che non toccava il diritto comune, ma solo il diritto canonico. Ma per capire il senso vero dell’intervento della magistratura non ci si può fermare a queste osservazioni, pur ineccepibili sul piano giuridico formale. Vorrebbe dire non cogliere che il “reato” vero che la magistratura intendeva perseguire era la voglia e la maturità di partecipare alla vita religiosa politica e sociale. Vorrebbe dire in sostanza non cogliere il nesso strettissimo che correva tra quel tentativo di rinnovare la Chiesa e il suo rapporto con i fedeli e i movimenti di lotta e di liberazione che infiammavano tutto il mondo civile. Questa è stata la ragione vera per la quale la magistratura si è intromessa in una questione che apparentemente non la riguardava: la contestazione dell’Isolotto non metteva in pericolo l’ordine pubblico, non dava luogo a manifestazioni di violenza, non attentava alla pace o alla tranquillità delle persone. Eppure il potere si sentiva in pericolo. Lo mostravano segni tradizionali ed inequivocabili: si muovono i fascisti; i giornali dei padroni sparano colonne di fuoco, i benpensanti scuotono il capo e dicono che così non si può andare avanti. Ecco perché la magistratura si intromette formulando imputazioni, a pensarci bene, grottesche: “istigazione a delinquere”. E chi veniva istigato? In quella comunità erano tutti istigatori. “Turbamento di funzione religiosa”. I teologi al tempo non fecero fatica a dire che l’unica funzione religiosa in atto era quella dei fedeli riuniti in preghiera in piazza. Imputazioni grottesche, dunque, che rispondevano ad una logica molto diversa da quella che sosteneva i due articoli del codice penale. Il senso vero lo colse padre Balducci quando scrisse: «Tutti i regimi oppressivi, quale che sia la loro ideologia, sono sempre portati a prendere accordi con il clero…». Da un lato l’autoritarismo della Curia aveva bisogno dell’aiuto dello Stato; dall’altro lo Stato con il suo braccio secolare correva in aiuto della Curia perché sentiva e sapeva che era in discussione anche l’autoritarismo dello Stato. Ecco dunque i due autoritarismi intrecciarsi e sostenersi a vicenda nella consapevolezza che la presa di coscienza religiosa si tramuterà inevitabilmente in una presa di coscienza civile.

TENTATIVI DI ANNESSIONE

Oggi le cose non sono esattamente le stesse. Non lo sono neppure per la Chiesa. Non lo sono almeno da quando il cardinale Piovanelli ha ricucito, per così dire, lo strappo con L’Isolotto. Oggi la Chiesa ha capito come si riassorbono i momenti di contestazione e di dissenso ed è abbastanza abile per seguire la strada dell’annessione di tutto ciò che un tempo è stato causa di divisione, almeno nei casi in cui il tempo e la storia hanno dato torto alla Chiesa. Oggi, ad esempio, la Chiesa celebra la grandezza di padre Turoldo. Pochi giorni fa in Palazzo Vecchio, in occasione dell’anniversario della morte, sono stati tributati a padre Balducci riconoscimenti che mai gli erano arrivati mentre era in vita. Oggi la stessa Chiesa che ha isolato e combattuto don Milani ne riconosce l’originalità e ne sottolinea la scrupolosa ortodossia e l’ubbidienza alla gerarchia e al vescovo, come se fosse questo il senso più profondo del messaggio di Don Milani, e senza riflettere che - come rilevò una volta padre Balducci - nessuna curia avrebbe potuto sopravvivere con dieci preti obbedienti come don Lorenzo. Forse, tra gli altri, un prete per il quale il tentativo di annessione non potrebbe avere successo è stato Bruno Borghi. Troppa distanza separava la sua visione dell’uomo e del cristianesimo da quella della Curia, perché si possa pensare che sia vicino il giorno in cui la Chiesa farà proprie le battaglie di Borghi per la libertà e per la dignità dei più poveri e degli emarginati.

In definitiva, mi pare che il processo all’Isolotto abbia posto in maniera forte il tema dei rapporti tra società civile e comunità religiosa o, ancora meglio, quello dei rapporti tra la legge statale e la fede. Abbiamo già visto che in uno Stato laico di diritto l’unica soluzione possibile per una pacifica disciplina di quei rapporti è la separazione rigida fra la sfera che appartiene allo Stato e quella che appartiene alla Chiesa o, meglio ancora, tra l’ambito temporale e quello spirituale.

Certo, c’è l’esigenza per lo Stato di proteggere l’esercizio dell’attività religiosa e la professione della fede di tutti. Ma tale protezione e regolazione può riguardare gli aspetti sociali e materiali della religione, non quelli propriamente spirituali. Dunque riguarda i comportamenti collettivi, la dimensione dell’ordine pubblico e della sicurezza, ma non potrà mai riguardare i temi della coscienza e del rapporto tra i soggetti della comunità ecclesiale. Separazione tra Stato e Chiesa significa, sotto questo profilo, che lo Stato garantirà con il suo diritto comune il pacifico esercizio dei diritti di ciascun credente. Del resto, come già sapevano i primi cristiani, la fede e la liturgia non hanno bisogno del diritto, né del braccio armato dello Stato.

Non era un caso che alla fine degli anni sessanta, tra i temi all’ordine del giorno della società civile, vi fosse la riforma del Codice penale relativamente ai delitti di vilipendio e ai delitti contro la religione dello Stato. L’abrogazione di queste norme avrebbe lasciato in vigore quelle di Diritto penale comune, la violenza privata, la minaccia, le ingiurie e il danneggiamento, più che sufficienti a tutelare il diritto di ciascuno ad esercitare in privato e in pubblico le liturgie e i modi del suo culto religioso.

IN DIFESA DELL’ORDINE COSTITUITO

Ma non voglio concludere questa presentazione senza far cenno a quella che mi pare la domanda più accorata che emerge dalla lettura delle pagine del libro. Laddove si rivolgono senza molti giri di parole alcuni interrogativi che, pur essendo di ordine generale, riguardano specificamente anche la vicenda dell’Isolotto. «Perché – ci si chiede a pag. 68 - Pierluigi Vigna, che nel ’68 sostenne l’accusa della Procura fiorentina al processo dell’Isolotto, non spiega finalmente quello che è successo nella magistratura fiorentina a quel tempo? Perché non dice quali furono i motivi, quelli reali e non solo formali, che indussero la Procura a non indagare sui neofascisti e sui loro legami, mentre invece si mandarono in Tribunale cinque preti e un migliaio di laici accreditando solo la versione della Curia?». Fu uno dei primi depistaggi della strategia della tensione?

Sono domande, come si vede, molto dirette che possono essere raccolte in un’unica domanda: cosa c’è dietro il processo all’Isolotto? Devo dir subito che io non mi intendo di dietrologie. Ho deciso da tempo di rinunciare al difficilissimo sport di vedere cosa c’è dietro, impegnato come sono a capire ciò che sta davanti, che non sempre è facile da capire. E dunque non so rispondere alla domanda cosa ci fosse dietro al processo dell’Isolotto. Ma dubito anche che sarebbe capace di rispondere Piero Vigna, se fosse qui. A quel tempo Vigna era un giovane magistrato, certamente appartenente ad una maggioranza di colleghi collocati su posizioni tradizionalmente conservatrici, certamente di grandi capacità, ma con un’età non sufficiente a metterlo in grado di suggerire o partecipare a strategie più o meno precise elaborate da altri poteri.

So bene che l’incarico che ricopro richiede prudenza, ma la verità mi preme di più. E mi pare di poter dire con la maggiore schiettezza possibile che gli avvenimenti di quei giorni a Firenze non hanno bisogno, per essere spiegati, di un “grande vecchio” che diriga la strategia della tensione. A me pare più semplicemente che la magistratura abbia reagito automaticamente con un riflesso d’ordine a una situazione che metteva a rischio l’equilibrio dei poteri e le forme tradizionali di partecipazione alla vita sociale, politica e culturale del paese. La magistratura ha reagito all’esperienza dell’Isolotto come, immediatamente prima e immediatamente dopo, ha reagito ad altri fenomeni, magari meno clamorosi, che essa a ragione ha considerato “eversivi” dell’ordine costituito. Si pensava che il pericolo venisse dalle iniziative dal basso, dalle organizzazioni spontanee, dalle esperienze che incidevano sulle gerarchie del potere.

Ma occorre riflettere anche sul fatto che la magistratura non era tutta su quella linea. Pochi anni prima, nel 1964, avevamo fatto nascere Magistratura Democratica. Eravamo pochi, molto giovani, ma abbastanza decisi a smascherare la falsa neutralità del diritto. E denunciavamo senza esitazioni le connivenze di certa magistratura con il potere, le coperture e le protezioni che venivano accordate ai politici e ai poteri forti. La contraddizione  aveva fatto il suo ingresso anche nella magistratura. C’era un gruppo di magistrati che osava criticare le sentenze e i provvedimenti di altri magistrati. La stessa  Magistratura Democratica si spaccò clamorosamente sul cosiddetto ordine del giorno Tolin, un giornalista arrestato per vilipendio della magistratura, perché una parte dei suoi aderenti non condivise i toni del documento che criticava l’uso del carcere per reprimere la libera manifestazione del pensiero del giornalista.

I magistrati di Magistratura Democratica non piacevano a chi deteneva il potere e nemmeno agli altri magistrati. C’è stato un piccolo strascico della vicenda dell’Isolotto che riguarda chi vi parla. L’episodio è noto dentro la magistratura ma sconosciuto all’opinione pubblica. Nei giorni in cui venivano rese note le imputazioni, si era tenuta all’Isolotto un’assemblea alla quale avevo partecipato prendendo la parola. Pochi giorni dopo il Consiglio Giudiziario di Firenze aveva all’ordine del giorno la mia promozione a magistrato di Tribunale. Il Consiglio Giudiziario a maggioranza formulò parere negativo con una motivazione, come risulta dal verbale della seduta, che suonava sostanzialmente così: «Non può continuare ad appartenere all’ordine giudiziario un magistrato che in una pubblica manifestazione prenda la parola per esprimere la propria solidarietà agli imputati». Per fortuna il Consiglio Superiore della Magistratura, che doveva decidere sulla mia permanenza in carriera, fu di parere contrario, ritenendo che quell’episodio fosse né più né meno che la legittima manifestazione del pensiero, garantita dalla Costituzione. A sua volta il procuratore generale fiorentino, che a quell’epoca era Mario Calamari, rischiò il trasferimento da parte del Consiglio Superiore. È passato molto tempo, Magistratura Democratica esiste ancora ed è in buona salute, ma le contraddizioni non si sono ancora sopite. Il fatto che il giovane magistrato, che si voleva cacciare allora, sia poi diventato procuratore generale di Firenze è forse solo uno scherzo del destino oppure il frutto dell’astuzia della storia. Ma le contraddizioni rimangono tutte, sia pure in termini diversi.

Ed è questa in fondo la ragione per la quale della vicenda dell’Isolotto e del suo processo è necessario continuare a parlare per «contrastare la strategia dell’oblio», come ha scritto nel suo bellissimo saggio Enzo Mazzi. «Non per esumare un cadavere - continuava Enzo - «ma per dar vita al presente e al futuro attraverso la creatività della memoria».

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it



Martedì 10 Aprile,2012 Ore: 17:51
 
 
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