- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (313) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org PARLIAMO DI RIFORMA. O NO?,

PARLIAMO DI RIFORMA. O NO?

Alcune riflessioni di stimolo al dibattito sulla riforma della Chiesa Cattolica. In Forum-Koinonia n. 204 (9 maggio 2010)


1 - P.Ernesto Balducci nel 1967
“Da noi, infatti, si è ormai stabilizzata una certa 'politica' sul concilio, la quale sembra stare a cuore non solo a molti uomini dell'istituzione ecclesiastica, ma anche ai responsabili dei grandi strumenti di comunicazione. Essa ha un canone del tutto conforme alla nostra tradizione retorica: parlare molto del concilio, ma senza dar noia a nessu­no, e soprattutto senza insistere sulle sue opzioni fon­damentali di riforma”.
Ernesto Balducci
In Riforma da Roma?, Queriniana 1968, p.6
2 – In vista dell’incontro del 16 maggio
“Chiesa sinodale”
Per trasmettere un vangelo di libertà
Non possiamo nasconderci che intorno a noi è diffusa – vox populi - una invocazione di riforma della chiesa, che non può non colpirci: perché è così dopo circa 50 anni dal Concilio Vaticano II, quando appunto si pensava che questa avvenuta riforma fosse solo da portare a compimento? L’invocazione perciò è inutile indirizzarla in alto, perché i vertici potrebbero sempre dire “abbiamo già dato”. In effetti non si può sottovalutare l’immane sforzo che la chiesa ha fatto nei primi anni ’60 per darsi un altro volto davanti al mondo, e tutto rimane incancellabile.
L’invocazione deve essere raccolta invece da tutte quelle forze che hanno vissuto questa svolta epocale, per chiedersi a loro volta: che ne abbiamo fatto di questa eredità? Forse l’abbiamo dissipata e compromessa? Non avremmo abdicato alla responsabilità di trasmetterla alle nuove generazioni come compito? Questo per dire che non possiamo non chiederci: “Sentinella a che punto siamo della notte?” e tornare a vegliare, magari riprendendo in mano l’aratro per una nuova semina. Come scriveva il card. C.M.Martini il 25 aprile (Corriere della sera): “Dipende anche da noi come sarà la Chiesa del futuro: Chiesa dei poveri o Chiesa dei potenti”.
Ed allora è giocoforza uscire da tutte le illusioni e approssimazioni e improvvisazioni riformiste a cui ci siamo affidati. Abbiamo creduto che la terra promessa fosse a portata di mano e bastasse piantarvi le nostre tende, ma in realtà ci rendiamo conto che dobbiamo ripartire da capo e riattivare quella volontà di riforma globale che ha dato vita al Vaticano II. In questo senso ha ragione M.Faggioli, quando scrive che “tra le vittime della crisi attuale vi è anche un’idea di riforma della Chiesa, o meglio, l’idea stessa della necessità di pensare la Chiesa come un’istituzione dinamica, capace di cambiare e di reagire alle crisi” (Europa, 28 aprile 2010). Egli parla ancora di “doping ecclesiologico a cui il papato contemporaneo si è sottoposto negli ultimi tre decenni”, rafforzando “l’unanimismo e il conformismo di una Chiesa che è diventata centralizzata e personalizzata sulla persona del pontefice come non mai”.
Se questa è, allo stato attuale, la situazione, per sbloccarla ci vorrebbe davvero un nuovo Concilio Vaticano II, non però come nuova assise di vertice, ma come movimento della base, che a partire dalla lettera ne interpreti e ne incarni lo spirito. Questo lavoro, per la verità, è stato fatto un po’ dappertutto, ma se lo stato delle cose suscita una invocazione di riforma, vuol dire che bisogna spassionatamente interrogarci su come è stato fatto, anche se si tratta di rimettere in discussione se stessi ed il proprio cammino.
Mentre “in capite” è stata compiuta un’opera di “ingegneria ecclesiastica” che ha accelerato i tempi della riforma come compromesso istituzionale (la grande opera di Paolo VI) recepito passivamente dalla massa, salvo reazioni di chiusura totale (si pensi al lefebvrimo) “in membris” si è sviluppata una iniziativa di dissenso anti-istituzionale prima e di frazionamento extra-istituzionale poi. In ogni caso, il discorso istituzionale della riforma o è stato appannaggio dei vertici, o è stato disconosciuto e ignorato dalla base.
Come si vede, tutto è molto semplificato, ma sta di fatto che un discorso istituzionale di riforma va fatto e anche la base, nelle sue diverse espressioni ed articolazioni, se ne deve fare carico, secondo una logica globale e non più settoriale: ogni parte sia portatrice e segno del tutto. E forse proprio ora potrebbe essere la fase nuova dell’”aggiornamento” conciliare, che ri-generi tutto il Vaticano II.
Se simile ipotesi di lavoro è condivisibile, non bastano più i facili entusiasmi, né le magre soddisfazioni di cellule vaganti, ma è necessario tornare a condividere la “sollecitudine per tutte le chiese” al di là delle proprie logiche di nicchia: come sarebbe possibile, diversamente, camminare in stato di Concilio e far rivivere il Vaticano II? Anche se tutto questo ha un prezzo, da pagare secondo la legge che gli antichi chiamavano “di generazione e corruzione”, nel senso che un cambiamento sostanziale si ha con l’abbandono di una certa forma e l’assunzione della forma diversa. In termini evangelici è il discorso del vino e degli otri!
Questo vale per la grande chiesa, che deve mutare forma, per cui l’immagine ideale di chiesa di cui parla la Ecclesiam suam deve diventare suo nuovo volto reale, operazione alquanto impegnativa! Ma vale anche per le tante diverse forme che in alternativa abbiamo dato alle nostre chiese, comunità locali e formazioni di base, con formule, sigle, etichette e surrogati vari. Buona cosa il proprio particolare, purché non si dimentichi che deve incarnare e materializzare - e quindi moltiplicare - la forma unitaria, che va salvaguardata dall’arbitrio dei singoli, ma anche dalla pura e semplice uniformità ufficiale: e non può che essere la “forma evangelii”. Sempre a proposito della teoria “generazione e corruzione”, si parla di una “riduzione alla materia prima” o risoluzione ai minimi termini, che forse è quanto si richiede in questo momento per una rigenerazione o rinascita della chiesa stessa. Ancora in termini evangelici ci sono le parole di Gesù: “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà” (Luca 17,33).
Per avere un criterio orientativo sul minimo vitale da salvaguardare perché ci salvi, basta ripensare a cosa il Figlio dell’uomo vorrebbe trovare al suo ritorno: la fede! Ed è questa unica ricchezza che va messa a frutto come talento ricevuto in consegna. Ma per uscire da affermazioni generali e venire al nostro piccolo – senza per questo auto-promuoversi – c’è da dire che fin da principio non c’era nessuna intenzione di darsi una identità propria al di fuori della “predicazione del Vangelo” e del ritrovarsi radunati in amicizia e fraternità da questa Parola ascoltata e creduta. Ma è stato inevitabile che ciascuno desse una sua lettura della iniziativa che è all’origine di Koinonia, vuoi per accettarla come pure per disconoscerla. Non proponevamo una formula ma semplicemente la nostra disponibilità - come frati domenicani - per un cammino umano e di fede insieme, lasciando che ognuno avesse proprie attese e relative delusioni, come era facile negli anni ’70, in cui sembrava impossibile non venire schierati ed etichettati.
Bene o male siamo andati avanti, attraverso tutte le possibili stagioni e vicissitudini, adattandoci alle condizioni del momento, ma senza perdere di mira l’unico obiettivo possibile: “diventare credenti” con gli altri per imparare a stare insieme tenendo ogni cosa in comune (cfr Atti 2,44), e “venire alla fede” per essere “un cuore solo e un'anima sola” (Atti 4,32). Tutto questo nella quotidianità e diversità di ciascuno e di tutti, con la consapevolezza che un piccolo seme potesse diventare il grande albero dove gli uccelli dell’aria trovano riparo: e senza programmi e strategie particolari, ma confidando nella forza vitale del seme, che cresce e si sviluppa indipendentemente dal fatto che vegli o dorma chi lo ha seminato.
Perché dire questo ora? Perché è arrivato il momento in cui questo chicco di grano si è spogliato di ogni possibile involucro, nella speranza che morendo materialmente possa portare frutto nel segno di una condivisione libera ed invisibile, per cui poter dire che Koinonia non è qua o là, ma tra di noi, dal primo all’ultimo arrivato: non per far gruppo o pressione ma per fare spazio alla comunione. Devo dire che ho trovato conforto a questo modo di sentire e di pensare nella lettura delle prime pagine di un libro di Christoph Theobald – Trasmettere un vangelo di libertà (EDB, 2010) - che sarà motivo e oggetto del nostro incontro del 12 giugno e da cui riprendiamo alcune indicative parole.
La parola da trasmettere, dice l’autore, “è il vangelo della libertà, notizia di bontà radicale — eu-aggelion — che, attraverso questo libro, vorrei far risuonare: vangelo di Dio perché ogni parola di vita supera colui che la proferisce e colui che l'ascolta e che nulla garantisce in anticipo che essa li faccia diventare «viventi parlanti»; vangelo di libertà perché tale parola può venire soltanto dall'intimo del cuore umano per manifestare la sua perfetta concordanza con se stesso, perché nulla può rivelare la libertà di Dio se non la libertà umana. La trasmissione del vangelo, di cui oggi tanto si discute, trova qui la sua vera origine. La sua specifica difficoltà non è quella di un buon metodo o di una strategia più ingegnosa, come qualche volta ci si vuol far credere. In questo libro adotto semplicemente l'ipotesi biblica: quando fede e parola fanno corpo, al punto che la formula paolina - “ ho creduto perciò ho parlato” - si dimostra vera, allora all'interno di uno scambio, la trasmissione del vangelo di libertà diventa possibile; ad alcune condizioni, però, di cui la prima è l'ospitalità come apertura di uno spazio di vita dove gli stranieri possono diventare familiari” (p. 10).
Oltre che di una verità, qui c’è l’indicazione di un metodo che è l’anima stessa di Koinonia ad extra. Ma il problema, si diceva, è come questo evento extra-istituzionale fatto di rapporti inter-personali, si situi poi negli spazi istituzionali che di suo vorrebbero essere normativi e determinanti. Anche perché è a partire di qui che si può ricreare una saldatura col mondo della visibilità ufficiale, quasi a dimostrazione che Dio sceglie nel mondo “ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28). In effetti, sembra non si possa aspettare dall’alto una iniziativa credibile di riforma, salvo qualche Vescovo che si è convertito al Popolo; ma forse proprio per questo sta al Popolo di Dio ri-convertire i Vescovi!
 
In questo senso, il ricorso alla figura di “chiesa sinodale”, che nell’attuale contesto prendiamo in considerazione, si presta a quella visione d’insieme di riforma che ricerchiamo, e offre lo spazio necessario per la saldatura tra i due emisferi di chiesa che devono ritrovare una vitale complementarità: istituzione-gerarchica e vita di fede (sensus fidei) del Popolo di Dio! È una figura calata un po’ dall’alto, quasi come invito a non disturbare il manovratore, ma che in realtà è valida solo se parte dal basso come effettivo camminare insieme, fianco a fianco, “per questa via nuova e vivente” (Ebrei 10,20). Essa racchiude in sé storia, tradizione, significato teologico, necessaria soggettività, motivi di prassi, che sono la sintesi del cammino del Popolo di Dio nella storia della salvezza e degli uomini. E soprattutto può significare un processo comunitario fatto di persone in carne ed ossa con la loro storia, prima che una qualche forma di aggregazione ecclesiale per quanto approvata e vincente! Hanno un peso reale, per la Chiesa tutta, quei due o tre riuniti nel suo Nome, e basta?
ABS
 
3 – Angelo Bertani riprende il tema su Europa del 7 maggio 
Chiesa nuova per una nuova società
Nel Forum telematico (http://www.koinonia-online.it) che affianca la bella rivista cartacea Koinonia, il domenicano Alberto B. Simoni riprende l’articolo di Massimo Faggioli (Europa 28 aprile). La questione è di grande attualità: di fronte alle difficoltà di immagine, organizzazione e identità, la Chiesa appare incerta e divisa tra due possibili risposte. La prima è quella del rinnovamento profondo, riattivando la dinamica del dialogo che fu avviata dal Concilio e coinvolgendo tutto il popolo di Dio; la seconda è quella di reagire a un presunto assedio «concentrando sul papato i poteri di repressione e di controllo».
L’opzione è tra una chiesa che assomigli a una fortezza o a una caserma e una chiesa comunità, un popolo in cammino con gli uomini, di cui parla Carlo Cardia sul Corriere della Sera del 4 maggio, correggendo l’interpretazione forse troppo "politica" di Galli Della Loggia (Corriere del 26 aprile), secondo il quale la Chiesa fa oggi una scelta di campo, «si allinea all’Occidente »; mentre secondo Cardia si tratta piuttosto di una scelta pastorale e spirituale.
Nel mondo che cambia servono risposte nuove, comportamenti più trasparenti, idee capaci di interpretare e guidare il presente e il futuro. Serve una “mediazione culturale” creativa che, pur conservando quel che c’è di valido nella tradizione e nelle esperienze passate, realizzi però un coraggioso rinnovamento di idee e comportamenti. Tutto ciò non si può fare per decreto o per decisione dei vertici, ma solo attraverso un confronto e una maturazione comunitaria e collegiale .
Certo è importante che il cardinale Bagnasco abbia detto «Credo fermamente, che sia opportuno partecipare con tutte le energie culturali e nelle forme più varie alle celebrazioni del prossimo anno, una felice occasione per un nuovo innamoramento del nostro essere italiani».
Forse è vero che «i cattolici sono l’ultima trincea dell’unità del paese» (vedi il sito www.camaldoli.org); ma è anche più importante che diventino protagonisti attivi e vivaci di una nuova unità del paese, fondata sull’accoglienza, la solidarietà, la giustizia sociale, il lavoro, la cultura dei diritti e della cittadinanza; e che il popolo cattolico sia sottratto alle oblique e pericolose seduzioni leghiste, e non solo quelle (G. Crainz, “La nazione oscurata”, la Repubblica 4 maggio).
Insomma, come scrive Faggioli, una Chiesa dinamica, partecipata, capace di dialogo e di comunione è preziosa anche per la qualità della vita sociale e politica. Dossetti diceva sempre che la renovatio ecclesiae è preziosa anche per la renovatio civitatis.
Angelo Bertani
in “Europa” del 7 maggio 2010
 
 4 - Parole di Mons. Pat Power
     Vescovo Ausiliare di Canberra-Goulburn/Australia
La Chiesa cattolica ha bisogno di riforma totale
L'attuale crisi che affronta la Chiesa cattolica, e che deriva dall’abuso sessuale, è probabilmente la sfida più grave che  la Chiesa deve affrontare dopo la Riforma del 16° secolo. La risposta in primo luogo deve essere chiaramente concentrata sulle vittime di tali abusi, le loro famiglie e le altre vittime secondarie. Il fatto che reca danni incalcolabili alle persone innocenti e ha  conseguenze di lungo termine  in molti casi deve essere chiaramente ed onestamente riconosciuto. Io sono contento che  ogni sforzo sia fatto  a riguardo della giustizia per le vittime e che siano state adottate tutte le misure possibili per ottenere la guarigione  e per la riparazione alle vittime.

Nel rispondere alle  forme di abuso sessuale all'interno della Chiesa non è sufficiente concentrarsi sul peccato e il fallimento dei colpevoli di abuso. Non è solo una questione del pentimento individuale, ma è necessaria una riforma sistemico-totale delle strutture della Chiesa. Un ambiente ecclesiastico che  ha consentito tale comportamento aberrante non può più essere tollerato. Il Vescovo Geoffrey Robinson, nel suo libro “Confronting Power and Sex in the Catholic Church” del 2007, è giunto alla convinzione incrollabile che all'interno della Chiesa cattolica ci deve essere assolutamente un profondo e duraturo cambiamento. Difficilmente passa un giorno senza che senta un grido dal cuore per tale cambiamento dal popolo che amaveramente la Chiesa, giovani e vecchi, uomini e donne, laici, sacerdoti e religiosi. Durante questo Anno Sacerdotale, molti dei miei colleghi in tutta l'Australia chiedono a gran voce una leadership credibile da parte della gerarchia che si senta coinvolta coinvolge  al di là  di semplici parole. Sono certo che tali richieste si sentiranno ripetere quando il Consiglio Nazionale dei Sacerdoti si riunirà a Parramatta il prossimo luglio.

Eppure, spesso le persone sentono che nessuno  ascolta le loro preoccupazioni. I Gruppi che invocano la riforma sono regolarmente respinti come  fomentatori di disordini con poco amore per la Chiesa, mentre in realtà i loro cuori sono spezzati  per la Chiesa, perché vedono che la Chiesa si sta allontanando sempre più dal messaggio di Gesù. Forse questa crisi che ci ha  portato tutti noi  di rinvenire ai nostri sensi.

 
Nel 1996, ho tenuto un discorso nel quale ho espresso le mie speranze per la Chiesa Cattolica. Erano :
·  una Chiesa più umana  
· una Chiesa più umile  
· una Chiesa meno clericale  
· una Chiesa più inclusiva (e quindi veramente più cattolica)
· una Chiesa più aperta
· una Chiesa che trova l’unità nella diversità
· una Chiesa che scopre la sua intera tradizione
· una Chiesa che riflette realmente la persona di Gesù e dei Suoi valori.
Ho ribadito queste speranze molte volte, anche al Sinodo dei Vescovi dell'Oceania a Roma nel 1998 alla presenza di Papa Giovanni Paolo II, del futuro Papa Benedetto XVI ed dei miei fratelli vescovi. Certamente tali aspirazioni sono ancora più urgente oggi.

Il Concilio Vaticano II (1962-65) chiamato da Papa Giovanni XXIII ha fornito molte opportunità di riforma dando importanza ai laici come parte del popolo di Dio, impegnandosi con il mondo contemporaneo, le altre Chiese e le Religioni non-cristiane, promuovendo la libertà religiosa, incoraggiando una maggiore partecipazione alla liturgia, consentendo a tutti di avere un rapporto più profondo con Dio. Purtroppo, in questi giorni noi siamo probabilmente più circospetti quanto agli “eccessi che derivano dal Concilio Vaticano II" e avvertiti quanto alla necessità di una "riforma della riforma" riguardo alla liturgia o alla “re-interpretazione del Concilio Vaticano II”.
La riforma di cui  la Chiesa ha bisogno oggi richiederà molto di più che contentarsi di "ritoccare i bordi". Le questioni che riguardono la natura autoritaria della Chiesa, il celibato obbligatorio per il clero, la partecipazione delle donne nella Chiesa, l'insegnamento sulla sessualità in tutti gli aspetti non possono essere ignorati (messo a di parte). L’ascolto deve essere un elemento chiave della riforma e, alle volte  ciò richiederà  ascoltare verità sgradevoli. Occorre riconoscere che tutta la saggezza non risiede esclusivamente nell’odierna leadership tutta maschile della Chiesa e che la voce dei fedeli deve essere ascoltata.  A Pasqua ho fatto notare che erano in gran parte i discepoli di Gesu’  di sesso femminile che stavano presso di lui al Calvario, che Maria Maddalena è stata la prima testimone della risurrezione e che avrebbe potuto legittimamente essere chiamata apostolo, essendo lei incaricata di portare la buona novella  ai altri seguaci di Gesù. Mi sono domandato ad alta voce se la Chiesa sarebbe nel suo stato attuale di crisi se le donne avessero fatto parte del processo di decisione nella vita della Chiesa. Ci possono essere delle persone pronte a discutere il mio punto di vista, ma vorrei riaffermare che vi è un intero corpo di fedeli cattolici che dicono "ne ho abbastanza" e che tutti noi dobbiamo cogliere questa occasione per permettere alla  Chiesa di essere al meglio di sé nel portare il messaggio di Gesù ai suoi membri e al resto della società.
Pat Power
Vescovo ausiliare di Canberra-Goulburn/Australia
Questo articolo è stato pubblicato in The Times Canberra (23 Aprile, 2010)
ed è stato segnalato e tradotto da P.Claudio Saldanha op.
 
5 - Alcune pagine di Giuseppe Barbaglio*
SINODALITÀ E KOINONIA
Essendo praticamente impossibile, in questa sede, fare una carrellata su tutti gli scritti del Nuovo Testamento, la scelta di preferire questo o l’altro cade naturalmente sulle lettere di Paolo, la più ricca testimonianza della sinodalità del cristianesimo delle origini. D’altra parte, mi è sembrato opportuno fare riferimento a una stagione successiva all’apostolo che a lui sì richiama, mostrando come esemplarmente, in mutate situazioni di ambiente e di chiesa, la sinodalità si sia manifestata in ben altre forme.
Sul piano puramente lessicale mi sembra che sinodalità, tema del congresso, abbia un sostanziale corrispettivo nel motivo familiare agli scritti neotestamentari, soprattutto alle lettere di Paolo, della koinônia, un termine molto più ricco però nella sua valenza espressiva, come si vedrà. Ma un’indagine reale non può limitarsi a un solo linguaggio, sia pure importante, bensì estendersi al vasto campo della multiforme comunicazione paolina.
Sempre a modo di premessa vorrei inoltre accennare, almeno di sfuggita, a tre caratteristiche che, tra le altre, segnano il passo degli studi paolini nell’ultimo ventennio. Anzitutto è stata superata la concezione individualistica, tipica di Bultmann, secondo cui centro della teologia paolina è la dottrina della giustificazione del singolo credente. Paolo infatti in Galati ha gli occhi puntati sull’inserimento nello spazio dei chiamati alla salvezza dei gentili da gentili, per fede o affidamento al Dio promettente, senza ricorso alla circoncisione, dunque “al fuori delle opere della legge”/”al fuori della legge”/”al di fuori delle opere”; e in Romani sottolinea la parificazione di ebrei e greci di fronte al vangelo, che è potenza di Dio tesa alla salvezza per chiunque crede, per il giudeo prima e anche per il greco (Rm 1,16). L’accento in campo antropologico non è sull’individuo bensì sulla dimensione sociale e comunitaria dell’esperienza cristiana di fede che unifica, parificandole, le due metà dei mondo di allora.
Nell’analisi dell’epistolario paolino, poi, si ama evidenziare il carattere occasionale delle lettere e della teologia di Paolo; questa è sempre risposta a situazioni concrete e dunque affetta da un ineliminabile timbro di ‘relatività’; non per nulla nelle lettere pastorali, scritti pseudepigrafici della fine del secolo, si fa parlare l’apostolo con tutt’altra voce: le circostanze di tempo e di spazio erano profondamente mutate, di conseguenza anche la proposta di questi scritti, quanto al nostro tema, appare relativa e occasionale.
In terzo luogo, soprattutto quando ci si interessa alle comunità cristiane paoline - ma anche alle altre -, il discorso teologico è doppiato, di regola, da analisi sociologiche; in particolare si rilevano rapporti di vicinanza e, insieme, sotto altri aspetti, di lontananza tra le comunità cristiane e le molteplici forme di socialità dell’ambiente giudaico (la sinagoga) e del mondo greco-romano (la polis, la famiglia, le associazioni cultuali, le società di arti e mestieri, i gruppi funeraticii - quello dì Lanuvio per es. -, i sodalizi tra patronus e clientes). <…>
La koinônia tra Paolo (e la chiesa di Antiochia) e gli apostoli (e la chiesa di Gerusalemme) è stata creata nel cosiddetto concilio di Gerusalemme, di cui parlano At 15 e Paolo in Gal 2,1-10. Mi atterrò a questa seconda testimonianza perché mette al centro dell’interesse appunto il motivo della koinônia: e riconosciuta la grazia a me data da Dio, Giacomo, Cefa e Giovanni ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la mano destra in segno di solidarietà (koinônia), perché si andasse noi ai gentili ed essi ai circoncisi. Solo dovevamo ricordarci dei poveri, il che puntualmente mi sono premurato di fare (vv. 9-10). Anche qui in realtà abbiamo uno scambio: le colonne della chiesa gerosolimitana riconoscono il buon diritto di Paolo, fondato sul carisma divino (charis) del suo apostolato, di annunciare il vangelo ai gentili e di accoglierli senza alcuna richiesta di giudaizzazione; da parte loro, Paolo e Barnaba s’impegnano a ‘ricordarsi’ dei poveri della comunità gerosolimitana. È un segno di solidarietà tra riconosciuti annunciatori del vangelo, quelli che, come Pietro, sono evangelizzatori del mondo giudaico e Paolo e Barnaba che si rivolgono agli incirconcisi. Questa colletta si distingue però da quella di cui Paolo si è fatto promotore tra le sue chiese per due ragioni: anzitutto questa è frutto di un patto stipulato tra le parti e costituisce la prestazione in cambio del riconoscimento e dell’approvazione dell’azione missionaria ad gentes di Paolo e Barnaba, in realtà della chiesa antiochena; in secondo luogo la suddetta colletta è della chiesa di Antiochia, comunità mista, di cui Paolo e Barnaba sono esponenti, e non delle comunità paoline che erano etnico-cristiane. In ogni modo non si può negare che siamo di fronte a una manifestazione di sinodalità tra chiese e tra evangelizzatori, sigillata da una stretta di mano espressiva di un patto per un’impresa comune, l’annuncio del vangelo alle due metà del mondo di allora (giudei e gentili). Si noti infine che è koinônia tra diversi e che preserva la loro diversità: la comune responsabilità del vangelo si concretizza infatti in due annunci a due diversi destinatari: il vangelo degli incirconcisi divinamente affidato a Paolo, il vangelo dei circoncisi assegnato a Pietro (v. 7). Una diversità di ascoltatori che implica una certa diversità del vangelo annunciato: l’uno che comporta libertà dalla circoncisione e l’altro che coesiste con il segno della circoncisione.
La koinônia tra Paolo e le sue comunità nell’annuncio del vangelo appare esplicitamente tematizzata nella lettera ai filippesi. Già nell’introduzione egli ringrazia il suo Dio (1,3) con queste parole: perché dal primo giorno fino ad ora avete preso pane attiva al vangelo (epi tê-i koinônia-i bymion eis to euaggelion) (1,5) e poco dopo dà loro atto di essere tutti compartecipi della mia grazia (sygkoinônous mou tês charitos) nelle catene che porto e nella difesa e rafforzamento del vangelo (1,7). La grazia di Paolo è il suo carisma di apostolo proclamatore del lieto annuncio. Non specifica però in che modo i filippesi abbiano preso parte alla sua azione evangelizzatrice. Lo farà più avanti, parlando di ciò che essi hanno fatto per lui, stretto nei ceppi di una prigione, probabilmente a Efeso, ma non sono del tutto da scartare le ipotesi di Cesarea e di Roma. Non ne aveva bisogno, è autosufficiente (autarkés) (4,11), capace di vivere in povertà e in abbondanza, di essere sazio e di patire la fame (4,12). Ma è con gioia che ha accettato la loro concreta solidarietà con lui (sykoinônêsantes mou) nel suo stato di sofferta detenzione (4,14).
Ma questo è solo l’ultimo atto di una storia che affonda le radici nella nascita della comunità filippese, quando questa fece un patto con l’apostolo: sostenerlo finanziariamente nella sua azione evangelizzatrice, Si è trattato, dice, esattamente della costituzione di una societas di scambio tra lui e la comunità di Filippi: questa gli forniva di che vivere ed egli la faceva così partecipare alla sua azione di proclama del vangelo. Glielo ricorda espressamente: Lo sapete anche voi, o filippesi, che agli inizi della predicazione del vangelo, quando lasciai la Macedonia, nessuna chiesa mi si associò (ekoinônêsen) aprendo un conto di dare e avere (eis logon doseôs kai lêmpseôs); foste voi i soli (4,15). E dà loro atto di essere stati fedeli: già a Tessalonica avevano fatto la loro parte: più di una volta, mi mandaste ciò di cui avevo bisogno (4,16). Si tratta di contribuzioni che vanno a profitto spirituale dei donatori e che egli accredita sul loro conto (4,17). Ora è ricolmo dei loro doni avuti per mano di Epafrodito, venuto ad assisterlo in prigione, cui attribuisce valore cultuale: sono profumo soave, sacrificio accetto e gradito a Dio (4,18).
In breve Paolo ‘evangelista’ si è associato alla comunità filippese e questa si è associata a lui; formano una societas nel segno del vangelo da proclamare. Egli ha fatto partecipare la chiesa di Filippi alla sua azione e questa ha fatto partecipe Paolo dei suoi mezzi economici e anche delle sue risorse personali: Epafrodito è stato mandato ad assisterlo. Una societas che continua nonostante la sua forzata inattività; infatti non esita a rassicurare i carissimi filippesi: nonostante tutto egli resta ‘evangelista’: quanto mi capitò ha contribuito piuttosto al progresso del vangelo (1,12). Per due motivi: primo, le catene che porta per Cristo sono un messaggio in tutto il pretorio - palazzo del governatore - e a tutti gli altri (v. 13); secondo, i credenti della città in cui è prigioniero sono incoraggiati nel Signore dalla mia prigionia, sempre più audaci nell’annunziare la parola senza paura (v. 14).
Per completezza vorrei aggiungere un’altra forma di sinodalità presente nell’azione evangelizzatrice di Paolo, che prende propriamente il nome di collaborazione (synergos).
L’apostolo di fatto ha lavorato con una numerosa équipe di collaboratori. Timoteo di certo è stato il più vicino, co-mittente di diverse lettere paoline, come appare nei rispettivi indirizzi: 1Ts, 2Cor, Fil e Fm, inviato dall’apostolo a Tessalonica e presentato come nostro fratello e collaboratore di Dio nell’annuncio del vangelo di Cristo (1Ts 3,2), messaggero di Paolo presso la comunità di Corinto: vi mandai Timoteo, mio figlio amatissimo e fedele nel Signore (1Cor 4,17), meritevole di essere ben ricevuto perché egli compie l’opera del Signore come anch’io la compio (1Cor 16,10), partecipe con Paolo e Silvano dell’annuncio di Cristo Gesù (2Cor 1,19), suo collaboratore (synergos) (Rm 16,21). Ma anche Tito è stato al fianco dell’apostolo che gli ha affidato il delicato compito di ricucire i rapporti con la chiesa di Corinto; in 2Cor 8,23 è presentato ai credenti corinzi come mio associato (koinônos) e mio collaboratore (synergos) per voi. Ma non sono i soli ‘collaboratori’: con questo appellativo Paolo menziona la coppia Prisca e Aquila e Urbano (Rm 16,3), Epafrodito (Epafrodito, mio fratello, collaboratore e compagno di lotta) (Fil 2,25) e Clemente e gli altri collaboratori della chiesa filippese (Fil 4,3), tra cui sembra annoverare anche due donne, Evodia e Sintiche (Fil 4,2).
Giuseppe Barbaglio
*da “La fede cristiana, In-sein mistico e Mit-sein sociale: la prospettiva ecclesiologica di Paolo”
in: Associazione Teologica Italiana, Chiesa e sinodalità, Glossa 2007, pp. 31-33. 56-60.

Articolo tratto da:

FORUM Koinonia 204 (9 maggio 2010)

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Luned́ 10 Maggio,2010 Ore: 16:21
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Crisi chiese

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info