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www.ildialogo.org L’Italia nazione cattolica?,di Elio Rindone

L’Italia nazione cattolica?

di Elio Rindone

L'articolo è tratto da Tempi di fraternità Ottobre 2010 . Ringraziamo la redazione per avercelo messo a disposizione. Per info www.tempidifraternita.it
Il riconoscimento delle radici cristiane, richie­sto con tanta insistenza dagli ultimi due pon­tefici, è con tutta evidenza finalizzato a un obiettivo: quello di fare di un’unica religione l’ele­mento caratterizzante dell’identità europea. Poco noto è invece il ruolo specialissimo che in tale pro­getto di riconquista confessionale occupa l’Italia. Il nostro Paese infatti, almeno secondo Giovanni Paolo II, ha un particolare rapporto col vangelo: “Il popolo italiano è destinatario e custode privi­legiato dell’eredità degli apostoli Pietro e Paolo: un’eredità squisitamente spirituale, vale a dire culturale, morale e religiosa insieme” (Allocuzio­ne di Giovanni Paolo II al Quirinale, 18/1/1986). Da questa premessa discende il ruolo decisivo dell’Italia nella strategia vaticana. In forza di que­sto privilegio, infatti, gli Italiani sono chiamati, anche se la cosa a molti era sfuggita, a una vera e propria missione: “L’Italia come nazione ha mol­tissimo da offrire a tutta l’Europa [...]. All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in special modo il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo” (Lettera di Giovanni Paolo II ai vescovi italiani, 6/1/1994).
Missione che non i cattolici italiani ma, si badi bene, il popolo italiano nel suo insieme può as­solvere perchè esso - ne è sicuro Benedetto XVI - è ancora oggi legato alle sue radici cattoliche: “In Italia la fede è viva e profondamente radicata [...]. La fede cattolica e la presenza della Chiesa rimangono [...] il grande fattore unificante di que­sta amata Nazione ed un prezioso serbatoio di energie morali per il suo futuro”(Discorso di Sua Santità Benedetto XVI ai partecipanti all’Assem­blea Generale della Conferenza Episcopale Ita­liana, 24/5/2007).
L’idea che gli italiani siano per definizione un popolo cattolico, ribadita in così autorevoli di­chiarazioni, potrebbe sembrare una bizzarria di papi di origine straniera che ci conoscono poco, ma non è così: al contrario, nel mondo ecclesia­stico italiano dell’ultimo secolo la nostra ‘cattolicità’ è un dato praticamente scontato. Il francescano padre Gemelli, per esempio, nel 1939 affermava che: “Non può non essere riconosciu­to che la tradizione e la missione del popolo ita­liano sono essenzialmente cattoliche, tanto che la italiana è la gens catholica per eccellenza”(A. Gemelli, Introduzione, in AA. VV., Chiesa e Sta­to. Studi storici e giuridici per il decennale della Conciliazione tra la Santa Sede e l’Italia, Mila­no 1939, I, p. X).
Il gesuita padre Lombardi, traendo da tale impostazione la logica conseguenza, non temeva di esagerare proclamando che: “Essere buon ita­liano contiene anche l’essere cattolico; essere anticattolico contiene per noi l’essere traditore della Patria” (R. Lombardi, L’ora presente e l’Ita­lia, in La civiltà cattolica, 1/1/1947, p. 22). Più recentemente l’arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale Biffi, invitava, pur con un linguaggio politicamente appena un po’ meno scorretto, a non dimenticare che: “Il cattolicesimo - che non è più la ‘religione ufficiale dello Stato’ - rimane nondi­meno la ‘religione storica’ della nazione italiana, oltre che la fonte della sua identità e l’ispirazione determinante delle nostre più autentiche gran­dezze” ( G. Biffi, La città di Petronio nel terzo millennio, in Il Regno Documenti, 2000, p. 550).
Ma già nell’Ottocento e ancor prima della for­mazione dello Stato unitario il Gioberti, nell’ope­ra Del primato morale e civile degli Italiani del 1843, sosteneva che il popolo italiano può van­tare un’innegabile superiorità sugli altri popoli per il semplice fatto che il papa ha la sua sede in Italia, sicché “Più vicini, più pronti, più imme­diati, più continui sono gli influssi della sua pa­rola [...]. Tanto che gli Italiani, umanamente par­lando, sono i Leviti della cristianità, essendo stati prescelti dalla Provvidenza ad aver fra loro il pontificato cristiano” (Torino 1920, p. 50). Quindi gli Italiani - proprio loro che, se ci fossero state le sta­tistiche dell’OCSE, si sarebbero classificati agli ultimi po­sti tra i Paesi più sviluppati - sarebbero chiamati a contri­buire alla civilizzazione degli altri Europei essendo un popolo eletto, una nazione sacerdotale il cui genio è stato plasmato dal papato, con la conseguenza, che al Gioberti sembra ovvia, che se è possibile essere cattolici senza essere italiani non è possibile essere perfettamente italia­ni senza essere cattolici.
Ragionevoli dubbi
Ora, che la chiesa cattolica abbia influenzato per secoli la vita, la mentalità, la cultura della maggioranza degli Italia­ni è un fatto innegabile, ma affermare che il cattolicesimo sia l’elemento che caratterizza il popolo italiano sembra francamente eccessivo. Gli Italiani, e oggi sono milioni, che rifiutano di fatto lo stile di vita proposto dal Vaticano o che consapevolmente lo contestano, possono essere anco­ra considerati estranei alla comunità nazionale o addirittu­ra, come diceva padre Lombardi, dei traditori?
Inoltre, un’influenza storica, per quanto duratura, può marchiare per sempre, indelebilmente, l’identità di un po­polo? È vero, al contrario, che i fenomeni storici hanno, come è ovvio, un inizio e una fine, e quando una civiltà decade alcuni elementi di essa sopravvivono dando vita a nuove sintesi culturali. Così la religione pagana, che aveva plasmato per secoli la vita dei popoli italici, è stata sostitu­ita dal cristianesimo, e non si può escludere che quest’ulti­mo possa subire una sorte simile. Per quale ragione si do­vrebbe allora affermare che gli italiani che già oggi non si sentono custodi dell’eredità di Pietro e Paolo, almeno nel­la forma proposta dal magistero, stiano rinnegando, come vorrebbe il cardinale Biffi, la propria identità?
Ma una questione ancora più radicale sembra ineludibile: quali sono le caratteristiche che, per usare l’espressione di padre Gemelli, consentono di identificare il popolo italia­no come ‘la gens catholica per eccellenza’? Il numero dei battezzati? La frequenza alla messa domenicale? La con­formità alla morale tradizionale, specialmente in campo sessuale? L’obbedienza al papa? A prescindere dal fatto che la pratica sacramentale ha conosciuto negli ultimi anni un vero e proprio crollo e dalla constatazione che la mag­gioranza degli Italiani da tempo non è in sintonia col magi­stero romano in tema di divorzio, aborto, coppie di fatto, omosessualità..., si può davvero identificare il seguace di Gesù di Nazaret da questi elementi?
Per definire un popolo come ‘cattolico’, ovviamente al di là delle scelte individuali infinitamente varie, bisogne­rebbe piuttosto esaminare alla luce del vangelo il suo stile di vita, il modo di sentire e di agire, quello che, con Scoppola, potremmo chiamare il ‘tessuto etico’ di una na­zione, cioè “La sedimentazione spontanea dell’esperienza morale, legata certo alla coscienza individuale, ma che qui interessa in quanto si proietta sulla vita civile ed è perciò premessa naturale del senso di appartenenza alla comuni­tà, di identità collettiva, e in definitiva del senso della cit­tadinanza” ( P. Scoppola, Tessuto etico, forze politiche, istituzioni, in A. Giovagnoli, Interpretazioni della Repubbli­ca, Bologna 1998, p. 17). Se ci si pone in quest’ottica, la tesi della ‘cattolicità’ del popolo italiano va sottoposta ad attenta verifica.
Cattolici D.O.C.?
Sarebbe certamente sbagliato ricordare solo gli aspetti ne­gativi del carattere degli Italiani come sarebbe indizio di faziosità attribuirne tutta la responsabilità alla chiesa cat­tolica. Sui nostri pregi - simpatia, creatività, duttilità, spiri­to d’iniziativa, fantasia, buon gusto - non mi pare tuttavia il caso di insistere: ne siamo già abbastanza fieri e del resto hanno poco a che fare con l’etica. È inevitabile invece con­centrare l’attenzione sugli standard di moralità del popolo italiano per vedere se siano quelli che sarebbe lecito atten­dersi da una gens catholica.
Da questo punto di vista, il giudizio ottimistico dei so­stenitori della ‘cattolicità’ degli Italiani appare poco fon­dato perchè, con ammirevole costanza dall’Ottocento ad oggi, essi ignorano pervicacemente la realtà effettiva. For­se è solo in virtù della sua mentalità platonizzante e della fiducia in un possibile aggiornamento dottrinale della chiesa romana che il Gioberti può attribuire agli Italiani una su­periorità civile e morale per il fatto che su di loro ‘più con­tinui sono gli influssi’ della parola del papa: non le idee debbono tener conto della realtà ma questa deve adeguarsi alla sua tesi precostituita; dalla premessa si ricava infatti la conclusione senza preoccuparsi minimamente di verificar­la: visto che il papato ha la sua sede a Roma, gli Italiani ne risentiranno certamente l’influenza più di altri. E Giovanni Paolo II non fa che riprendere la sostanza, se non il lin­guaggio, di Gioberti: non parla più di un primato morale del popolo italiano ma ne fa l’erede privilegiato di Pietro e di Paolo, con buona pace delle più recenti indagini empiriche che mostrano come quell’eredità sia stata da tem­po dilapidata.
Se ci si basa, invece, su un’attenta osservazione della realtà, pur evitando ingiustificate generalizzazioni e giudi­zi stereotipati, è semplicemente impossibile chiudere gli occhi su difetti ricorrenti e facilmente documentabili.
A cominciare dalla diffusione dell’illegalità: insofferen­za del cittadino medio per le regole del vivere civile, eva­sione fiscale a livelli patologici, criminalità organizzata che certamente sarebbe stata da tempo sconfitta se non fosse tollerata da una parte almeno della società e non godesse della connivenza di non piccoli settori del mondo politico. Più dell’illegalità dà fastidio la denuncia di essa. E in effet­ti i reati spesso non vengono puniti adeguatamente: con­doni, indulti e amnistie sono frutto di un radicato ‘perdonismo’, mentre chi chiede l’applicazione delle san­zioni è subito accusato di ‘giustizialismo’.
La scarsa sensibilità morale si manifesta poi nell’ipocri­ta professione di valori che vengono di fatto regolarmente disattesi: da qui i frequenti scandali che scoppiano nel no­stro Paese, specialmente quando chi si atteggia a difensore della famiglia viene sorpreso in avventure boccaccesche. La situazione, semmai, è ulteriormente peggiorata negli ultimi anni dal momento che la corruzione, l’uso delle tan­genti, i concorsi truccati, il familismo amorale, il darwinismo sociale, le manifestazioni di xenofobia e di razzismo non suscitano più alcuna indignazione: vengono eletti in parlamento e ricoprono cariche istituzionali perso­naggi che in altri Paesi europei nessun partito si sognereb­be di candidare, e mafiosi condannati con sentenza defini­tiva sono addirittura presentati come eroi mentre chi spez­za il vincolo della complicità viene messo al bando dal suo ambiente.
I principi democratici non sembrano particolarmente cari alla maggioranza degli Italiani: siamo arrivati tardi alla de­mocrazia, dopo aver dato i natali a un regime dittatoriale che ha fatto scuola in Europa, e pare che continuiamo ad avere fiducia negli uomini forti, nei salvatori che possono risolvere, da soli, problemi la cui soluzione sarebbe in re­altà faticoso compito dei cittadini. Valori civili di sicura rilevanza etica come la libertà di coscienza, il pluralismo dell’informazione, il principio di laicità, la parità uomo-donna, il rispetto dei diritti delle minoranze... non sembra­no suscitare grandi passioni.
La mancanza di senso dello Stato induce a puntare sulla furbizia per cavarsela in una società avvertita come estranea ai propri interessi. Maestri nell’arte del trasformismo, cer­chiamo di stare sempre dalla parte del più forte, di chi può elargire privilegi e prebende, godendo così dei vantaggi che il clientelismo assicura a danno della massa dei senza pote­re. Le ultime statistiche dicono che l’Italia è uno dei Paesi europei in cui è più accentuata la distanza tra ricchi e poveri, ma demandiamo la soluzione della questione alla generosità di coloro che si occupano di volontariato: a cambiare i crite­ri di distribuzione della ricchezza, la minoranza dei privile­giati non ci pensa nemmeno. La maggioranza degli sfruttati, da parte sua, pare incapace di ribellarsi al potere con moda­lità mature e nonviolente: un’obbedienza passiva e una sot­tomissione infantile all’autorità sembrano tra le nostre ca­ratteristiche più radicate.
L’interesse per la cultura, poi, è piuttosto modesto: gli Italiani sono ai primi posti nelle classifiche europee per il numero di ore trascorse davanti al televisore e agli ultimi posti per la lettura di libri e giornali. È evidente che il mez­zo televisivo non è il più adatto per favorire la riflessione e l’approfondimento dei problemi, sicché superficialità e approssimazione sono una nostra caratteristica. Da qui l’ac­cettazione acritica delle idee correnti, anche se non fonda­te su argomentazioni razionali e addirittura in contrasto con dati scientifici ampiamente acquisiti: è noto, del resto, che i risultati degli studenti italiani nelle discipline scientifiche non sono brillanti, mentre per fatturato di maghi e astrologi siamo ai primi posti in Europa. Il nostro scarso apprezza­mento per gli intellettuali è attestato tra l’altro dall’indiffe­renza che circonda premi Nobel come Fo, Dulbecco, Rubbia o Levi Montalcini.
O cattolici per legge?
Se queste sono le caratteristiche dell’italiano medio, delle due l’una: le gerarchie ecclesiastiche o non conoscono il loro popolo o non prendono troppo sul serio il vangelo! Non si può proprio dire, infatti, che la vita della maggioranza degli Italiani tenti di ispirarsi al messaggio delle Beatitudini e che si segnali per l’umile desiderio di mettere in pratica quel­l’amore dei nemici a cui sono chiamati i discepoli di Gesù: “Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi ma­ledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti per­cuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il man­tello, non rifiutare la tunica”(Luca 6, 27-29).
Papi e vescovi farebbero bene quindi a dichiarare espli­citamente che ritengono impraticabile l’ethos del vangelo o in alternativa, abbandonati i progetti neoguelfi e il cliché della gens catholica, a sottoporsi a un severo esame di co­scienza. Dopo un insediamento di secoli nella penisola ita­liana, disponendo di risorse spirituali e materiali invidiabili, di fronte a un quadro così desolante non dovrebbero inter­rogarsi sulle proprie responsabilità? La regola vigente in Vaticano pare che sia invece, oggi più che mai, quella di ignorare la realtà.
Tanto più significativa perciò l’eccezione dell’arcivesco­vo di Milano, il cardinale Montini, che nel 1958 afferma­va: “È ancora diffuso da noi il detto che l’Italia è un paese cattolico, perchè, per fortuna, la grande maggioranza dei suoi abitanti riceve ancora il battesimo; ma non si riflette abbastanza a quanti non vivono in conformità alla dignità e all’impegno morale che il battesimo porta con sé [...]. Dobbiamo riconoscere che grandissima parte dei nostri fe­deli sono infedeli; che il numero dei lontani supera quello dei vicini e che il raggio pastorale, in molte parti, va gradatamente restringendosi” (G. B. Montini, La carità del­la Chiesa verso i lontani, in Discorsi su la Chiesa (1957-1962), Milano 1962, p. 54).
Negli anni del post-concilio la chiesa italiana, guidata da uomini vicini a Montini, divenuto papa Paolo VI, tentò un rinnovamento della pastorale sulla base della consapevo­lezza che in Italia i cattolici erano minoranza, tanto che in un documento della CEI del 1975 si affermava esplicita­mente: “Non sembri quindi eccessivo dire che l’Italia è un paese da evangelizzare”(Evangelizzazione e promozione umana, in Enchiridion Cei, Bologna 1985, II, p. 684).
Il tentativo di trasformare il cattolicesimo italiano, inco­raggiando il passaggio da un tradizionalismo ritualista a un’accettazione consapevole e matura del messaggio evan­gelico, da tradurre in coerenti comportamenti morali, non ebbe grande successo, sicché a pochi mesi dalla morte Pa­olo VI chiudeva il suo pontificato con questa domanda angosciata: “Dov’è mai il popolo credente, non solo fedele nell’osservanza di qualche precetto, ma nutrito, ma viven­te, ma gaudioso di credere, di pregare e di confessare a Cristo un amore forte e capace di portare con lui la Cro­ce?” (Discorso alla Cei del 24/5/1978, in Insegnamenti di Paolo VI, Roma 1979, p. 390).
Per fronteggiare una situazione sempre più critica gli ultimi due pontefici, abbandonando una strategia che ap­pariva fallimentare, sono tornati alla vecchia prassi. Angosciati per la condizione di marginalità che occupano i valori religiosi nella società europea, ma poco fiduciosi nella via lunga e faticosa della libera formazio­ne delle coscienze, hanno scelto di preservare i costumi tradizionali puntando sulla proibizione, imposta per leg­ge, di comportamenti condannati come contrari non solo agli insegnamenti della chiesa ma pure alla natura del­l’uomo.
E così, in Italia più che mai, se ci si rassegna al fatto che l’adesione di fede appartiene solo a una minoranza, ci si batte senza esclusione di colpi per salvare il cattoli­cesimo almeno come tradizione di popolo. E ciò a tutti i costi: anche a costo di allearsi con i partiti più reazionari e con i governi più impresentabili, purché siano disposti, con la forza della legge, a mantenere in vigore i costumi tradizionali.
Il prezzo da pagare può sembrare alto: si tace, per esem­pio, sulla corruzione dilagante tra politici che pure si di­cono cristiani, o si formulano critiche molto blande di fron­te a leggi di indubbio sapore xenofobo, o addirittura si arriva ad esprimere apprezzamento per dottrine un tempo condannate senza appello. Clamoroso l’episodio della let­tera (Corriere della sera 23/11/08) indirizzata da Bene­detto XVI a uno studioso che si dichiara non credente, Marcello Pera, nella quale il papa lo elogia perché in un suo scritto “Analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio”. Peccato che di questo costitutivo legame tra liberalismo e cristianesimo, quando era sostenuto da uno studioso credente come il Lamennais, non si fosse ac­corto un altro papa, Gregorio XVI, che anzi nell’enciclica Mirari vos del 1832 aveva considerato le riven-dicazioni liberali semplicemente incompatibili col cattolicesimo!
Ma si tratta, in fondo, di costi accettabili se confrontati con i vantaggi che ne conseguono: esenzioni fiscali, finanziamenti alla scuola cattolica, spazio esorbitante per sceneggiati televisivi a carattere religioso... Del resto, è il solo modo per conservare all’Italia l’etichetta di nazione cattolica e metterla in condizione di svolgere l’importan­te compito di difendere in Europa quei valori che la chie­sa romana considera essenziali, nella speranza di ricon­quistare un’egemonia culturale a livello europeo. Proprio con questa missione assegnata all’Italia si spiegano, a mio parere, i numerosi non possumus, talvolta estremamente impopolari, pronunciati dalle gerarchie ecclesiastiche nelle occasioni più svariate: dalle proposte legislative del governo Prodi sulle coppie di fatto alla ricerca sulle cel­lule staminali, dal caso Welby alla vicenda Englaro. In gioco, infatti, non è una singola questione ma tutta una strategia: se non riuscisse a mantenere la sua egemonia in Italia, come il Vaticano potrebbe sperare di svolgere un ruolo di primo piano in Europa?
Nazione cattolica o clericale?
Si tratta di una strategia vincente? Forse no per quanto riguarda la missione europea: è difficile, infatti, credere che un’Italia portabandiera di un cattolicesimo così oscurantista possa trovare ascolto in società decisamente più aperte della nostra alla modernità, svolgendo con succes­so il compito, assegnatole da Giovanni Paolo II, ‘di di­fendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e cultu­rale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo’. Ma -questa è la dura realtà - strategia vincente di sicuro in Italia, almeno per il momento e grazie alla scarsa reattività di un mondo laico sempre più minoritario.
Vincente, però, solo se giudicata dal punto di vista del­l’efficacia politica. Molti Italiani, infatti, sembrano as­suefatti alle continue interferenze del Vaticano sull’atti­vità parlamentare, non criticano i crescenti privilegi con­cessi dai governi alla chiesa romana e meno che mai pro­testano contro la pretesa di individuare nel cattolicesi­mo l’identità della loro nazione. Identità che in un Pae­se moderno dovrebbe dipendere piuttosto, per citare an­cora il cattolico Scoppola, “Dalla consapevolezza vis­suta dei cittadini di essere titolari di diritti e di doveri nei confronti della comunità sulla base di valori comu­ni, condivisi, che sono quelli espressi dalla Costituzio­ne” (op. cit., p 23).
Dal punto di vista evangelico, invece, è certamente una strategia perdente, perchè in contrasto con l’invito all’im­pegno per la costruzione del regno di Dio, che esige la conversione del cuore e, perciò, la libera risposta dell’uo­mo. Non si può essere credenti per legge: e per rendere cristiana una società non bastano certo le cerimonie litur­giche avulse dalla vita (“Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio”[Matteo 7,21]), né il rispetto di norme arcaiche e oppressive (“Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!”[Marco 2,27]), né la sottomissione a gerarchie ecclesiastiche che chiedono di prestar fede ad arbitrarie elaborazioni teologiche (“annul­lando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi”[Marco 7,13]).
Forse quindi il popolo italiano è stato per secoli, tranne rare eccezioni, ed è, più che il custode privilegiato del messaggio evangelico, la vittima predestinata di una stra­tegia vaticana che, rinunciando alla testimonianza evan­gelica, si accontenta di una società clericale. Gli Italiani, infatti, hanno subito conseguenze negative su due piani. Danneggiati da un punto di vista civile, perchè al fine di mantenere la sua egemonia il Vaticano si è di solito alle­ato con le forze politiche più ostili a ogni rinnovamento, costituendo, come scriveva Gramsci, “La più grande for­za reazionaria esistente in Italia, forza tanto più temibile in quanto insidiosa e inafferrabile”(A. Gramsci, La Correspandance Internationale, 12/3/1924).
Ma danneggiati anche da un punto di vista religioso, perchè, come aveva notato già Machiavelli, proprio a cau­sa dei comportamenti della chiesa romana, l’Italia “Ha perduto ogni divozione e ogni religione [...]. Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo: di essere diventati sanza religione e catti­vi” (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 12).


Mercoledì 13 Ottobre,2010 Ore: 16:14
 
 
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