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www.ildialogo.org La fede non è un prodotto come gli altri,a cura di Nadia Henni-Moulaï

La fede non è un prodotto come gli altri

intervista a Éric Jaffrain


a cura di Nadia Henni-Moulaï

un consulente di marketing, E. Jaffrain, mostra che anche le Chiese e le religioni sono orientate a reclutare “consumatori”.


 Lei parla della Chiesa come un “prodotto”. Che cosa significa?

Da diversi anni, la Chiesa (cattolica) presenta la religione come si presenta un prodotto di consumo, usando l’approccio nato dal marketing commerciale. A mio avviso, si tratta di un errore strategico fondamentale: la Chiesa non deve vendere se stessa, ma il suo prodotto centrale. Non si vende la fede come uno spazzolino da denti.

 La Chiesa sarebbe quindi un’azienda...

Assolutamente! Ma che manca di chiarezza nella sua visione, nella sua missione e nei suoi prodotti. La sua strategia d’impresa è troppo legata alla propria marca, in quanto cerca di venderla come prodotto centrale. Oggi, la Chiesa difende più la propria azienda che Dio, nel senso che il packaging (riti, forme di devozione, atmosfera, gerarchia) diventa il modo di consumo inaggirabile. In questo, l’istituzione si è sostituita alla figura divina: prima di tutto, non siete credenti, ma cattolici.

 Perché?

Perché il pensiero collettivo viene prima della devozione personale. Se un prete, ad esempio, desidera esprimersi in maniera diversa dalle procedure stabilite, la sua iniziativa verrà limitata, se non bloccata dalla gerarchizzazione. Ogni dignitario cattolico dipende dai suoi “superiori”, così come l’individuo membro di questo movimento. Ma possiamo dire che anch’essa ha avuto i suoi “indignati” fin dagli anni ’80, con il movimento carismatico (le Renouveau), che ha obbligato a maggiore libertà, come molti secoli prima hanno fatto i gesuiti o i domenicani. Questi ultimi, recuperati dall’istituzione, hanno rafforzato il suo potere dirigenziale.

 Questo marketing molto speciale non è alla base di una forma di proselitismo?

Ad un certo livello sì. I numeri recenti lo indicano. Nel mondo, il cattolicesimo mostra una tendenza alla diminuzione, contrariamente al protestantesimo e all’islam. Tutta la strategia marketing consiste nel riconquistare “le parti di mercato” perdute, con il sostegno di campagne di comunicazione, per dare un’immagine giovanile e new look dell’istituzione. Da qui deriva una vera strategia di marketing dispiegata nei confronti degli individui. Una religione che vuole conservare le sue parti di mercato adotta una linea di conquista, come le aziende concorrenti.

 Quindi si parla di modo di consumo e di religione...

Questo è il rischio. La Chiesa, come ogni altra religione, che vende se stessa piuttosto che rendere la spiritualità accessibile, prende il posto di Dio. Anche se non si parla direttamente di marketing commerciale, i metodi sono estremamente simili: la religione, per mantenere la sua leadership moltiplicherà i modi di consumo: quasi inevitabilmente arriverà a proporre dei prodotti di richiamo, populisti, che attraggono o che obbligano, per valorizzare l’istituzione a scapito del consumo del prodotto centrale, cioè della fede.

Ma forse le cose stanno mutando, e obbligheranno le religioni al cambiamento: il cittadino cerca di allontanarsi dall’istituzione per essere più vicino a un Dio che rivendica essere il suo prima di essere quello dell’istituzione. Il prodotto reclamato non è più la Chiesa, ma la fede, Dio, Gesù. La società civile si appropria del religioso, che diventa “ecologico”. Non dimentichiamo che il valore di un prodotto è dato da colui che lo consuma e non da colui che lo vende. Un prodotto è “buono” solo se, consumato, migliora l’opinione o il benessere del consumatore. Lo stesso vale per la religione: non è lei che cambia interiormente l’essere umano, ma ciò che viene dall’alto. Se la religione non è un “buon prodotto dall’alto”, ha solo legittimità per se stessa; di fatto, la si rifiuterà e con essa tutta la spiritualità.

 E l’islam in tutto questo?

Anche se l’islam non ha una gerarchia come la Chiesa cattolica, certi movimenti musulmani, o la cultura islamica di certi paesi, hanno la stessa tendenza a vendere la loro ideologia come elemento centrale, inaggirabile, per il cittadino, il che dà la sensazione che anche l’islam difenda il proprio ambito d’influenza. E come in Francia prima del 1905 (data della separazione della Chiesa e dello Stato) sembra voler dettare le regole dei cittadini secondo le proprie regole. Da qui derivano le polemiche che l’islam suscita in Francia e in Europa. La paura di veder sorgere uno Stato religioso spiega gli irrigidimenti nei confronti di questa religione. Se una ideologia politica, una religione, o perfino una certa economia, tenta di imporsi nella società civile, creerà o conflitti o diffidenza. Il religioso, o più “ecologicamente”, lo spirituale, è necessario alla società, come la laicità. E anche se verticale e orizzontale non hanno gli stessi fondamenti, possono incrociarsi. L’islam ha forse questo approccio, ma l’Europa non l’ha inteso così. Allora questa religione deve rassicurare e affermare che le libertà sono rispettate.

 Molte persone deplorano l’aspetto unicamente commerciale del Natale. Lei è d’accordo?

Sì, Natale è diventato un business prima di essere una festa religiosa; e questo per due ragioni. Innanzitutto, la Chiesa è responsabile di questo stato di fatto. Come ho già spiegato precedentemente, poiché la Chiesa non è più legittima, non lo sono più neanche i suoi prodotti, tra cui il Natale. Inoltre, essendo il Natale un riferimento storico e culturale molto popolare, è stato conservato dalla religione... commerciale, che cerca di aumentare il suo giro d’affari. Oggi la gente vive questa festa senza veramente metterla in relazione a Cristo. Eppure, la ricerca di spiritualità diventa una tendenza pesante: si cerca Dio, ma non in chiesa.

 Sì, ma i credenti hanno comunque il loro libero arbitrio...

Infatti, è per questa ragione che è ingiusto sentire la Chiesa dire al mondo secolare: “Voi avete buttato fuori Gesù.” Perché la Chiesa ha protetto il suo ambito d’influenza, rendendo inaccessibile la figura di Cristo e la fede. Poiché tutti i consumi devono passare dall’istituzione, questo sopprime la libertà di credere. Accettando Natale come una festa commerciale, il cittadino non manifesta necessariamente un rifiuto a credere, ma una reazione a un potere.

 Il marketing religioso è quindi a servizio di interessi non spirituali?

In effetti può esserlo. È una delle ragioni per cui il mio concetto di marketing è fondato sul dono, e non sul profitto né sulla performance. Lo spirituale, come il secolare, può essere legittimato ad andarsene dal momento che non contribuisce all’economia totalitaria che abbiamo attualmente. Gli industriali hanno imposto al grande pubblico un modo di acquistare e di consumare. L’obsolescenza programmata dei prodotti ne è un buon esempio. Tutto è fatto per spingerci al consumo: il cittadino, prima di essere un umano, deve essere un consumatore e un oggetto di risorsa per l’impresa. Pur usando parole diverse, la religione può comportarsi nello stesso modo: reclutare dei praticanti della sua ideologia, e non rispondere alla ricerca di spiritualità, di libertà e di felicità. La società è in grave crisi e si cerca. Ha bisogno di guarigione per i suoi cittadini in maniera olistica, cioè nelle sue quattro componenti: quella fisiologica, quella sociale, quella emozionale e quella spirituale. E la componente religiosa può essere di aiuto, in quanto lavora alla riconciliazione dell’uomo con se stesso, con l’altro e con il divino.

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(in “www.temoignagechretien.fr” del 28 dicembre 2011 - traduzione: www.finesettimana.org)



Martedì 07 Febbraio,2012 Ore: 20:05
 
 
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