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www.ildialogo.org KOINONIA: IN QUALE CHIESA (E PER QUALE CHIESA),di Alberto Bruno Simoni op

KOINONIA: IN QUALE CHIESA (E PER QUALE CHIESA)

di Alberto Bruno Simoni op

È possibile rispecchiarsi nei Lineamenta per il prossimo Sinodo dei Vescovi?


Circostanze particolari hanno indotto a riconsiderare Koinonia nel suo contesto più immediato in ambito domenicano (vedi Koinonia 4/2011): esercizio forse superfluo rispetto ai drammi che ci si presentano davanti ogni giorno, ma sempre utile per una collocazione più chiara, perché le appartenenze non siano passive e subite, o scrollate semplicemente di dosso. Siamo comunque connotati, ma non siamo questa o quella connotazione!
 
Se questo è vero nei confronti di una istituzione storica di tradizione spirituale - l’Ordine dei Frati Predicatori -, a maggior ragione vale nei confronti della comunità dei credenti di cui si fa parte in maniera tutt’altro che marginale: per questo viene da chiedersi ora in quale chiesa, e per quale chiesa, Koinonia vive e si muove. E questo non per una presa di posizione o volontà di contrap-posizione, ma nella partecipazione piena al dinamismo interno e al cammino storico del popolo dei credenti, che è sì visibile ma è anche nascosto: “in questa città io ho un popolo numeroso” (At 18,10).
 
Koinonia nasce dall’attenzione a questo popolo non visibile, segno di un desiderio e di una iniziativa volti a ripartire non solo dal primato ideale del vangelo dentro una struttura di cristianità, ma dalla priorità pratica della evangelizzazione per una rinascita della chiesa dal basso. Se possiamo dare valore retroattivo ad alcune parole dei Lineamenta per il prossimo Sinodo dei Vescovi 2012 (La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana), possiamo dire che se c’è una “assoluta centralità del compito dell’evangelizzazione per la Chiesa di oggi. Verificare il nostro vissuto, la nostra attitudine alla evangelizzazione, è utile ad un livello funzionale, per migliorare le nostre pratiche e le nostre strategie di annuncio”, è più che mai vero che “essa, più profondamente, è la via per interrogarci oggi sulla qualità della nostra fede, sul nostro modo di sentirci e di essere cristiani, discepoli di Gesù Cristo inviati ad annunciarlo al mondo, ad essere testimoni pieni di Spirito Santo (cf. Lc 24, 48s; At 1,8) chiamati a fare discepoli gli uomini di tutte le nazioni (cf. Mt 28, 19s)” (Lineamenta, n.2).
 
Non credo che anni fa ci si esprimesse in questi termini, ma il problema già esisteva e ne avevamo una certa percezione: una evangelizzazione non solo per ragioni funzionali - per migliorare le nostre pratiche e le nostre strategie di annuncio – ma per interrogarci sulla qualità della nostra fede e sul nostro modo di essere cristiani. Sono cose nettamente distinte: la prima interna ad un contesto di chiesa costituito da sottoporre a ritocchi, la seconda orientata a ricreare un contesto nuovo alla fede di sempre, poiché se è vero che il vangelo è lo stesso, la sua comprensione e traduzione di vita è sempre in fieri.
 
Se volessimo cogliere uno specifico della iniziativa da cui è nata Koinonia, si può dire questo: non partire da una visione ideologica della chiesa ad intra, fosse pure come alternativa (ortodossia); né privilegiare un pragmatismo efficientista ad extra (ortoprassi); ma attraverso relazioni personali, comunicazioni di ricerca libera dare vita – o generare – una comunione sostanziata di fede e rivestita di umanità, senza fughe spiritualistiche o intimistiche e senza facili utopie secolaristiche. Qualcosa insomma che ci avrebbe condannati alla inesistenza, ma ci avrebbe consentito di vivere! Tra pensiero e prassi, al centro la vita: “e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4)
 
Dopo circa 40 anni di vita della nostra scelta, possiamo dire di trovare espresso in un documento ufficiale il programma che d’istinto abbiamo perseguito fin da allora al di fuori di ordinamenti e strumenti pastorali formalmente previsti, per cui forse possiamo tentare di situarci nella chiesa attraverso una lettura retrospettiva di quanto il documento in questione propone come nuova prospettiva di evangelizzazione per la trasmissione della fede. La lettura di questo testo, cioè, può aiutarci a dire in quale chiesa e per quale chiesa vive e si muove Koinonia, quella appunto che “riscopre la sua vocazione di Ecclesia materche genera figli al Signore, trasmettendo la fede, insegnando l’amore che genera e nutre i figli” (ib. n.2).
 
Bastano perciò alcune sottolineature, nelle quali ci riconosciamo, come subito in questa: “La domanda circa il trasmettere la fede, che non è impresa individualistica e solitaria, ma evento comunitario, ecclesiale, non deve indirizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci e neppure incentrarsi analiticamente sui destinatari, per esempio i giovani, ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale. Deve divenire una domanda della Chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma corretta, poiché pone in causa la Chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere. E forse così si può anche cogliere il fatto che il problema dell’infecondità dell’evangelizzazione oggi, della catechesi nei tempi moderni, è un problema ecclesiologico, che riguarda la capacità o meno della Chiesa di configurarsi come reale comunità, come vera fraternità, come corpo e non come macchina o azienda” (n.2).
 
Così come quando poco dopo si parla di una Chiesa che raccoglie il popolo di Dio dalla dispersione, e si dice che essa non ha soltanto il “ruolo di attore, di soggetto della proclamazione, ma anche quello riflessivo dell’ascolto e del discepolato”. E per poter raccogliere il popolo dalla dispersione è necessario “individuare nuove espressioni dell’evangelizzazione per essere Chiesa dentro i contesti sociali e culturali attuali così in mutamento”. Ciò comporta – ed ecco un altro punto qualificante – che “le figure tradizionali e consolidate – che per convenzione vengono indicate con i termini “paesi di cristianità” e “terre di missione” – accanto alla loro chiarezza concettuale mostrano ormai i loro limiti. Sono troppo semplici e fanno riferimento a un contesto in via di superamento, per poter funzionare da modelli di riferimento per la costruzione delle comunità cristiane di oggi. C’è bisogno che la pratica cristiana guidi la riflessione in un lento lavoro di costruzione di un nuovo modello di essere Chiesa, che eviti gli scogli del settarismo e della “religione civile”, e permetta in un contesto post-ideologico come l’attuale di continuare a mantenere la forma di una Chiesa missionaria. In altri termini, la Chiesa ha bisogno, dentro la varietà delle sue figure, di non perdere il volto di Chiesa “domestica, popolare”. Pur in contesti di minoranza o di discriminazione la Chiesa non può perdere la sua capacità di restare accanto alla vita quotidiana delle persone, per annunciare da quel luogo il messaggio vivificante del Vangelo” (n.8).
 
Non ci sarebbe da rallegrarsi a leggere parole come queste in un documento ufficiale, senza doverle sentirle ripetere qua a là, da questo o quell’altro, ed essere sospettati di sovversivismo? Così come quando si dice che “la trasmissione della fede non è un’azione specializzata, da appaltare a qualche gruppo o a qualche singolo individuo appositamente deputato. È esperienza di ogni cristiano e di tutta la Chiesa, che in questa azione riscopre continuamente la propria identità di popolo radunato dalla chiamata dello Spirito, che ci raccoglie dalla dispersione del nostro quotidiano, per vivere la presenza tra noi di Cristo, e scoprire così il vero volto di Dio, che ci è Padre” (n.12). Tutto ciò è confortante per chi si è battuto a lungo perché in primo piano non ci fossero formule, sigle, etichette, denominazioni varie, ma semplicemente la nuda chiesa col vangelo in mano da condividere e vivere insieme, forti solo di un nuovo stile d’essere cristiani. Ma davvero simili pronunciamenti – oltre ad essere detti - potranno diventare stile di vita in maniera indolore?
 
Ma intanto le cose son dette e possono essere di conforto a quanti sono già orientati in questa prospettiva, anche perché ci viene indicato quale questo stile debba essere: “Questo stile deve essere uno stile globale, che abbraccia il pensiero e l’azione, i comportamenti personali e la testimonianza pubblica, la vita interna delle nostre comunità e il loro slancio missionario, la loro attenzione educativa e la loro dedizione premurosa ai poveri, la capacità di ogni cristiano di prendere la parola dentro i contesti in cui vive e lavora per comunicare il dono cristiano della speranza. Questo stile deve fare suo l’ardore, la fiducia e la libertà di parola (la parresia) che si manifestavano nella predicazione degli Apostoli (cf. At 4, 31; 9, 27-28) e che il re Agrippa sperimentò ascoltando Paolo: «Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!» (At 26, 28)… È questo lo stile che il mondo ha diritto di trovare nella Chiesa, nelle comunità cristiane, secondo la logica della nostra fede. Uno stile comunitario e personale; uno stile che interpella alla verifica le comunità nel loro insieme ma anche ogni singolo battezzato” (n.16).
 
Potremmo parlare, dal nostro punto di vista, di uno stile da “primo annuncio” su cui ci siamo battuti e abbiamo battuto (La Chiesa dei gentili!) e che non sfugge, pur tra ambiguità, all’attenzione dei Lineamenta: “Assunto a pieno titolo nel lavoro di riprogettazione in atto degli itinerari di introduzione alla fede, il primo annuncio si dirige ai non credenti, a quelli che, di fatto, vivono nell’indifferenza religiosa. Esso ha la funzione di annunciare il Vangelo e la conversione, in genere, a coloro che tuttora non conoscono Gesù Cristo” (n.19).
 
Basta questo per dire in quale chiesa e per quale chiesa – che si dica Koinonia o meno - ci adoperiamo, senza sovrapporre progetti, programmazioni ed organizzazione a quanto già il farsi chiesa comporta di suo nelle relazioni umane e nella comunicazione evangelica e sacramentale: che è già quanto dovremmo esprimere e incarnare nelle situazioni e nelle circostanze in cui ci ritroviamo. Certo, si ha la sensazione che quelli tirati fuori dal testo siano solo semi sparsi in un contesto di pensiero e pastorale non sempre favorevole al loro sviluppo autonomo. Il nostro intento è stato ed è quello di portare in primo piano questo stile di chiesa che è possibile, ma che richiede - come ci diceva Martino Morganti - un rovesciamento della piramide, tutt’altro che facile e probabile.
In ogni caso abbiamo una conferma e una precisa indicazione di marcia, che consente il dialogo e il confronto con chiunque voglia chiederci ragione della nostra speranza. Mi capita di rileggere queste significative parole della lettera agli Ebrei (3,6): “E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo”.
 
Alberto Bruno Simoni op

Articolo tratto da:

FORUM 256 (13 aprile 2011) Koinonia

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Giovedì 14 Aprile,2011 Ore: 17:29
 
 
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