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www.ildialogo.org <font face="Arial" size="2">- Il Libro "Il Sabato del Villaggio" che racconta il Concilio al Villaggio Artigiano di Modena dagli anni 70 in poi. </font>,a cura di Peppe Manni

Concilio Vaticano II
- Il Libro "Il Sabato del Villaggio" che racconta il Concilio al Villaggio Artigiano di Modena dagli anni 70 in poi.

a cura di Peppe Manni

I SABATI DEL VILLAGGIO

UNA STORIA DA RACCONTARE

Storie di sogni e di rivoluzioni

Al Villaggio Artigiano di Modena fu sperimentata nel 1969 una nuova gestione parrocchiale comunitaria e popolare. Il gruppo della Comunità di Base ha continuato fino ad oggi l’esperienza di un cristianesimo diverso

(Introduzione)

Abbiamo creduto che il mondo potesse cambiare

abbiamo tentato di cambiare il mondo

non so se qualche cosa del mondo è cambiato

ma so che siamo cambiati noi”

C.M.

Capitolo 1°

C’era una volta il Concilio di Trento

In questo primo capitolo si cerca di presentare i fondamenti teologici e morali sui quali si formavano in seminario i preti per mandarli ben preparati in un mondo di peccatori, donne e comunisti.

Diventare preti nel 1963 non era molto diverso che diventare prete nel 1863. Anche se un concilio ecumenico rivoluzionario stava finendo e nuove teologie avevano scaldato il cuore dei cattolici di oltralpe, per noi non era cambiato quasi niente. La teologia e la morale che avevamo studiato nel seminario metropolitano di Modena era quella del concilio di Trento e il testo sacro della nostra formazione era il testo di “Tanquery”, del 1887 in latino: ci insegnava che la chiesa non errava mai, la voce dei superiori era quella di Dio e noi giovani preti, formati con 12 anni di martellamento dottrinario, non potevamo sbagliare come vicari di Cristo e come maestri consacrati. Santa Teresina, ci dicevano, se avesse incontrato un angelo e un prete avrebbe baciato prima le orme del sacerdote e poi quelle dell’ angelo.

In questo clima ho cantato la prima messa a Formigine il mio paese, il 16 luglio del 1963, tra banda, regali e ovazioni di “Viva il sacerdote Novello”. Commozione, invidia e ammirazione per i miei fortunati genitori che vedevano premiata una vita di sacrifici.

Il decalogo che ci veniva consegnato in seminario quando ci mandavano nel mondo, era pressappoco questo:

1: La chiesa, il vescovo e i preti hanno sempre ragione: devi rendere conto di ciò che fai solo al tuo padre spirituale che ti tiene sempre controllato con il guinzaglio corto della confessione e della direzione spirituale.

2: I comunisti, i protestanti e i liberi pensatori sono da evitare come il diavolo l’acqua santa.

3: Il partito della chiesa è la Democrazia Cristiana che difende la chiesa e i suoi diritti.

4: I soldi sono molto utili per fare del bene e costruire delle “opere” (l’oratorio, il cinema, il campo da calcio) da contrapporre a quelle degli “altri”.

5: La donna, specialmente quando è giovane e bella, va tenuta a debita distanza e trattata sempre con il lei. La tattica è quella della indifferenza, del disprezzo e della preghiera. Le uniche donne della tua vita devono essere la mamma e la Madonna.

6: Il peccato peggiore è il peccato del sesso specialmente gli atti impuri per i maschi e il ballo per le ragazze.

7: Non devi ascoltare le ragioni degli altri, potrebbero portarti sulla cattiva strada.

8: Obbligo della ghiera quotidiana in dose massiccia. Sotto pena di peccato: messa, meditazione, letture spirituali, visita al Santissimo, Ufficio 5 volte al dì, rosario ed esame di coscienza.

9: L’amicizia con i ricchi della parrocchia può fare comodo.

10: Non schierarti mai, sorridi, dai ragione, sii “obbediente” e manda giù.

Con questo vademecum nella tasca dell’ampia veste talare, pochi giorni prima dell’8 settembre festa della Madonna, arrivai nella parrocchia di Fiorano come cappellano mandato dal Vescovo. Giunto al Ponte della Fossa che divideva la parrocchia di Formigine dalla parrocchia di Fiorano ho fermato la mia scassata Vespa e ho baciato la strada, ancora bianca, della via Ghiarola, perchè stavo entrando con “trepidazione e giubilo” nella terra promessa.

Capitolo 2°

La Madonna di Fiorano ha fatto il miracolo

Si narra quivi del miracolo della Madonna del Castello di Fiorano che fece di un chierichetto un prete e di un prete un uomo attraverso la frequentazione con uomini, donne e bambini.

Fiorano era un ridente paese sulla collina modenese a 15 chilometri dalla città: fu la mia terra promessa dove scorreva latte e miele. Ma come tutte le terre promesse fortunatamente era molto diversa dalle attese. Venivo dal seminario, un ambiente asfittico, chiuso ad ogni aria primaverile, abitato da piccoli uomini dediti alla preghiera e alla riflessione, preoccupati più di povere cose, orari campanelle e disciplina, che dei grandi problemi della chiesa e del mondo. Il paese non era ancora stato imbruttito dalle ceramiche e stravolto dall’immigrazione. Aveva il sapore della grande famiglia ed era abitato prevalentemente da contadini. Mi buttai a capofitto nel tradizionale lavoro di ogni nuovo cappellano. Messe, confessioni, comunioni ai malati, scuola di religione alle elementari e alle medie, gite. Benedizioni alle stalle per S. Antonio e benedizioni alle case per Pasqua. E poi tantissimi giovani, ragazze e bambini intorno a non finire. Un bagno di gente che ti accoglieva, parlava, ti amava. Se in seminario ti chiedevi all’infinito e che cos’era la vocazione e se eri veramente chiamato da Dio; se discutevi con il padre spirituale se eri poi adatto a fare il prete, qui non avevi più dubbi ti sentivi chiamato dalla gente, vedevi che eri utile e realizzato. Le poche e vigilate amicizie con i tuoi compagni di corso del seminario si allargavano e dilagavano in una marea di gente di visi e situazioni. Abitavo in canonica, vicino al Santuario, con un parroco insensibile e distratto, la sua vecchia madre, vedova della grande guerra, esosa e triste, ma non me ne importava nulla. Quei due anni me li ricordo come se li avessi passati sempre di corsa e tutti illuminati dal sole dalla mattina alla sera.

Dopo due anni don Mario Rocchi, Vicario Generale, mi chiamò e mi disse che di me c’era bisogno a Modena, per fare l’assistente diocesano di Azione Cattolica in via Rua Muro. Venivo mandato cappellano in Sant’ Agostino. Fu un colpo mortale, piansi: ma ci avevano insegnato l’obbedienza e così fatti su i miei quattro libri, la libreria che mi aveva fatto mio padre falegname e la bicicletta da donna regalo della prima messa, partii. Fu in verità una partenza provvidenziale.

La parrocchia di S. Agostino era nel centro storico della città e abitata da povera gente, ed emarginati sociali. Il parroco don Ferruccio pur uomo generoso e brillante, presidente del Caritas e del Convitto (scuola differenziale), viveva in una reggia polverosa e decadente con i vecchi genitori, circondato da strani personaggi che ne facevano una specie di corte dei miracoli: il sagrestano Pio con i suoi cani, il segretario Trighi ex direttore d’orchestra, il Conte Leonardi che viveva in una stanzetta sul campanile, poi Valli, un elettricista che aveva lavorato nel bunker di Hitler, il conte Ferrari Moreno che abitava al ricovero; una confraternita di pie donne fondata dal cappellano mio predecessore; un ordine anomalo di suore strane, fondato da don Gerosa, e poi sussiegosi uomini di azione cattolica, dame di san Vincenzo di buona e nobile famiglia.

Per le contrade della città non conoscevi nessuno, le persone andavano per la loro strada non ti prendevano in considerazione e non salutavano. Mi sentii morire: sembrava che ci fossero solo malati, vecchi, puttane e nobildonne.

Mi salvarono tre cose.

La prima fu l’Azione Cattolica dei giovani. Qui trovai degli amici che mi amavano come prete, ma mi trattavano come un amico adulto. Mi aiutarono a ridimensionarmi e a crescere: Giuseppe, Sandro, Giorgio, Renato, Beppe, Gianni e poi le ragazze, Angela, Gigliola, Franca, Cristina. Anche se nell’Azione Cattolica c’era ancora la netta separazione tra maschi e femmine, cominciammo ad organizzare “insieme” convegni, conferenze e campeggi che ci misero in contatto con personaggi come Calducci e Padre Turoldo.. E poi gli uomini di Monteveglio, Dossetti e Neri. Fu una splendida scuola di fede dove imparai la teologia del Concilio e cominciai ad intravedere la possibilità di un cristianesimo diverso.

La seconda salvezza mi arrivò dai giovani. Incontrai proprio qui in S. Agostino, Franco Richeldi. Era nipote del parroco e per volere dello zio era stato mandato a studiare a Roma nella prestigiosa università della Gregoriana, dove si studiava da Vescovo; poi le cose andarono diversamente come vi racconteremo. Cominciai ad organizzare incontri, esercizi spirituali, gite, campeggi e giornate di raccolte “Emmaus”, visite a malati terminali nella clinica Villa Vittoria che curava giovani leucemici. Le nostre letture erano i libri di M. Ghandi, L. King, R. Foullerau, H. Kamara…

La terza scuola fu per me l’istituto tecnico Corni dove insegnavo Religione. Era un ambiente laico e anticlericale. Nel 1968 cominciavano a soffiare anche a Modena i venti del maggio francese: i miei colleghi e i miei giovani studenti mi parlavano senza ritegno e pudori, della classe operaia, della resistenza, della guerra in Vietnam e delle ambiguità della chiesa. In un primo tempo reagivo alle loro domande e alle loro critiche secondo il mio vademecum con risposte di scuola, ma poi cominciai ad ascoltare e a prendere in considerazione le loro critiche e i loro ragionamenti.

Capitolo 3°

Una parrocchia da smontare

Si racconta di come tre amici si stabiliscono al Villaggio Artigiano di Modena e cercano con molto ardore e un po’ di ingenuità di riformare ed innovare una parrocchia giovane di dieci anni in una struttura che ne aveva 500

La parrocchia del villaggio Artigiano era la più giovane parrocchia di Modena, nata nel 1963 da una costola della vicina parrocchia della Madonnina.

Era stata fondata dentro il primo Villaggio Artigiano di Modena, voluto dal sindaco di Modena, Alfeo Corassori, che aveva comprato a prezzo agricolo 20 ettari di terra tra la ferrovia e la via Emilia. L’aveva “urbanizzata” e ne aveva offerto i lotti a operai licenziati dalle grandi fabbriche modenesi, rimasti senza lavoro.

Il villaggio Artigiano fu inaugurato nel 1953 e in 20 anni erano nate ben 100 aziende.

Quando il primo parroco, don Armando Covili, se ne era andato, nessun prete aveva “concorso” per prendere il suo posto. Infatti quella terra non era molto appetibile: non c’erano “benefici”, cioè la parrocchia non possedeva beni, era abitata prevalentemente da comunisti, e poi non aveva la chiesa. O meglio c’era una specie di cappella, costruita dal buon Marazzi, industriale ceramista sassolese che in quegli anni, per salvarsi l’anima, aveva costruito una decina di chiesette nella provincia, mettendovi nelle fondamenta un sacco di medagliette di madonnine miracolose e foderando le pareti con gli scarti delle sue mattonelle.

Nella primavera del 1969 contattai due miei amici: Franco Richeldi, che stava finendo gli studi teologici a Roma e don Gianni Ferrari che usciva dalla sua esperienza di vice rettore in seminario, dopo essere stato cappellano al Tempio e a Spilamberto. Volevamo tentare di applicare gli insegnamenti del Concilio in una realtà nuova e periferica.

Cinque miei carissimi amici in quegli anni avevano fatto la scelta di andare missionari nella diocesi di Gojania in Brasile. Io pensavo che le energie psicologiche e spirituali necessarie per andare lontano, io le potevo spendere qui per cambiare radicalmente questa realtà.

La prima domenica di ottobre del 1969, facemmo il nostro ingresso nella nuova parrocchia con poca gente del Villaggio, molti amici e qualche parente. Mons Odorici, Rettore del Seminario, ci presentò dicendo pressappoco così: “Questi tre amici tentano un esperimento di parrocchia nuova: cercate di aiutarli e buon lavoro a tutti”.

Prima di entrare io avevo faticosamente cercato con i miei compagni di buttare giù un programma, ma la cosa si era rivelata più difficile del previsto, sia per la nostra inesperienza pastorale, sia per la nostra giovanile baldanza.

Ma concordavamo su alcune linee di fondo che nonostante le divergenze, furono i pilastri che permisero alla comunità di “due preti e un laico” di reggere per molti anni: impegno di vivere in comunità, scelta preferenziale dei poveri, desiderio di stare in mezzo alla gente e, come ci aveva insegnato il Concilio, porre la Bibbia come base del rinnovamento.

Questa comunità parrocchiale fu chiamata la “Troika” (in quegli anni in Russia governava una specie di triunvirato) dai giornali locali, che guardarono con un certo interesse la nostra esperienza, in un Italia piena di fermenti e novità religiose e sociali.

In realtà anche se ci presentavamo come una comunità di uguali, doveva ovviamente esserci la figura del parroco, giuridicamente responsabile della parrocchia e quello ero io. Questa contraddizione creò col tempo non poche difficoltà, in quanto ero sempre io a dover rispondere davanti alla gente e al vescovo dell’andamento della “baracca”.

E così cominciammo la “rivoluzione”.

Per Natale chiamammo i ragazzi del quartiere, della parrocchia e della FIGC (federazione giovanile comunista), a fare un presepe in chiesa con scritte e statue contro l’apartheid del Sud Africa e li invitammo a spiegarlo alle famiglie.

In febbraio quando cominciarono le benedizioni pasquali ci attenemmo alla linea discussa e accolta in assemblea: per tutto quello che riguardava preghiere e sacramenti (messe, funerali, matrimoni e battesimi) niente soldi e offerte. Assolutamente. Nelle case dei comunisti, dove spesso si chiudeva la porta davanti al prete benedicente, fummo accolti con sorpresa e interesse: notai che vicino alla fotografia di Togliatti c’era spesso quella di papa Giovanni. Segno di una nostalgia religiosa mai allontanata, mi sembrò. Più difficile la benedizione nelle fabbriche. Un giorno mi presentai in una fabbrica di cento operai e al padrone dissi “Se volete che venga in fabbrica a dare la benedizione chiedete agli operai se sono d’accordo”. Il padrone reagì urlando e mi cacciò in malo modo. Seppi poi che aveva chiamato a fare il suo dovere un frate di San Cataldo, lautamente ricompensato.

Si scelse poi di non fare più le benedizioni pasquali perché ci sembrava una indebita intrusione nella famiglia. Se qualcuno la voleva poteva chiamare. Chiamarono in pochi. D’altra parte non avevamo più molto tempo

Il discorso della “povertà della chiesa” predicata dal Concilio Vaticano II infatti, ci aveva spinto a scelte piuttosto radicali. Non volevamo dipendere dai soldi della gente e dei ricchi del “paese”. Avevamo rifiutato la “congrua”, che era lo “stipendio” che lo stato garantiva ad ogni parroco secondo il concordato del ‘29. Per il proprio mantenimento Franco, Gianni ed io andammo a lavorare in fabbrica. Avevamo interrotto anche l’abitudine del contributo mensile di alcune famiglie, i cui nomi apparivano elencati in una bacheca in fondo alla chiesa. Chi voleva poteva dare un suo contributo per l’organizzazione parrocchiale nella cassetta delle offerte. Non fu mai una cifra significativa.

Secondo la linea del concilio volevamo “purificare” la preghiera. C’era un quadro di S. Antonio da Padova con due ex voto, segni di qualche grazia ricevuta, e due statue, una della Madonna ed una di S. Giuseppe “Artigiano”, vicine all’altare. Volevamo “ripulire” la chiesa dal devozionismo dei santi ed allora spostammo le due statue in fondo alla chiesa ed il quadro in sagrestia. Ma una mano “miracolosa” ogni mattina riportava il quadro vicino all’altare: fino a quando non l’ho presa persa. Le candele furono progressivamente tolte davanti alle statue.

Ci davamo molto da fare per convincere chi chiedeva il battesimo o il matrimonio in chiesa a pensarci bene e a non scegliere un sacramento senza avere fede. Fu tanta la convinzione della mia predicazione che a un incontro preparatorio sul battesimo nel quale insistevo sottolineando l’importanza del ruolo dei genitori, un padre mi chiese a un certo punto “Mo c’al seinta bein, a voi capir: ‘dmanga al ragasol al devia tor meg?” (allora domenica il bimbo lo devo prendere con me?).

Gli unici che scelsero di non battezzare i propri figli in attesa che una volta diventati adulti potessero decidere da soli, furono alcuni amici della comunità.

L’opera di convincimento era difficile ed i nostri sforzi in verità un po’ ingenui. Sembrava di essere in un negozio di ferramenta dove un cliente viene per comperare un chilo di chiodi e tu lo vuoi convincere a comperare due etti di pancetta affumicata. Infatti molti cambiarono “bottega” e andarono a battezzare i figli dai frati di S. Cataldo o a sposarsi nel santuario di Cognento.

Alla scuola di don Milani, uno dei nostri maestri, avevamo organizzato la parrocchia senza biliardini e campetti da gioco: qui si doveva venire per parlare di Dio ed organizzare “cose” nel quartiere. La faccenda sembrò funzionare: gente ne veniva fin troppa e molti erano i giovani che negli anni 70 avevano il villaggio come punto di riferimento cittadino.

C’era purtroppo una certa incomprensione delle nostre scelte, che ci sembravano evangeliche, da parte di molti parroci confinanti e specialmente del Vescovo e del Vicario. Un giorno Mons Rocchi il vice vescovo mi chiamò e mi disse: “Caro don Giuseppe ti avevamo messo lì perché badassi agli altri due (Gianni e Franco), ma ti sei lasciato guastare da loro”e aggiunse “Non potete non prendere offerte per i sacramenti e per le messe: danneggiate gli altri preti”. E infine concluse: “Abbiamo già comprato la terra (in via Nobili, dove poi è stato un supermercato): dovete costruire la chiesa”. Ci rimasi molto male. La chiesa c’era già ed era sufficiente. Sembrava proprio che non avesse capito niente del nostro sforzo di applicare la “povertà” del Concilio e del vangelo per formare una comunità nuova.

Quando nel 2004 giravo per intervistare gli artigiani del Villaggio per ricavarne poi un libro, un vecchio artigiano comunista, ancora in tuta da lavoro, mi chiese: “Ma lei è quel pretino che lavorava in fabbrica e che ha fatto il funerale al figlio di Tino?”. Nel 1973 un bambino di 9 anni era stato schiacciato da un camion in una stradina del Villaggio. I suoi genitori, comunisti, avevano chiesto una benedizione in chiesa. Io li avevo accolti volentieri nella nostra chiesetta e avevo preparato per loro una liturgia “laica” con la lettura della resurrezione della vedova di Naim e la recita del Padre nostro.

Capitolo 4°

Il pozzo dove attingere: Bibbia, Concilio, Marx. E altri ancora

Dove si spiega come la nuova comunità cerchi di mettere insieme le parole della Bibbia, i documenti del concilio e il verbo comunista, frugando un po’ qua e un poco là.

La scoperta della Bibbia era una novità del Concilio che, con il documento Dei Verbum, ridava il testo sacro in mano alla gente. Un libro tenuto nascosto per un millennio nella sua teca latina, raggiungibile solo dai preti. Io, come prete, conoscevo il latino e avevo accesso alla scrittura, ma in modo tecnico e spiritualista. Il Concilio ci aveva detto di leggere la Bibbia, di dialogare con il mondo, che tutti cristiani erano il popolo di Dio. Tutti facevamo parte del sacerdozio di Cristo e quindi non c’erano più i preti e i laici, il sacro e il profano. I miei maestri furono i monaci di Camaldoli, gli studiosi di Monteveglio, Padre Remo Sartori della Comunità del Pozzo, poi don Mazzi dell’Isolotto, don Franzoni di San Paolo e padre Balducci.

La riflessione sui testi biblici, ci portava all’impegno sociale e alla scoperta della politica come mezzo per cambiare la società.

Da poco tempo il cristianesimo e la dottrina marxista, separati e scomunicatisi vicendevolmente, cominciavano ad avvicinarsi e a dialogare. Si era capito che l’intento di Marx di liberare gli oppressi dalla tirannia e dall’alienazione del lavoro, poteva avere qualche ragione cristiana. E che la religione come era vissuta in quegli anni, in qualche modo poteva veramente essere un oppio per addormentare il popolo. La teologia della Liberazione, che nasceva in quegli anni nell’America latina, cercava di applicare le categorie marxiane alla storia per interpretare i meccanismi economici della realtà sociale. Don Giulio Girardi fu il primo che teorizzò la possibile fusione del marxismo con il cristianesimo. Non valsero le scomuniche delle gerarchie: il cammino era tracciato da Gutierrez e Boff, i due maestri della teologia della Liberazione.

E’ interessante, oggi, dopo 35 anni, rileggere i testi che in quel tempo venivano scelti e letti nella comunità del Villaggio: la Bibbia è un libro per ogni stagione e credo che i testi prediletti fossero e rimangano ancora oggi il cuore del messaggio di Cristo.

Non sempre le interpretazioni e le applicazioni erano “ortodosse”, ma quei testi ci portarono ad una conversione profonda e ad un impegno serio e concreto. Il riferimento alla fede e alla religione credo abbia dissuaso alcune persone “a rischio” che pure circolavano al Villaggio, a passare alla lotta armata come successe, ad esempio, nella vicina Reggio Emilia.

I principali brani biblici che venivano scelti allora, fanno ancora parte del nostro DNA di cristiani della Comunità di Base. Ed anche oggi tentiamo di rimanervi fedeli. Leggevamo la storia dell’Esodo come racconto di un popolo che prende consapevolezza della propria schiavitù e lotta per raggiungere la libertà insieme. E poi il testo base di Luca 4, quando Gesù nella sinagoga di Nazareth proclama di essere venuto a liberare gli oppressi e i prigionieri. E le beatitudini dei poveri, dei sofferenti e dei perseguitati. Commentavamo la parabola del buon Samaritano che non solo aveva compassione del ferito sul ciglio della strada, ma lo soccorreva e stava vicino a lui fino alla guarigione. Il giovane ricco che se ne andava era l’occasione per denunciare la malvagità del denaro e della ricchezza. Ed il grande racconto di Matteo 25, sul giudizio universale, nel quale Gesù si traveste da affamato, nudo, senzatetto e prigioniero. In verità verso i padroni i ricchi ed i capitalisti avevamo un certo pregiudizio, un po’ acritico, che ci portò a scelte ed a parole alle volte ingiuste.

L’ideale della comunità e dell’uguaglianza attingeva alla fonte dei primi capitoli degli Atti degli Apostoli, dove si raccontava della comunità di Gerusalemme dove i cristiani mettevano in comune i beni e tutti vivevano fraternamente nella preghiera e nello spezzare del pane. Oppure ci affascinava il banchetto messianico del Vangelo e di Isaia dove venivano invitati i ciechi, gli storpi e gli zoppi. Ci sembrava che il socialismo fosse il luogo ideale dove si potessero realizzare al meglio queste idealità e questi valori.

Capitolo 5°

La gioia di una scoperta: una comunità di uguali liberati.

Si cerca qui di narrare, sull’onda del ricordo, l’entusiasmo ingenuo e la fulgida bellezza di una nuova strada e del cammino intrapreso insieme, di un cristianesimo diverso per una società nuova da realizzare. Se non proprio oggi, almeno domani mattina. Era il sabato delle nostre speranze. **

Avevo la netta sensazione di avere trovato una nuova strada di libertà interiore. A trent’anni si può realizzare ogni sogno. Le parole della Bibbia per me e per noi non erano lettera morta: si dovevano mettere in pratica senza mediazioni.

La parrocchia possedeva un appartamento. Ci abitavamo io Gianni e Franco. Mettevamo insieme i tre stipendi, le due macchine, le tre biciclette e lo scassato motorino Garelli. La casa era sempre piena di amici, specialmente giovani, fino a tarda notte: si fumava nazionali, si beveva lambrusco, mentre si parlava di progetti, iniziative, scadenze. A mezzogiorno chi capitava si metteva a sedere e mangiava con noi. L’appartamento era una “casa aperta”, come la chiamava Francone, cioè poteva entrare ed abitarla chi voleva. Racconto solo alcuni episodi. Josè era stato cacciato dal fratello e una sera bussò alla nostra porta con la sua valigia. Restò per tre mesi. Un’altra volta era mezzanotte sentimmo bussare alle finestre: un ex carcerato che io e il gruppo lavoratori seguivamo, si era arrampicato sul terrazzo e ci pregava di aprire la finestra perchè la polizia lo stava inseguendo, in quanto era di Pot-Op (potere operaio). A metà maggio del ‘72, una sera Franco venne a cena con due ragazze ed un giovanotto, tutti malmessi: avevano fatto autostop sulla strada. Lui andò a dormire dai suoi e la camera rimase agli ospiti. Avevamo ospitato, dopo un campeggio di Vezza D’Oglio fatto con internati, Antonio che si era rotto un piede durante una passeggiata: necessitava di cure e di una famiglia. Gli diedi il mio letto, anche perché pregava con noi, faceva discorsi di fede e spesso lacrimava dalla commozione. Non vedeva l’ora di riprendere a fare il sarto, diceva lui. Un bel giorno sparì con la mia macchina fotografica e 200.000 lire consegnategli da Celso e Dina che si stavano per sposare, per comperare a Prato la stoffa per il suo vestito da sposo.

Altre case e altre famiglie avevano in modi diversi e secondo la loro disponibilità una“casa aperta”. Potevi capitare in casa loro quando volevi e chiedere in prestito ogni cosa, compresa la macchina. E anche loro ospitarono diverse persone. Cicci e Umberto ospitarono ragazze in difficoltà. Agostino e Angela in 20 anni ospitarono in casa loro Diego, Aldo, Gregorio, Felicita. Gabriele e Liliana. Vittorino e Leide. Angelo e Anna Maria. Alfonso e Claudia, Ermanno e Paola, Sandro e Maurizia, Claudio e Carla. Per ricordarne solo alcune. L’accoglienza degli “sfigati” (oggi li chiamiamo emarginati) era la regola alla quale non si doveva mai mancare.

Ma si progettavano e nascevano anche delle altre piccole comunità familiari o delle “comuni”, come si amava chiamarle allora alla cinese. Oltre alla comunità parrocchiale del Villaggio, c’era quella del Corletto, con Pier, Enrica, Pietro Lombardini e Mario Ledda, in una casa colonica di Cognento. O quella di Vincenzo Chiletti, con Alberto Seghi e Giorgio Genesini a Fiorano. O la comunità di studendi devoniani di teologia che sperimentarono un nuovo modo di prepararsi all’ordinazione “tra la gente” fuori dal seminario ecc.

La più significativa rimase la “Comune” per eccellenza. In via Corridore in due grandi appartamenti nel 1973 si erano messi insieme Eugenio Ronchetti, sua sorella Rita, Gianni Ferrari, e la coppia sposata Claudio Malagoli e Carla Cavicchioli con due bambini piccoli Stefano e Cecilia. Un gruppo di amici stava progettando un palazzo fatto di grappoli di appartamenti indipendenti, con servizi comuni, come biblioteca, lavanderia, sala giochi per i bambini.

Avevo letto un libro affascinate nel 1968: “Domain le commaunetè de Base”. Fu un libretto che guidò molte delle mie scelte. Volevo creare in un territorio frammentato come quello di una parrocchia, abitato da persone di diverse età e ideologia, una famiglia e una comunità. Per anni in primavera la comunità si raccoglieva per due giorni a parlare e a organizzare i suoi programmi. Mi ricordo i primi anni, quando andammo alla Santona ed a Montombraro. Furono esperienze esaltanti.

Il pomeriggio della domenica si partiva, si caricavano le macchine e via in giro a fare scampagnate sulla collina con lunghe passeggiate a piedi.

E poi Montebonello e Vezza D’Oglio. Di Vezza parlerò in un capitolo a parte. Il vescovo mi aveva concesso la canonica di Montebonello, un medievale e suggestivo paesino vicino a Pavullo. Lo attrezzai alla meglio, con brande dell’esercito americano e cominciammo ad utilizzarlo per i campeggi dei ragazzi e come ritrovo domenicale delle famiglie. Fu proprio nel campeggio di Montebonello (in verità il primo fu fatto a Selva in una casa di contadini), che si formò il primo nucleo di giovani e ragazze della parrocchia.

L’assemblea era il luogo naturale dove si discuteva e si decidevano le linee da prendere insieme. Assemblee che non terminavano mai dove tutti parlavano e tutti venivano ascoltati. Si finiva sempre alle due di notte.

I sabati del Villaggio erano i giorni più belli della settimana. Più belli della domenica mattina riservata ai cristiani e ai credenti. O della sera, territorio dei giovani di anni e di cuore. Il sabato era un luogo e un tempo di libertà, non solo perché, come scriveva Leopardi, si aspettava la domenica, ma perché intorno alla chiesetta del Villaggio si intrecciavano e si incrociavano bimbi, giovani e famiglie per organizzare, incontrarsi e chiacchierare in un clima di relazioni spontanee e amicali.***

Capitolo 6°

I comunisti al Villaggio

Ora si affronta con tremore lo spinoso tema di un matrimonio contrastato dai rispettivi genitori: tra cattolici eretici e comunisti scomunicati

Una sera di novembre del 1969 decisi di andare nella sezione comunista di via Emilio Po, per cominciare ad avere relazione con gli altri: i comunisti. I cartelli dicevano “Questa sera si parlerà del lavoro della donna”. E va bene: un argomento vale l’latro. Mi presentai nella saletta vestito in pantaloni e maglione. C’erano solo 7 donne e abbastanza in età (almeno allora così mi sembravano) che parlottavano tra di loro. A un certo punto quella che sembrava la presidente del “circolo” fa: “Zuvnot e sua moglie dove l’ha lasciata?”. “Io sono il parroco del Villaggio”. Gelo e poi grandi risate e chiacchiere. Fu questo il primo impatto, ma in verità non si andò molto al di là negli anni a seguire. Anche se con Azzurra e le altre amiche che incontrai quella sera rimanemmo affezionati amici. Il villaggio era presidiato da tre sezioni del PCI: la Di Vittorio in via E. Po, la Curiel in Via Nobili. L’ultima la Neruda, nascerà nel 1975 in piazza Guido Rossa. In quei tempi si facevano ancora tre piccoli festival dell’Unità al Villaggio: uno in via Scaccera, uno in via Dugoni e un terzo nelle “paludi” del nascente Villaggio Giardino.

Capimmo poi a nostre spese, che anche il mondo comunista a Modena era trincerato in una sua chiesa, con dogmi, sacerdoti e liturgie, che non venivano messi in discussione. Modena era una terra ormai da decenni governata dal Partito, con i quadri formati da ex partigiani che avevano già combattuto la loro guerra e non avevano intenzione di aprire altri fronti. Il “dialogo” con i cosiddetti cattolici riguardava la eventuale possibilità di aumentare i voti alle elezioni e i rapporti economici con la ricca curia della nostra città.

Per la prima volta nella storia del dopoguerra un folto gruppo di Cattolici aveva cominciato a votare a sinistra. Noi stavamo abbandonando i sicuri lidi della Democrazia Cristiana e della Cattolicità. Noi ci eravamo messi in discussione, ma i comunisti no. Erano ancora solidamente ancorati alla propria ortodossia politica. L’unico gruppo di eretici era stato allontanato dopo i fatti di Ungheria e di Praga. Il PCI ci guardò con curiosità prima e con disagio poi, ma sempre solo come un pascolo dove pescare alcuni voti di consenso. Ci sembrò dunque che i compagni del Villaggio non si mettessero in discussione, almeno quelli al vertice.

Io non lo sapevo ancora e ingenuamente pensavo che la classe operaia e il mondo comunista potessero essere il nuovo mare dove buttare le reti e costruire con loro la nuova chiesa. Alla fine dei conti perdemmo molti cattolici tradizionali e non acquistammo un solo comunista alla chiesa.

Capisco oggi che la reazione del mondo comunista era un comportamento legittimo.

Essere comunisti per tanta gente, nella cattolicissima e democristiana Italia del dopoguerra, era stata una scelta coraggiosa di laicità e di indipendenza. La sezione e la Casa del Popolo erano gli unici luoghi che si potevano sottrarre all’egemonia culturale di un’Italia dominato dal Vaticano, dalla DC e da una religione codina e tradizionale, che non aveva ancora sentito la brezza della primavera conciliare. I giornali de “L’Unità”, di “Noi donne” e del “Il Pioniere” erano luoghi di dibattito e di crescita per uomini e donne che venivano dalla campagna o dalla fabbrica e avevano fatto appena la V elementare.

Il socialismo prima e il comunismo dopo, nati per difendere la classe sociale dei più poveri, facevano paura alla borghesia ed alla chiesa che si trovarono alleati nel tentativo di arginarlo e nel condannarlo. La chiesa usò le armi a sua disposizione: la predicazione e la stampa per condannare il socialismo e il comunismo. Questa politica si concretizzò in quel famoso editto di scomunica di Pio XII del 1948 e in un abbraccio mortale con la Democrazia Cristiana.

Don Camillo e Peppone erano un tentativo felice di Guareschi, di alleggerire il clima greve di una guerra di civiltà e di popolo

Funzionò meglio la collaborazione in quartiere su alcune iniziative come la mensa, gli scioperi e la biblioteca. Fummo però visti sempre con un po’ di sospetto ed i frequentatori delle sezioni, pur apprezzandoci, non riuscirono sempre a capire il nostro “lavoro”.

Nell’estate del 2005 al festival dell’Unità di Quartiere l’ormai anziano senatore Luciano Guerzoni, in occasione della presentazione del mio libro sugli artigiani del Villaggio, confessò che nel 70, quando era segretario provinciale del PCI, venivano spesso i compagni del villaggio a chiedere informazione su questi strani preti: a che gioco stavano giocando?

Del resto la difficoltà di comprensione si riprodusse su scala nazionale, sia a livello dialettico che a livello politico. In quegli anni pensavamo che la realizzazione pratica delle istanze evangeliche dovesse sfociare in un impegno sociale, nel sindacato, nel volontariato o nell’impegno politico della sinistra.

Nelle elezione del 1973 molti cattolici furono candidati, accompagnati dalla disapprovazione della gerarchia, nelle liste di sinistra come indipendenti. Venivano dalle fila della Democrazia Cristiana di sinistra e del Partito Socialista, dall’azione cattolica e dagli scout o dal movimento che si chiamò “Cristiani per il socialismo” ed erano iscritti al PSIUP, al Manifesto, a Lotta Continua ed alcuni al PCI.

Io stesso negli anni 80, dopo Paola Cigarini ed insieme a Mario Benozzo, fui eletto in Consiglio Comunale come indipendente di sinistra. Ma la sinistra al “potere”, non riuscì a capirci. Non ci diede spazio e non raccolse le istanze nuove che questi “cristiani comunisti” potevano portare.

Nelle elezioni del 1973 però, il partito che raccoglieva più consenso al Villaggio era il Manifesto: Franco Richeldi e Mario Benozzo furono addirittura candidati alla camera dei deputati.

Luciano Guerzoni professore universitario, della parrocchia della BVA e membro della Comunità di Base di San Francesco, fu poi eletto deputato alla meta degli anni 80.

Fu un periodo di “entusiasmo” ed esaltazione collettiva che mi preoccupò abbastanza. Il nostro appartamento sembrava una cellula di partito. Io “soffrivo” della situazione perché capivo che fin che si rimaneva in parrocchia si doveva portare rispetto a tutti e non era una buona cosa sentire dalla strada “Bandiera Rossa” dalla finestra della canonica. Ma troppe e contrastanti erano le presenze in parrocchia e avevo la sensazione che questa responsabilità ricadesse solo sulle mie spalle.

Si sentiva ormai l’aria greve del primo terrorismo delle BR (Brigate Rosse) e la nostra parrocchia era tenuta d’occhio, tanto è vero che molte notti una gazzella della polizia stazionava davanti al nostro appartamento.

Capitolo 7°

La classe operaia è in paradiso

In questo capitolo ecco una novità rivoluzionaria: solo chi va a lavorare in fabbrica può salvare l’anima. Anche i preti facevano gli operai e l’impiegato era a rischio di peccato mortale

Oggi si parla di emarginati, di poveri e di terzo e quarto mondo: di stranieri, drogati e disabili.

Negli anni del Villaggio lo spazio della beatitudine e della “salvazione” era la classe operaia. Era il luogo dove fioriva la profezia e la classe operaia era la schiena che trasportava avanti la storia. Era il motivo per cui eravamo venuti nella parrocchia del Villaggio Artigiano. In verità qui trovammo un territorio abitato più da artigiani e professionisti che da operai veri e propri, ma questa è un’altra storia.

Per noi preti del Villaggio fu una scelta naturale andare in fabbrica a lavorare. Gianni andò a lavorare alla “Fabbi”, Franco prima alle “Padane”; io a part-time da un artigiano a fare il tornitore. Sandro Vesce, che intanto si era unito al nostro gruppo, lavorava alla CAM (Carrozzeria Autodromo). L’esperienza dei preti operai era nata in Francia negli anni 50 e contagiò l’Italia a metà degli anni 60. Nasceva dal desiderio di immedesimarsi con la classe degli operai, di desacralizzare la casta sacerdotale, di guadagnarsi come tutti il pane. Furono scelte in parte contrastate dai vescovi. Non solo i preti, ma anche molti altri scelsero il lavoro manuale, Gaetano, Eugenio, Giorgio ecc.

Fu un’esperienza per me “purificatrice”, anche se il ruolo di parroco non mi permise di continuare per molti anni a fare l’operaio. Nel 1973 mi ero laureato in lettere e, per avere più tempo a disposizione, cominciai ad insegnare al liceo Scientifico di Sassuolo. *

Il prete operaio andava in officina per condividere la vita dell’operaio, per partecipare alle sue lotte. Non come i cappellani di fabbrica dell’Onarmo, che secondo noi entravano negli stabilimenti con la “benedizione del padrone” e passavano in mezzo agli operai solo parlando e organizzando opere di beneficenza. Il cristiano doveva schierarsi. Ci fu in quegli anni una lunga polemica su questi temi, specialmente con don Galasso Andreoli, responsabile dell’Onarmo.

L’ingenuità dei neofiti ci portava ad esaltare il ruolo dell’operaio: in parrocchia chi lavorava in fabbrica aveva un posto privilegiato, già chi faceva l’impiegato era sopportato. Gli insegnanti invece erano ben voluti perché formavano l’intellighenzia del movimento come Mario Benozzo, Angela Volpi, Luciano Guerzoni. Mi ricordo quando i giovinastri prendevano amabilmente in giro Claudio, impiegato da un commercialista, che veniva in chiesa con una Simca gialla. Perché l’etichetta del bravo operaio imponeva di fumare nazionali, bere lambrusco e girare in lambretta o in 500…E i padroni guai a loro.

Due racconti per concludere.

-Quando arrivammo al Villaggio il buon don Armando Covili aveva cercato di organizzare la nuova parrocchia secondo gli schemi tradizionali. Il primo maggio ad esempio festa del patrono, San Giuseppe Lavoratore, faceva la sagra parrocchiale con la processione, la banda, le candele e la benedizione finale della statua. Noi sostituimmo la preparazione alla festa con tre giorni di riflessione sul lavoro, con la presenza di sindacalisti che parlavano della propria esperienza in fabbrica. Poi il giorno della festa una sola messa alla mattina e poi tutti in piazza, “perché la vera processione era quella che si faceva per le vie della città e in piazza grande in una grande festa che era stata inventata dagli operai e di cui la chiesa si era indebitamente appropriata”.

-Nel novembre del 1972 una fabbrica di corsetteria la Falk * del Villaggio entrò in sciopero perché il padrone voleva licenziare 20 operaie. La fabbrica fu occupata. Anche noi partecipammo ai turni di notte e un’operaia della fabbrica occupata, Cornelia, venne con alcune amiche per due domeniche a parlare dall’altare della loro situazione.

Capitolo 8°

Le casalinghe liberate

Vi raccontiamo ora l’avventura di 30 casalinghe che attraverso il catechismo fatto in casa propria, trovarono una via di liberazione dalle stoviglie e dal marito

Nel gennaio del 1970 si pose il problema del il catechismo per i bambini della parrocchia. Ma non si trovavano catechisti, sia perchè la parrocchia era giovane e non aveva ancora “quadri” preparati, sia per le perplessità che la nuova linea aveva creato in molti cristiani. Una domenica, alla messa delle 11,15 feci questo discorso: “Cari amici ci sono 50 famiglie che chiedono il catechismo per fare la prima comunione dei loro bimbi. Non ci sono catechisti. Noi non lo possiamo fare perché siamo in fabbrica a lavorare. Non mi sembra giusto affidare un compito così delicato a ragazzi ancora immaturi. Come dice il Concilio, la responsabilità dell’educazione religiosa dei figli non è dei preti, né dei maestri, ma della famiglia. O trovate tra voi delle mamme e dei papà che fanno il catechismo, oppure non si può fare”.

Avvenne il miracolo: trenta giovani signore si dichiarano subito disponibili a fare il catechismo in casa propria al figlio e ad altri 6-7 bambini e bambine. Elisa, Olga, Tiziana, Maria, Bianca, Anna, Marilena, Leide, Giovanna, Emilia, Ave, Luciana, Paola, Marisa, Adele, Caterina, Patrizia, Rosita, Anna Maria, ma anche alcuni giovani come Fiorella, Emer, Gilia ecc. Per anni accolsero in casa i bambini, insegnarono loro il catechismo, costruirono preziose relazioni con le famiglie e i bambini dislocati da via Scaccera a via Formigine, da via San Faustino al Bottegone. Ogni due settimane il gruppo delle catechiste si trovava con me: preparavamo un ciclostilato con la traccia della lezione e poi via tra i bambini. Le linee guida le avevo prese dal catechismo dell’Isolotto appena uscito. E alla fine dell’anno si preparava la comunione o la cresima cercando di far capire alle famiglie l’importanza di seguire i figli e di fare di questa occasione non una festa mondana, ma un momento prezioso di crescita di fede anche per i genitori e i fratelli.

Fu una dolce rivoluzione pre-femminista. I mariti, spesso “obtorto collo”, malvolentieri, si adattarono e per trenta casalinghe fu una scuola di vita. Impararono a leggere e a riassumere un libro, a parlare ed a rapportarsi con le famiglie del quartiere, con un ruolo dignitoso e riconosciuto

Voglio concludere raccontando la prima comunione del 1973. Noi, ripetevamo che il catechismo non andava fatto solo per preparasi alla prima comunione, che non ci dovevano essere scadenze. Di fatto tutti, alla fine della terza elementare, volevano fare il sacramento. In quell’anno l’organizzai in un modo originale e fu un esperimento ben riuscito di trasformazione di una tradizione. I bambini e le bambine vestite semplicemente, si trovarono con le loro famiglie nel grande prato vicino all’istituto dei Paolini, al Bottegone. Ci fu la messa e poi i bambini, con i genitori, fecero la comunione. Alla fine, tutti insieme, un grande pic-nic sul prato con unica fotografia per tutti. I soldi risparmiati dal pranzo al ristorante furono trasformati in regali per i bambini del Caritas, dove i nostri giovani andavano ogni domenica.

Ancora oggi quei “bambini” di 40 anni, ricordano l’avvenimento con piacere e nostalgia.

Capitolo 9°

Eravamo tutti giovani

Si ricorda come nei giorni del Villaggio eravamo tutti giovani, un po’ nel cuore e un po’ negli anni, ma anche i ragazzi facevano discorsi da grandi.

I due fondamenti della strategia pastorale del Villaggio erano l’assemblea ed i gruppi.

L’assemblea era il metodo sbocciato nel 68 nelle università, nelle scuole e nelle fabbriche. Anche nei gruppi spontanei prima, nelle comunità di base e nelle parrocchie poi, fu applicato sistematicamente. E così al Villaggio tutto doveva passare attraverso l’assemblea. Una volta la settimana, la sera del giovedì, si faceva un’assemblea pubblica. La messa della domenica si chiamava assemblea liturgica. I banchi erano stati messi in cerchio, a tutti veniva data la parola sia per il commento delle letture che per le preghiere dei fedeli. Una volta al mese la messa delle 11,15 veniva sostituita con un’assemblea per dare la parola anche a quelli che non partecipavano abitualmente ai gruppi o all’assemblea del giovedì. Il metodo si dimostrò buono, quantomeno per informare e sensibilizzare tutti sulle motivazioni delle nostre scelte.

Il limite di ogni assemblea è sempre quello: viene ascoltato maggiormente chi ha una buona capacità di parlare. E non è sempre il migliore. Avevo ovviato a questo inconveniente facendo raccogliere le osservazioni su di un dato argomento, dai diversi gruppi che si trovavano per il loro incontro una volta alla settimana.

I gruppi infatti erano l’altro punto di forza del Villaggio. Provo a darne un veloce elenco sull’onda della memoria e con l’aiuto di qualche “segreto” informatore.

C’erano almeno cinque gruppi di giovani, dislocati in diverse case del territorio o nei locali della parrocchia. Al Bottegone si trovava il gruppo “Giocondo” a casa di Giorgio, detto il Cinese. In un garage di Laura, un altro gruppettino dei più giovani. Nei locali della parrocchia un altro gruppo, composto da ragazzi più grandi, con Giuliana; poi c’era il gruppo della Mariangela, Claudio, Mario, Emer, Pier ecc... All’inizio funzionò per un certo tempo a casa di Giorgio un gruppo “misto” con ragazzi e ragazze della parrocchia e della FGCI.

Poi molti gruppi di adulti: un gruppo “residuo” dell’azione cattolica **adulti. Le persone in difficoltà venivano assistite personalmente. *Ma specialmente

funzionarono molto bene gli incontri* di giovani coppie, presso case disponibili, che raccoglievano una quarantina di famiglie.

Eugenio, Rita e Mario inventarono il doposcuola al quale collaborarono diversi giovani del villaggio e della città. Un collettivo teatrale preparò in collaborazione con la scuola, una famosa commedia rappresentata nella strada: “Il Re Vietatutto”.

Io mi curavo dei gruppi familiari, degli ex di Azione Cattolica e delle assemblee di genitori in preparazione ai sacramenti, Gianni e Franco dei gruppi di giovani. Sandro Vesce aveva cominciato con Gabriele, Angelo e Umberto a interessarsi di un gruppettino di adolescenti con i quali facevano gite archeologiche e attività di artigianato. Questa iniziativa continuò con successo, anche alla Casona, dove traslocammo una volta usciti dalla parrocchia.

Mi piacerebbe raccontare storie di amori o di passioni travolgenti. Ma non ne sono a conoscenza. Le cose del cuore venivano vissute nel privato, in quanto non degne di essere incluse nella grande storia collettiva della rivoluzione. Le ragazze si incontravano solo per necessità politica, per “opere di bene” o per caso. Come quando Franco girò tutta una sera per viottoli montani per andare a trovare Roberta che abitava in capo a mondo e di fronte alla sua meraviglia disse “Passavo di qua per caso”.

Non ci furono adulteri eclatanti e passioni travolgenti. * Solo qualche femminista “coraggiosa” * abbandonò il marito senza trovare poi altri lidi più soddisfacenti. Molti di noi capirono ben presto che il mito (figlio delle predicazioni dell’azione cattolica) per cui i due coniugi dovevano essere un cuor solo e un’anima sola, con una sola fede, un solo partito e un’unica rivoluzione nel cuore, faceva acqua da tutte le parti. Così, consapevoli di questi limiti, siamo arrivati quasi tutti, noi sposati, fino ai giorni nostri uniti, complessivamente felici e soddisfatti, accogliendoci l’un l’altra e cercando di stimarci e volerci bene.

Capitolo 10°

Il territorio occupato

Qui si riflette sul nuovo comandamento della Comunità del Villaggio: tutti nel sindacato, nel partito o nel volontariato. Non si poteva parlare di Cristo se non ci si impegnava per la democrazia in Cile, per la pace in Vietnam, per l’abolizione del concordato e la democrazia nella chiesa

La notte di Natale del 1972, mentre stavo celebrando l’Eucaristia in una chiesa piena di fedeli, si sentiva nella vicina sagrestia il ritmico battere del ciclostile elettrico Gestetner. Gianni Ferrari, aiutato da Fabrizio, raccoglieva le centinaia e centinaia di volantini che la macchina sfornava. Subito dopo la messa furono consegnati a 50 “corrieri” che li dovevano distribuire davanti alle chiese della città. Dicevano: Basta con la guerra del Vietnam: la pace di Gesù deve scendere sugli americani e sui vietnamiti. Fu una notte tragica: Fabrizio fu picchiato dal parroco della Madonna Pellegrina e Paolo sfuggì per un pelo all’arresto.

Ma non fu l’unico intervento in città.

Alla metà degli anni 60, sollecitati dalle parole del Concilio, anche nella chiesa italiana si erano sviluppati nuovi fermenti. Gruppi sempre più numerosi di cristiani, preti e suore, dentro o fuori le parrocchie e all’interno dei movimenti (Azione Cattolica e Scout in particolare) cominciavano ad organizzarsi e ad esprimere il proprio pensiero, a volte non sempre in linea con la gerarchia. Si metteva in discussione la gestione autoritaria e clericale della parrocchia e si contestavano le scelte politiche della gerarchia. Questi cristiani riuniti insieme si chiamarono prima gruppi spontanei, poi gruppi del dissenso o della contestazione, infine Comunità di Base, per indicare l’origine democratica e popolare di queste nuove aggregazioni cristiane.

Anche la parrocchia del Villaggio cominciò a chiamarsi Comunità Cristiana di Base. Nome che tenne poi anche dopo l’uscita dalle strutture parrocchiali.

Insieme a queste nuove realtà ecclesiali, fin all’inizio degli anni 70, si affrontarono numerosi problemi sociali e teologici e si stilarono documenti comuni che diventarono “manifesti” pubblici. Crearono qualche tensione, ma era ancora il tempo in cui nella società e all’interno delle parrocchie, e nella chiesa si discuteva e si dialogava. Non era venuto il tempo buio, non dico delle scomuniche, ma del silenzio voluto e dell’ oblio indifferente, tecnica che adottò la gerarchia verso il dissenso.

Oltre alla guerra in Vietnam, si affrontò in un’assemblea pubblica il colpo di stato di Pinochet in Cile contro Salvator Allende, voluto dall’America ed appoggiato dal Vaticano. Poi furono affrontate le questioni tutte italiane del Concordato, dell’Insegnamento della Religione nelle scuole, dei decreti Delegati, della libertà religiosa, del voto dei cattolici.

Ma l’impegno più grande fu speso a proposito del Referendum che doveva abrogare la legge 94, quella che riguardava il divorzio. Tutti fummo mobilitati nel redigere documenti, nel partecipare a conferenze e nel sottoscrivere proclami. La linea non era quella di “chiedere il divorzio” e di “voler distruggere le famiglie”. Ma, di fronte a gravi situazioni di fatto, coniugi divisi da anni e con nuove famiglie, il legislatore doveva prevedere una “sanatoria” della situazione. Il cristiano, pur credendo all’indissolubilità del matrimonio, come cittadino poteva votare una legge simile.

Fu un momento di scontro frontale che sancì la definitiva rottura tra gerarchia cattolica e i cristiani (molti preti) che si dichiararono per la libertà di voto ne Referendum.

Il nostro gruppo era anche presente sul territorio del quartiere, per migliorare la qualità della vita, diremmo oggi, nella città. Ci mobilitammo per far spostare l’Indus-Nova, una fabbrica di zincatura inquinante, poi per ottenere una mensa degli operai che fu aperta nel 73, al piano terra della ex scuola elementare di via dei Gavasseti. Aprimmo una biblioteca nel salone della parrocchia. E poi organizzammo dibattiti, conferenze, concerti e spettacoli teatrali nel centro civico di via De’ Gavasseti. Volevamo che il comune creasse spazi e campetti, dove tutti i ragazzi e i giovani del quartiere potessero trovarsi a giocare e a parlare. Non in parrocchia che, come dicevamo, aveva altri scopi.

Il doposcuola organizzato in alcuni locali della parrocchia, fu una delle iniziative più belle . Un gruppo di giovani e insegnati, Eugenio, Rita, Mario, Luciano Righi, Elisa…, il pomeriggio curavano un doposcuola di quartiere per ragazzi e ragazze delle scuole medie. Non si faceva solo ripetizione, ma si discuteva e si costruivano cose. Il maestro di riferimento era don Milani e il suo libro “Lettera ad una professoressa”.

Oggi sorrido quando penso allo sforzo titanico di quegli anni, per cambiare il mondo. Avevamo inventato un’altra scuola: il nostro doposcuola; un’altra chiesa: la comunità di Base; un altro partito: il manifesto; un altro sindacato: la “Commissione Bernini” (univa per la prima volta gli stufenti e gli operai dei tre sindacati); un’altra famiglia: la comune. E la cosa strabiliante è che si era riusciti a realizzare tutto questo in breve tempo e in uno spazio circoscritto, in un’isola felice che era il Villaggio dove si viveva il dettato socialista-cristiano della solidarietà tra la gente, della comunanza del denaro e delle cose (ma non delle donne). Dove non contavano i titoli, il denaro o il potere, ma l’amicizia, lo stare insieme e la generosità del servizio.

Aveva ragione il grande Guicciardini quando nel 1530 scriveva nei suoi “Ricordi”: non è vero che con la fede si ottengono i miracoli, ma se tu credi fermamente in una cosa in qualche modo la realizzerai.

Anche noi abbiamo creduto fermamente in un’utopia, abbiamo avuto la fortuna di avere un luogo franco dove poterla realizzare, molti amici che ci hanno creduto, cosicché i sogni si sono realizzati…miracolosamente.

Capitolo 11°

Il 30 Giugno del 1975: un esodo

A metà della nostra fatica si avvertono signori lettori e le gentili lettrici, che possono fermarsi qui nella lettura, in quanto la rivoluzione è finita e si comincia un vagabondare prosastico tra case coloniche e sedi provvisorie. Ma si continua a camminare.

Con gli anni il contrasto tra le pulsioni rinnovatrici del gruppo della comunità e le tradizionali e giuste esigenze del servizio parrocchiale diventò sempre più pesante. Se ne parlò a lungo. Eravamo in contatto con le altre comunità di Base d’Italia e d’Europa: le comunità più prestigiose erano state “scomunicate” dal proprio vescovo e cacciate: a Firenze l’Isolotto, a Roma la comunità di S. Paolo. Io speravo che anche il nostro vescovo facesse quel gesto e gloriosamente ci “martirizzasse”. Ma mons. Amici era o un veggente o un debole. Non successe nulla. E così dopo un anno di discussioni comunitarie decidemmo di uscire dalla parrocchia e di radicarci nel quartiere.

Il saluto alla parrocchia fu dato in tono minore, domenica 30 Giugno del 1975, festa di pentecoste. Fu distribuito, nei giorni seguenti, il numero 9 del Giornalino nel quale spiegavamo le motivazioni della scelta: uscivamo dalla struttura parrocchiale senza polemiche, con l’intento di lavorare tra la gente anche tra i non credenti, in modo più libero. Desideravamo parlare di Cristo senza compromissioni e collaborare con tutti per migliorare la condizione specialmente degli “ultimi”. Chiedevamo insomma di poter vivere un cristianesimo diverso.***

La comunità-diaspora dei 100 fedeli trovò una sede in affitto, in un ampio garage in via Formigina. Nella parrocchia rimase a curare l’interregno, il nostro amico Alberto Garau, prete gesuita che da due anni abitava con noi.

Alla fine dell’anno diventò parroco del Villaggio Artigiano Don Nino Ansaloni, con la missione di normalizzare la parrocchia. Il modo migliore che scelse fu quello molto caro alla chiesa e ai preti: dimenticare e “cicatrizzare”, quasi che l’esperienza precedente andasse cancellata come un brutto sogno. Non gli passò nella mente che si poteva continuare una sorta di dialogo e di collaborazione. Io non fui mai, chiamato dal vescovo, dai parroci di questa e dell’altra parrocchia a parlare, dialogare, spiegare. Andavamo semplicemente dimenticati e cancellati.

Avevo commesso tre peccati capitali: primo, ero in odore di comunismo; secondo, ero un disobbediente agli ordini della gerarchia e terzo mi ero sposato senza sentirmi in colpa e continuavo con la mia comunità ad abitare al Villaggio.

Ma torniamo a noi. Nella nuova sede di via Formigina, continuammo a fare l’eucaristia la domenica mattina, con una presenza costante di una settantina di persone. Ma presto i preti cominciarono a venire a meno.

Gianni se ne era andato a vivere nella “comune” di via Corridore nel 1973. Fu questa una separazione dolorosa: infatti fino a quel momento all’interno della parrocchia avevo cercato di far convivere tre anime: a) il tentativo di rinnovamento radicale della struttura parrocchiale; b) la necessità di garantire i servizi tradizionali della parrocchia (sacramenti catechismi ecc); c) la presenza di un gruppo di amici laici che pur non facendo riferimento al discorso di fede, avevano trovato negli ambienti della parrocchia un luogo dove esprimersi. Quando Gianni e gli altri se ne andarono sembrò che questo tentativo fosse fallito e suonò come un giudizio negativo per me e per chi continuava un discorso di fede restando in parrocchia.

Io mi sposai il 26 giugno del 1976, con matrimonio “anticoncordatario”: prima in municipio e poi presso l’istituto delle Pastorelle nella parrocchia di don Pietro Marchiorri. Fu l’occasione di una grande dimostrazione di affetto e solidarietà di amici e di preti. Celebrò la messa il mio carissimo amico Aronne Manfredini. Ma con grandi musi e angosce dei miei parenti e di quelli di mia moglie Luisa.

Ancora oggi faccio fatica a parlarne. Ma ci proverò visto che non lo feci nemmeno con la comunità 35 anni fa. Questo fu uno dei motivi, ma non il solo e non il più importante, che mi spinse ad uscire dalla parrocchia del Villaggio.

La generazione dei nostri figli certamente vedrà uomini e donne sposati che diventeranno preti. Ma allora non era entrato nemmeno nel novero delle possibilità teoriche della teologia. Il prete che si sposava era un traditore, uno spretato, un reietto, punito anche legalmente attraverso un articolo del vecchio concordato. Nella nostra comunità invece se ne parlava spesso. La consapevolezza della tenue distinzione tra laico e prete. Il mio spogliarmi degli abiti clericali e l’essere tornato uomo tra uomini attraverso una mia professione, un mio appartamento e una serie di amici che mi volevano bene e mi stimavano per quello che ero e non perché ero prete, mi portò progressivamente a rendermi mentalmente disponibile a trovare una compagna che condividesse la mia vita. Quando già conoscevo Luisa, sapevo che la scelta di sposarmi avrebbe creato dolore e scandalo. Ma il mio dilemma più profondo era: “Se mi sposo devo smettere di fare il prete che mi piace, al quale mi sembra che Dio mi abbia chiamato e che la mia comunità accetta. Ma io non mi sento di vivere una vita di solitario, senza una famiglia. Mi sembra di non riuscirci e che questa scelta non sia in contraddizione con la mia vocazione”. La soluzione dopo lungo tempo mi si presentò alla mente in modo chiaro. Se la comunità lo voleva, avrei fatto il “pastore-prete” nella comunità di base del Villaggio Artigiano, fuori dalla parrocchia.

Altri preti nella nostra comunità, in un modo o in un altro, seguirono questa strada: Gianni Ferrari, Sandro Vesce, Pier Giorgio Vincenzi, Vittorio Pezzuoli e altri 20 nella provincia di Modena.

Capitolo 12°

Una casa da contadini in mezzo al verde e al cemento: la Casona e la Casa del Bottaio

Nella 12° parte del nostro racconto si parlerà della ricerca di un luogo e di uno spazio per una comunità senza preti e di preti senza parrocchia con la pretesa di continuare a far parte della chiesa i Modena

All’inizio del 1976 il sindaco di Modena Mario Del Monte, ci mise a disposizione “ad uso precario”, una casa colonica da poco abbandonata, tra via Formigina e viale Corassori. Nella primavera lavorammo per sistemare il pian terreno e il primo piano, per ricavare una aula grande per le assemblee e gli incontri domenicali più quattro aulette per il catechismo. In giugno ci fu l’inaugurazione, con una bella festa nel prato intorno alla casa.

Fu chiamata Casona da una bimbetta, Melissa, e con questo nome rimase fino a quando non l’abbatterono 10 anni dopo. L’idea era quella di creare un terzo polo nel quartiere, dopo quello del centro civico e della parrocchia, dove liberamente si incontrassero diverse realtà e collaborassero insieme per iniziative aggregative e culturali. Nella Casona trovò la sua sede un gruppo ecologista, un complesso musicale giovanile e la rivista Com Nuovi Tempi. In seguito si aggiunsero due società sportive: l’Invicta al piano terra e la Polisportiva Corassori, che risistemò la stalla e il fienile.

Oggi ci fa sorridere, ma allora si discusse sul nome del gruppo: Comunità cristiana di Base o semplicemente Comunità di Base? Si optò per la seconda ipotesi per potere accogliere tutti in quartiere, senza preclusioni politiche o religiose. Di fatto la nostra comunità si qualificò fin dall’inizio per quello che era: una comunità di fede.

Non avevamo bene in mente come organizzarci fuori dallo schema ormai collaudato di una parrocchia. Da subito tentammo di darci la struttura di una “piccola parrocchia” autosufficiente: eucaristia domenicale, catechismo per i bambini, gestione nel nostro interno dei sacramenti. Compreso i matrimoni. Infatti furono celebrati alla casa del Bottaio matrimoni (mi ricordo i matrimoni di Anna e Gigi e di Paolo e Paola) poi battesimi e comunioni.

Si cercò sempre di non creare scandali o rotture: le messe celebrate erano officiate da preti della diocesi e i matrimoni o i battesimi regolarmente registrati nei libri parrocchiali anche se avevamo una nostra anagrafe interna. Ma la cosa non poteva reggere a lungo anche perché, ad uno ad uno, noi preti ci siamo sposati. In altre comunità italiane di base, la comunità scelse di celebrare l’eucaristia, anche se non c’erano più preti, “con il tesserino valido”.

Scegliemmo di non continuare a gestire i sacramenti nella comunità. Di non fare gesti pubblici di ** rottura con la chiesa. Abbiamo sempre ritenuto di fare parte della chiesa locale di Modena in comunione con il nostro vescovo. Anche se abbiamo difeso il diritto della libertà della parola come contributo alla crescita comune e come ricchezza nella diversità. Noi decidemmo di fare la messa una volta al mese con un prete amico che veniva tra di noi. Per anni fu don Pietro Lombardini docente i teologia biblica al Seminario di Reggio, che fu per noi un punto di riferimento importante come prete e come maestro.

Capitolo 13°

Una sede in quartiere

Davide contro Golia dove Golia vince, come doveva, su Davide. Dopo l’abbattimento proditorio della Casa del Bottaio la comunità del Villaggio fu temporaneamente ospitata nel centro civico del Villaggio Giardino in via Curie 22. Sono passati 10 anni ma la comunità è sempre qui dove, ancora “provvisoriamente”, fa i suoi incontri

Nel 1986, per non rimanere sotto le macerie della Casona, destinata alla demolizione, ci fu consegnata dall’allora assessore all’urbanistica Piercamillo Beccaria, un’altra casa colonica in viale Schiocchi.

La chiamai la Casa del Bottaio, perché dopo che i contadini se ne erano andati era stata abitata da un costruttore di botti. Questa volta gli ambienti erano tutti a nostra disposizione e sistemammo il primo piano per l’aula assembleare e per le aule del catechismo. Ma accogliemmo però diversi gruppi e diverse iniziative. Un gruppo di fotografi, l’associazione Greenpeace, il gruppo Azimut, il Centr-Art (laboratori di ceramica e maglieria che prevedevano l’accoglienza anche di disabili), il Cerchio e lo Zelig: un centri giovanili gestito per tre estati dall’assessorato alle politiche giovanili. Infine, a piano terra, da un ex stallino per cavalli fu ricavata una bella sala a disposizione dei giovani che volevano fare feste autogestite.

Avevamo grandi progetti su questa bella casa costruita alla fine dell’ottocento e circondata da verde e grandi alberi.

Ma era stata condannata a morte. Il comune aveva venduto il terreno al gruppo “Agorà” che doveva costruire un nuovo comparto abitativo con strade, palazzi, e parcheggi. Ero in quegli anni consigliere comunale eletto come indipendente di sinistra e mi impegnai personalmente per la salvezza della Casa del Bottaio: interventi, lettere, raccolte di firme, mostre e dimostrazioni domenicali con le televisioni locali. Promesse, impegni degli amministratori. Ma la mattina del 10 luglio, mentre in bicicletta stavo andando al Liceo Tassoni in qualità di commissario per l’esame di maturità, vidi le macerie della nostra bella casa. Di notte la ditta Dieci aveva fatto piazza pulita, non solo dei muri, ma anche delle promesse e degli impegni.

C’erano alberi quasi secolari, una strada viale Schiocchi cara ai Modenesi, che percorrevano a piedi per andare al santuario di S. Geminiano a Cognento, circondata da antiche siepi, una bella e solida casa con corte, stalla e porticato. Avevamo suggerito di farne un centro culturale, un luogo di riposo e di serenità. Sembra proprio che gli architetti e gli amministratori cittadini non riescano a salvare qualche traccia del passato. Tabula rasa per ricostruire, in cemento, acciaio e vetro.

Nel 1996 (ancora dopo 10 anni!) la comunità rimase senza sede.

Fummo ospitati temporaneamente nella sala del centro civico del Villaggio Giardino, in attesa. C’era un’altra casa colonica sulla quale avevo messo gli occhi: la Casa del Cane sita tra via Leonardo e via D’Avia che ospitava appunto un gruppo di cacciatori con annesso campo-addestramento cani.

Nel 2006, altri dieci anni dopo, questa casa si è resa disponibile ed il presidente di quartiere Franco Fondriest, molto gentilmente, la offrì alla Comunità per farne la sede insieme ad altri gruppi. Ci siamo guardati negli occhi. Ormai è troppo tardi non siamo più giovani, almeno molti di noi e non ce la sentiamo di rimboccarci le maniche e fare un altro trasloco. Viviamo bene qui dove ci troviamo. La domenica mattina alle ore 11 ci troviamo per fare la liturgia. Le sedie, la pulizia e il riscaldamento sono assicurati. Ci va bene così. Fra dieci anni vedremo.

Oggi abbiamo avuto e abbiamo ancora 1, 10, 100 case. Anche se non abbiamo più la Casona e la Casa del Bottaio, disponiamo di sedi cittadine come la casa di Giorgio, o sedi campagnole come la casa di Pier ed Enrica con la loro cappellina e un’aula magna (la stalla), che hanno ospitato per anni i nostri incontri e le nostre liturgie. Case-ville di villeggiatura in montagna come la bella casa di Vittorino e della Leide a Cavola o a suo tempo di Vittorio Pezzuoli a Torre Maina. Per non parlare delle canoniche di amici preti segretamente affiliati alla “setta” come don Giuliano di Spezzano, don Dino un tempo a Portile, don Francesco Capponi a Maserno o Maria, sagrestana di Freto. E l’istituto delle Canossiane che per un ventennio fu il luogo dei nostri convegni primaverili conclusi con cene non solo eucaristiche.

Oggi, in quartiere, gli anziani degli orti, quando lo vogliamo, ci ospitano nella loro bella sala e ci fanno pure il gnocco.

Riflessione finale: questo racconto non potrebbe suggerire qualche insegnamento per i nuovi costruttori di cattedrali cittadine?

Capitolo 14°

Una teologia da strada

Ora il lettore è gentilmente invitato a riflettere su alcuni punti della cosiddetta teologia della comunità del Villaggio nata dall’ esperienza ma anche dalla riflessione comune e dalla guida di alcuni teologi di strada. Se sei laico, ateo, o semplicemente annoiato, puoi passare al capitolo 15

Anche se questo capitolo ha il numero 14, in realtà è stato l’ultimo che ho messo insieme, per la fatica che mi comportava definire le linee imprecise della teologia della Comunità del Villaggio.

Come agli ebrei fece in qualche modo bene la distruzione del tempio, anche per noi uscire dalla parrocchia ci ha impegnato a trovare strade nuove non più basate sui dogmi, sulla morale e sulle sicurezze di un tempio che ti garantivano, il pane, fedeli sicuri e una strada segnata per arrivare a Dio. Abbiamo tentato per anni di rifarci una piccola parrocchia, ma per fortuna non ci siamo riusciti.

Della nostra “teologia” parrocchiale dal 69 al 75 già ho parlato in altri capitoli e anche delle linee che avrebbero dovuto dirigere la nostra comunità fuori dalle strutture parrocchiali.

Posso dire che tre furono le direzioni nelle quali ci siamo mossi negli anni seguenti; mi sembra, in linea con l’esperienza parrocchiale.

1) La Bibbia è sempre rimasto il fondamento indiscutibile delle nostre riflessioni e ci ha guidati nelle scelte che di volta in volta abbiamo dovuto fare.

2) La “teologia della liberazione”, nella sua complessità, è stato un riferimento costante. Ci ha fornito l’impianto teorico per l’ applicazione della Bibbia nella vita pratica specialmente nella scelta preferenziale verso i più poveri ed emarginati della società. Il cristiano doveva sempre tradurre la* sua fede con un impegno nel sociale. Con una scelta di campo, come si diceva allora.

3) La democrazia partecipata nella gestione dei sacramenti, senza distinzioni di sesso e di gerarchie, è stata una costante per noi. Erano parole d’ordine di tutte le comunità di base italiane: riappropriamoci della Parola e dei Sacramenti. Si parlò in un secondo tempo anche di lettura popolare della Bibbia.

Le riflessioni si sono susseguite negli anni secondo le passioni, la sensibilità e le esigenze dei tempi. Lo documentano le relazioni delle nostre “Due Giorni” che la comunità continuò a fare per 30 anni. Elenco alcune delle tematiche: la Messa domenicale; il rapporto con la parrocchia; l’impegno sul territorio; il volontariato; le “case aperte”, l’educazione religiosa e il catechismo ai piccoli; una nuova qualità della vita; il rapporto tra di noi. Poi il problema dell’ecologia e della pace; la povertà e il terzo mondo, la globalizzazione…

Negli ultimi anni grazie a Sandro Desco ed a Pier Vincenzi sono state affrontate altre tematiche teologiche, come l’ecumenismo e l’Ebraismo. E poi l’esperienza di Paola nel carcere, di Anna in Palestina e in Sud Africa, di Renata in Brasile tengono la comunità “agganciate” a importanti problematiche.

Spesso nelle liturgie domenicali emergono nuove tematiche e diciamo: “Questo ‘importantissimo’ punto mettilo in nota, che lo tratteremo una di queste volte”. La vivacità e la ricchezza che ancora oggi sboccia nei nostri incontri dipende, mi sembra, dal fatto che tra di noi ci sono molti maestri, ma nessun dottore-capo o leader che abbia voluto o saputo imporre una linea sola. Questo ha comportato la fatica di ascoltarci e cambiare punti di vista, ma è stato apportatore di grandi ricchezze.

Ai maestri della nostra comunità dobbiamo affetto e gratitudine. A Pietro, Pier, Sandro, Bepi, Anna, Paola. Ma anche a tutti gli altri donne e uomini che danno apporti importanti alla nostra fede. Io credo ancora, che tutti devono esprimersi e parlare anche se è difficile per uomini e donne che non hanno sempre a disposizione tutte le parole che hanno alcuni laureati. E’ un impegno che non mi stancherò mai di portare avanti: sono infatti profondamente convinto che la Parola si incarna nella vita di ciascuno di noi e chi la sperimenta ha il dovere di esprimerla per aiutare tutti gli altri. Una parola più vera e autentica di tante mie parole, pur dotte e ornate, nate spesso dallo studio ma non dalla vita.

Nel 2005 Pier Vincenzi il nostro principale teologo, in un libretto stampato nella sua agreste tipografia di via Aprica dal titolo: “La radice che porta. Ebraismo e Cristianesimo”, si era divertito, il birbante, a immaginare nel microcosmo della comunità del villaggio la presenza di una pluralità di posizioni che in qualche modo ripetevano le linee e le tensioni già presenti nel giudaismo e nel primo cristianesimo. Io quasi per scherzo invitai i miei amici della domenica mattina ad approfondire queste sollecitazioni. E così singoli “pensatori” o gruppi, hanno prodotto piccoli trattati teologici che rispecchiano linee di pensiero teologico presenti tra di noi. Ecco i titoli: “Gli zeloti sono ancora tra noi: la teologia della Liberazione oggi”; “Paolo e gli ellenisti: un vangelo per i non credenti”; “Nella chiesa del Villaggio sopravvive un sano pluralismo come nelle comunità apostoliche”; “Il gruppo degli Esseni: la scelta di essere minoranza nella chiesa”; “La chiesa giudaico-cristiana e la tradizione dentro di noi”. Per chi ne vuole sapere di più si legga il Giornalino “La Casona” del Natale 2005.

Capitolo 15°

I mezzi di comunicazione del Villaggio

Lode alla prima macchina stampatrice, emblema democratico della storia, che consegnò alle minoranze un’arma strategica importantissima prima dell’avvento di internet: il ciclostile

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I fermenti sociali e religiosi degli anni 70 avevano come protagonisti gli operai, gli studenti, i sindacati, le sezioni, i comitati di base, i gruppi culturali, le comunità cristiane. Questi gruppi non avevano grandi mezzi di comunicazione.

Il Ciclostile, la Serigrafia, il Pennello, il Pennarello, il Megafono erano gli strumenti che venivano usati per informare, discutere e proporre erano. Si facevano migliaia di ciclostilati, volantini che non si lasciavano, come oggi, nei luoghi di passaggio o nei negozi, ma si distribuivano davanti alle fabbriche, alle scuole, alle chiese. Oppure grandi manifesti ottenuti con il processo serigrafico, attaccati “abusivamente” di notte sui muri della città. O Tazebao: giornali murali esposti nei luoghi di ritrovo. Si ciclostilavano ricerche e piccoli saggi rilegati con la cucitrice e regalati o venduti a prezzi “politici”. Al Villaggio c’era un giornalino della biblioteca, uno del sindacato di zona e un Giornalino della Parrocchia.

Dalla Comunità Cristiana del Villaggio” era il Giornalino della Parrocchia curato da Sandro * Vesce e Claudio Malagoli, usciva 4-5 volte l’anno: aveva molti disegni e poche parole e anticipava la moderna “pubblicità”. Trattava sia argomenti religiosi che problemi del Quartiere: il verde nel *territorio, i sacramenti, i soldi e i preti, l’Indus Nova, l’occupazione della fabbrica Falk, il Concordato ecc. Quando uscimmo dalla parrocchia un paginone illustrava le motivazioni di questa scelta. Veniva distribuito da noi a tutte le famiglie .

Quando nel 1978 interrompemmo la pubblicazione del Giornalino, la nostra comunità cominciò a pubblicare il bimensile “La Casona”, dal nome della prima sede della comunità. “La Casona”. Continua ad uscire anche oggi, ed è diventato il bollettino interno al gruppo, anche se viene distribuito a Modena e in provincia in 250 copie.

Negli anni 70 c’erano molti luoghi nei quali si “faceva cultura”. Il più significativo in quegli anni fu la Sala della Cultura in via Vittorio Veneto. Poi la Sala Gradoni nel complesso Cialdini. Il cinema Domus. Per il Villaggio, la sala Centro Civico in Via dei Gavasseti. Il San Carlo stava progressivamente diventando il più importante luogo di cultura e di dibattito cittadino a livello religioso prima e poi anche sociale e politico.

In questi luoghi si parlò di Cile, concordato, scuola, divorzio, aborto, politica, di femminismo e di famiglia.

Vanno ricordati i “Consigli scuola-città”, inventati dall’allora assessore Famigli. Erano altrettanti gruppi di lavoro, piccoli laboratori nella scuola materna, “aperti” ai genitori e ai cittadini: qui si discuteva di pedagogia, si organizzava la didattica e si parlava dei problemi del quartiere.

Dagli anni 80 tutte le iniziative furono si spostarono nel nuovo centro Civico del Villaggio Giardino in via Curie.

La nostra comunità ha pubblicato diversi libri ed opuscoli.

Sandro Vesce è stato il più prolifico, con una serie di libri e libretti che hanno coperto un arco di 30 anni. Il più famoso è senz’altro “Per un cristianesimo non religioso” uscito per i tipi della Feltrinelli nel 1976, poi altri piccoli libri su argomenti vari religiosi e artistici.

Nel 1978 è uscito un libretto“ciclostilato in proprio” dal titolo “Comunità a Confronto: testimonianze ed esperienze di alcune comunità cristiane a Modena”. Lo avevo preparato io aiutato dagli amici delle comunità. Venivano presentate nelle loro caratteristiche fondamentali una ventina di Comunità di Base: gruppi o parrocchie presenti allora a Modena. Di queste parlerò al cap. 19.

E poi la serie di piccoli testi editi dalla tipografia nostrana “Edizioni del Villaggio - Stampatori Soliani Vincenzi” che ha pubblicato una trentina di libretti firmate da Sandro Vesce, Pier Giorgio Vincenzi, Graziano Botti e Gianni Zagni.

Nel 2005 ho pubblicato un libro dal titolo “Un Villaggio tra la ferrovia e la campagna” che raccoglie le mie interviste e i racconti di 30 artigiani del Villaggio Artigiano. Nelle prima parte c’è anche il racconto della nascita e della vita della nostra comunità al Villaggio Artigiano.

A queste pubblicazioni andrebbero aggiunti i documenti e i numerosi interventi di molti di noi sul nostro giornalino interno “La Casona”, su riviste e giornali locali e nazionali.

Capitolo 16°

Amici di cordata

Si vuole in questo capitoletto fare memoria di amici importanti per il nostro cammino: alcuni ci hanno lasciato e altri lo stanno per fare in quanto giovanissimi più non sono come tanti di noi.

In ordine alfabetico ne ricordiamo tra i molti solo nove

1 - Era capitato da noi quasi per caso. Una mattina mi telefona padre Remo della comunità del Pozzo: “Senti, mi fa, c’è un seminarista gesuita sardo di Bologna, che vorrebbe lavorare in un parrocchia sperimentale, vuoi che te lo mandi?” “Va bene, dico io senza grande entusiasmo, lo aspettiamo”. Erano tempi nei quali pensavamo di non avere bisogno di estranei: ci dovevamo autogestire. Era il 1973 * e Gianni se ne era appena andato nella “Comune” di via Corridore. Fu così * che Alberto Garau venne a stare con noi. Durante la settimana continuava a studiare a Bologna, arrivava il venerdì e da bravo sardo, si rimboccava le maniche e cominciava a lavorare tra i giovani e tra la gente. Curò con amore e tenacia, un gruppo di adolescenti. **Nacque un’amicizia e una collaborazione preziosissima che continua ancora oggi ad arricchire la nostra comunità, con la comunicazione delle sue straordinarie esperienze. Fu lui che gestì il delicato passaggio della parrocchia tra noi e il nuovo parroco don Nino Ansaloni.

Alberto nel 1967 andò a lavorare in Calabria tra gli zingari e poi in Romania tra gli studenti e infine per 10 anni in Israele, prima come studente di teologia biblica e infine come parroco di una parrocchia ad Eilat. Nel 1999 organizzò per noi un bellissimo viaggio di 20 giorni per le contrade della Palestina. Oggi si sta preparando per andare in Burkina Faso. *

2 - Venne nel 1969 come “perpetua” nel nostro appartamento. L’Amelia Poggioli andava d’estate nei campeggi delle ragazze di Azione Cattolica a Villa Immacolata. Fu contattata e accettò subito. Pagata secondo la tariffa sindacale: Gianni era il suo sindacalista. Veniva il mattino presto: andava a fare la spesa, faceva le pulizie e preparava il pranzo. Il pomeriggio se ne tornava a casa dopo averci preparata la cena. Sempre pronta a servire le molte persone che passavano per la nostra casa. Non fu mai sufficientemente ringraziata per il suo umile e discreto servizio. Sono convinto che la nostra comunità si resse in piedi per tre motivi. Il primo per merito nostro: non si badava assolutamente al valore dei soldi e tutto era in comune. 2° Per ragioni di idealità rivoluzionarie: non c’erano donne in comunità da contenderci. Ma il terzo e più importante motivo, fu la presenza dell’Amelia che organizzava la casa, preparava i pasti e teneva pulito un ambiente abitato da maschi disordinati e disattenti.

3 -uando venimmo al villaggio c’era bisogno di una donna che ci tenesse dietro la casa. Io non volli che venisse nessuna delle nostre sorelle o madri che si erano proposte. E abbiamo fatto bene . L’Amelia, una signora che veniva nei capeggi di Villa Immacolata, si dimostrò la persona adatta. Veniva alla mattina pfaceva le pulizi, ci preparava il pranzojjjjjjjjj

3 - Morì in un pomeriggio di sole il 10 maggio del 1977. “Post prandium milia passum”, dopo mangiato bisogna fare mille passi, diceva, ma la sua passeggiata in bici dopo pranzo gli fu fatale: morì battendo la testa sull’asfalto della tangenziale di Modena Ovest. Aronne Manfredini era un mio carissimo amico e fratello. Tanto più caro in quanto raramente si istauravano rapporti di autentica amicizia tra i preti. In seminario l’amicizia veniva vista con sospetto, sempre paventando le amicizie particolari, oppure si instaurava un tipo di “vogliamoci bene” generico e disumano. Poi una volta prete ti credevi autosufficiente e non “perdevi tempo” con gli amici preti e tanto meno laici, non alla “tua altezza”. Di donne nemmeno a parlarne. Con Aronne Manfredini c’era affetto reciproco, confidenza, somiglianza di vedute e di sensibilità. Io avevo bruciato alcune tappe, lui, più prudente, aveva scelto pazientemente di vivere le contraddizioni all’interno di un parrocchia. Intelligente, vivace e ironico. Aronne, ci è mancata la tua arguzia e la tua intelligenza evangelica in questi difficili anni. E’stato uno di quei pochi preti che nel silenzio quasi totale dei miei colleghi e dei laici, con coraggio, comprese, stimò e accompagnò le mie faticose scelte di quegli anni; mi fece sentire ancora nella chiesa come in una famiglia. Fu Aronne che ci sposò, la Luisa ed io, il 27 giugno del 1976.

La sera che nacque la nostra primogenita, Beatrice, il 12 maggio del 78, quando arrivai all’una dopo mezzanotte dalla clinica di Carpi, mi fermai davanti al bar dove mi aspettavano gli amici che quella sera avevano fatto una veglia di preghiera a un anno dal funerale di don Aronne. Mi portai a casa il bicchiere bianco da birra e per anni lo usammo come calice per la nostre messe comunitarie.

4 - Ci vorrebbero molti libri per raccontare dell’ Elisa Casolari. Entrò nel giro della comunità parrocchiale in occasione della comunione di suo figlio Marco. Era la catechista perfetta. La sua casa era sempre piena non solo dei suoi bambini, ma di tutti bambini della comunità che intratteneva in moltissime attività non solo catechistiche: giochi, disegni, ricami. Era l’archivio della nostra comunità. Raccoglieva giornalini e bollettini. Tentò anche una storia della comunità che non fu mai pubblicata. Quando nacque la Fu lei la ideatrice e la bibliotecaria di una biblioteca nel capannone vicino alla chiesa. E a buon titolo. Infatti una della caratteristiche del suo appartamento erano i tanti libri. Le pareti erano piene di ogni tipo di libro e videocassette che prestava e notava, poveretta, nella speranza, spesso inutile, che i libri tanto amati ritornassero a casa. Anche quando, per problemi familiari, diradò molto le presenze, si è sempre dichiarata parte della comunità e per Pasqua e per Natale quando non può venire manda sempre regalini, piccoli dolci e poesie.

Elisa Casolari in Leonardi, fu l’inventrice degli asili privati di contrada. A lei si era ispirato anche Mario Benozzo quando faceva l’assessore alla Scuola, in un suo progetto mai realizzato. In casa sua accoglieva molti bambini, chi voleva poteva portare i piccoli; se poteva, pagava, se no il bambino restava lì con gli altri accudito e amato.

Di Elise ne nasce una solo al secolo.

5- Gianni Ferrari era nato a Portile nel 1943 era stato cappellano nelle parrocchie del tempio ed a Spilamberto, vice-rettore del seminario e poi era venuto al Villaggio Artigiano insieme a Franco ed a me. Fece l’operaio, il calzolaio, l’imbianchino, il muratore e il cuoco. A Modena, in Toscana, in Germania. Nel 1980 (?) sposò Ulriche e andò ad abitare in un paese vicino a Monaco con il figlioletto Daniel.

Morì improvvisamente il 10 marzo del 2002. Improvvisamente perché della sua malattia e della sua morte imparammo solo il giorno dopo. Noi i suoi amici, lo ricordammo la domenica dopo la sua morte, in un incontro al Villaggio nella sala del centro civico. Cento persone parteciparono commossi alla liturgia della nostra comunità e al suo ricordo. Dopo il mio intervento parlò Claudio Lodesani, Cicci Masinelli, Mario Benozzo, Sandro Vesce, Franco Richeldi, Claudio Malagoli, Alberto Pennica, Giorgio Genesini, Bepi Campana, e Giancarla sorella di Gianni. Ne ricavammo un libretto che regalammo agli amici.

Erano ormai 20 anni che Gianni non si faceva vedere, ma il suo ricordo era ancora presente e vivo fra di noi. Perché Gianni aveva segnato tutti con il suo sorriso, la sua disponibilità , la sua generosità, la capacità di ascoltare e accogliere. Prete operaio, amante delle canzoni, intelligente conversatore, cuoco, marito e padre. Il suo desiderio di libertà lo portava a buttarsi sempre in avanti. Con la sua intuizione e il suo entusiasmo aveva anticipato tante scelte che noi facemmo in seguito. Ha sempre dato senza pretendere nulla. Noi lo cercavamo con affetto nei diversi luoghi dove era: in via Corridore, in Toscana, in Germania e, con fatica, si faceva trovare quasi a non voler rendere conto delle sue scelte che, tra l’altro, pagava sempre solo lui personalmente. Ma ci vedeva sempre con immenso piacere, come se ci fossimo salutati il giorno prima. Dal diario degli ultimi giorni di Gianni: (dopo aver ricordato amici e luoghi della sua vita conclude così) “Vi chiederete: cosa ci fa il vecchio Gianni intorno ai prati di casa nostra? E’ che da quando questa bestiolina di malattia si è fatta viva: ha avuto tempo di fermare gli anni passati. E ora che ha compiuto il suo ciclo ho già preparato per mandare i miei saluti e un grazie senza fine per tanti momenti belli che l’amicizia e la compagnia regalano. E mi accorgo che è tanto quello che anche per poco tempo, ho ricevuto da ciascuno di voi…. Il pensiero che mi preoccupa di più è che lascio a se stesso e a Ulrike un Danielino di 13 anni…E poi vorrei invitarvi, ora, a un cin cin, con il vino o la birra che ognuno preferisce. Vi auguro tanta salute ragazzi, grazie ancora per la vita, prosit”.

6 - Ho in mente una domenica di gennaio alla Casona. C’era la neve e un gran paciugo intorno alla nostra sede in mezzo ai campi. Roberto aveva preso in braccio una fragile vecchietta di 80 anni e la stava traghettando verso la porta. Era lei Luigia Sala detta Olga. All’uscita dalla parrocchia ci aveva seguito con entusiasmo perché credeva alle nostre scelte e noi eravamo la sua famiglia. Era la più anziana della covata. Partecipava ai gruppi che preparavano la liturgia e interveniva la domenica con parole profonde e preghiere spirituali. Viveva in un appartamento in via Nobili con due fratelli, Dante e Leontina. Alberto Garau andava spesso a trovarli e li accudiva con l’amore di un figlio. Elisa l’amava come una figlia. Luigia era la prova che le idee nuove e le parole dello Spirito vengono distribuite in modo uguale ai giovani e ai vecchi. Facciamo qui memoria della nostra amica insieme ai molti amici che non sono più tra noi.

7 - Era il pomeriggio di un tardo autunno del 1969, alla messa vespertina delle 18,30 cercavo un lettore per la prima e seconda lettura. Eravamo allora degli improvvisatori e sceglievamo sul momento i collaboratori liturgici. Un signore con la barba e ben vestito, si era distinto con la sua bella voce baritonale nel canto iniziale “Purificami o Signore”. Gli chiedo di leggere. Accetta. Era Mario Benozzo. Da quel giorno entrò nella nostra storia e ne fu un pezzo importante. Anche quando non frequentò più i nostri incontri domenicali, rimase un punto fermo come insegnante, pedagogista e Assessore comunale, per iniziative, approfondimenti e dibattiti. Intelligente, ironico e specialmente amante di una “Città dei bambini”, un logo che aveva inventato lui e un’idea per la quale lavorò fino alla fine. Morì dopo sei mesi di malattia il 3 febbraio del 2004 e anche per lui come per Gianni, curammo una liturgia laico-religiosa nella nostra comunità la domenica dopo il funerale, dove tutta la città espresse il rimpianto per la perdita di un personaggio così importante per Modena.

8 - Fu una collaborazione spontanea tra la neonata comunità del Villaggio e Pietro Lombardini che abitava nella “Comunità del Corletto”. Quando uscimmo dalla parrocchia, per anni ci fu maestro e prete. Una volta al mese ci faceva l’eucaristia e in quaresima dal 1976 al 2000 tenne una catechesi domenicale partecipata dagli amici della comunità e da un grande numero di discepoli ammiratori. Ci fu maestro e guida e ci introdusse in un’esegesi seria e profonda della Bibbia. Pietro, professore di scienze bibliche nel seminario di Reggio, esimio studioso e ricercatore scrupoloso, ci era stato regalato per una serie di fortunate coincidenze. Abitava sul nostro territorio ed era amico del movimento delle CdB. Non amò mai pubblicare, né partecipare a convegni: viveva volutamente nell’ombra. Ma specialmente per certi suoi pronunciamenti al tempo dei referendum, le gerarchie lo avevano stupidamente messo fuori dal circuito dei preti e teologi ortodossi. Quando, per diverse ragioni, la sua presenza si diradò fino a cessare, passò il testimone a Pier che ancora oggi continua, attraverso i suoi studi, ad aprirci nuovi finestre specialmente sull’Ebraismo.

9 - Don Vittorio Pezzuoli avrebbe voluto continuare a fare il prete, ma non lo volevano più tra le file dei sacerdoti. Aveva dato “cattiva prova” di sé prima a Nonantola, dove dal 1966 al 1972 aveva creato una nuova comunità parrocchiale a Nonantola, retta da uno statuto democratico, con i parroci a rotazione obbligatoria ogni 4 anni. Poi si era dichiarato amico dei comunisti con i quali collaborava in iniziative culturali e politiche. Quando se ne andò da Nonantola fece l’operaio come turnista in una ceramica. E anche lì preti malevoli lo accusarono di giocare a fare il proletario, lui, un Pezzuoli, famiglia modenese nobile e ricca. Non lo abbiamo mai sentito lamentarsi o spendere parole di critica come altri di noi tante volte hanno fatto. Da Torre Maina dove abitava e si era messo a fare l’allevatore di conigli, cercò di collaborare con la parrocchia di Maranello. Inutilmente. Decise, come disse un amico di Nonantola, di non dare fastidio a nessuno. Si sposò e cominciò a venire nella nostra comunità. Ci mise a disposizione più volte la sua villa di Torre Maina. Partecipava alla liturgia domenicale con interventi sobri, concreti e intelligenti.

Morì improvvisamente a 64 anni il 15 febbraio del 1997 in un limpido mare del sud dove era andato in ferie.

Capitolo 17°

Il vescovo, il parroco e la chiesa di Modena

Questo capitolo numero 17, doveva essere un capitolo sfortunato e chiuso, in quanto - una volta fuori dalla parrocchia - la comunità non fu più in alcun modo presa in considerazione da preti, parroci e vescovi. Ma le vie del Signore sono infinite

Si voleva dialogare negli anni che seguirono l’uscita dalla parrocchia, con la nostra chiesa di Modena, con la quale abbiamo sempre voluto rimanere in comunione. Nonostante le scelte radicali dei primi anni, non abbiamo, in realtà, mai fatto gesti di rottura.

Ma sperimentammo sulla nostra pelle che il dialogo, già difficile nelle realtà laiche, si è dimostrato pressoché impossibile nella chiesa.

Per anni abbiamo mandato messaggi; invitato parroci e vescovi a venire nella nostra comunità. Per anni nessuno ha risposto ai nostri inviti. Don Nino ci trattò come dei peccatori che andavano perdonati e compatiti davanti a quei parrocchiani che forse erano rimasti scandalizzati dai miei comportamenti e dalle nostre parole. Non si fece mai vedere. Gli altri parroci delle due parrocchie sul nostro territorio non ci incontrarono mai: don Gianni, don Maurizio, don Santino, don Luciano. I parroci della nuova grande parrocchia Cristo Redentore don Graziano e don Marco, anche se siamo personalmente amici, non hanno ancora organizzato un incontro almeno di conoscenza, tra il nostro gruppo e la parrocchia. Lo stesso si può dire delle parrocchie confinanti, in modo particolare il parroco di S. Faustino, che vide sempre l’esperimento “Comunità del Villaggio”, con occhio critico. **Migliori furono i rapporti con Don Gianni un prete amico parroco della BVA.

Il vescovo Mons. Foresti, pur pastore buono e premuroso, ci aveva dati per persi e non volle più sapere di noi. Così fu per Mons. Quadri.

Le cose cambiarono con il vescovo attuale, Mons Benito Cocchi, che annualmente incontriamo o personalmente in arcivescovado o nella comunità per riferire sullo “stato” della comunità del Villaggio.

Come mai? Dalla gerarchia e dai laici del Consiglio Pastorale, non venne mai una domanda di spiegazione, una richiesta di collaborazione o almeno un rimprovero?

Una proposta l’ho fatta invece io, accettata - mi sembra volentieri - da don Marco: da 5 anni io e Pier teniamo un corso biblico in parrocchia, frequentato da amici che vengono da tutta la città.

Capisco bene il senso di solitudine che provano tanti preti che “hanno lasciato o abbandonato”. Essi hanno rischiato di perdere non solo gli amici, ma anche la fede, sentendo sulla loro pelle la mano pesante di una madre-matrigna.

Ma ormai non ne faccio più un questione personale. Grazie a Dio, mi sono realizzato professionalmente, faccio il “prete” nella mia comunità, riconosciuto e accolto, ho molti amici. Ma, specialmente, ho avuto la fortuna di avere una mia famiglia che ha dato un senso pieno ***alla mia vita.

Capitolo 18°

Vezza D’Oglio: il paradiso in Val Canonica

Si vuole in queste righe cantare di amicizie, gite e amori sbocciati in un luogo sacro delle Alpi, di un gruppo nato per scommessa e sopravvissuto per caso, il Gruppo Lavoratori e di una casa che doveva esserci tolta da un anno all’altro. Tutto durò 37 anni e vive ancora grazie a 8 persone che ne garantirono la sopravvivenza.

Correva l’anno del Signore 1969. Io ero allora assistente diocesano dei giovani di Azione Cattolica. Nuove parole scaldavano il cuore e ci infiammavano la mente: povertà della chiesa, la scoperta della Bibbia e della comunità. Vedevo che l’ambiente di Azione cattolica era pieno di professionisti, studenti e contadini. Stava nascendo GS, Gioventù Studentesca, con don Glauco, un movimento che si trasformerà poi in C.L. Decisi di fondare un movimento solo di operai-lavoratori. Chiamai la Maria, Costante, Marietto e Vincenzo, tutti operai, e cominciammo ad organizzare il “gruppo Lavoratori”. Iniziammo con il campeggio di Colle Santa Lucia, nel bellunese, nel 1969. Poi nel 70 a Casada, in provincia di Bolzano, a Pelizzano nel 71 e infine in una casa gestita dalla Città dei Ragazzi a Vezza D’Oglio.

Qui rimanemmo per 35 anni e ancora oggi il gruppo continua a trovarsi nel mese di agosto ormai con i figli dei figli.

Quando raccontiamo di Vezza sembra una storia che ha dell’incredibile. All’inizio si partiva in corriera il primo di agosto e si tornava alla fine del mese. Ogni giorno la messa, due conferenze e preghiere serali. E poi gite, canti, giochi e risate a non finire. Veniva gente da tutte e parti della provincia e della diocesi. Al Campeggio di Pellizzano, ad esempio, c’erano 74 persone alloggiate alla meglio in grandi stanzoni. Si discuteva e parlava, si facevano gruppi di studio e ciclostilati: le novità del Concilio, la scoperta della Bibbia, dell’impegno sociale, della vita comunitaria e di una fede nuova e personale erano i temi affrontate da me e da Francone. Nel Gruppo Lavoratori fiorì una vera e autentica teologia popolare. A Vezza vennero anche insegnanti e diplomati, preti e uomini politici. Ma nella casa non contavano i titoli e le professioni. Valeva ed era rispettato chi si rimboccava le maniche e aveva delle competenze spendibili per gli altri. Altrimenti poteva starsene a casa.

Il “Gruppo Lavoratori” continuava le sue attività anche durante l’anno. Ogni settimana “gruppi di fabbrica”, come si chiamavano allora, a Concordia, a Modena, a Casinalbo, a Formigine, Vignola e a Fiorano, si incontravano per discutere i problemi della propria fabbrica. Ogni mese facevamo una mezza giornata di ritiro spirituale e ancora gite domenicali e cene insieme. Era la mia seconda* parrocchia: il clima di affetto, di stima e di “tranquilla amicizia” che trovavo qui, spesso mi risarciva della caotica e spesso conflittuale vita al Villaggio. E poi di nuovo sulle Alpi: ormai avevamo le macchine e allora via a caricarci su scassate cinquecento, sopraelevate dai portapacchi. Si partiva alle 7 del mattino per arrivare a Vezza all’ora di cena, quando ci andava bene, dopo rocambolesche avventure e labirintici giri dove qualcuno di noi non riusciva più a trovare la strada.

Un forte collante fu l’impegno comune per i carcerati. All’inizio degli anni 70 una nuova legge permetteva a gruppi di internati, “ospiti” della casa di lavoro di Saliceto San Giuliano di Modena, di uscire a lavorare e anche abitare in case coloniche o appartamenti. Noi li abbiamo seguiti per anni insieme alla équipe psicologica ed al cappellano delle carceri, don Arrigo Mussini, che rimase un amico prezioso del gruppo.

Altro impegno del gruppo era l’assistenza verso ragazzi e ragazze con problemi psicologici che venivano con noi nei campeggi della grande casa di Vezza. Tra tutti ricordiamo Mauro e Ottavio che vennero accolti e accuditi come fratelli anche durante tutto l’anno. Nella nostra casa alpina sono passati anche buona parte dei componenti della Comunità di Base del Villaggio Artigiano.

Negli anni 70 molti giovani venivano al Campeggio del Gruppo lavoratori, certamente per la originalità dell’organizzazione e per le parole nuove che sentivano. Ma erano attratti anche dal fatto che, per la prima volta, si facevano campeggi misti. Cioè con ragazzi e ragazze insieme.

In 35 anni passarono 500 persone nei nostri campeggi estivi e in 10 anni si formarono e si sposarono in 104 amici, per un totale di 52 famiglie. Fu proprio nel campeggio di Vezza che io ebbi la fortuna di incontrare Luisa la ragazza che diventò mia moglie.

Il gruppo funzionò dunque anche come agenzia matrimoniale chiavi in mano, con la garanzia di 5 anni, come amavo scherzosamente affermare io. Questi matrimoni funzionarono complessivamente bene. Nel caso di due fallimenti trovammo infatti, nella comunità il “sostituto”. In quattro casi inventammo una liturgia matrimoniale per divorziati, con preghiera di benedizione agli sposi e con messa ufficiata da qualche prete compiacente che ovviamente ,dopo una spiata, ebbe una tirata di orecchi dal vescovo. Ma andava bene così.

Come fu possibile questo miracolo? Devo ringraziare specialmente 8 persone senza le quali questa esperienza straordinaria non si sarebbe realizzato. Amici che con la loro disponibilità, generosità, intelligenza, organizzavano, servivano, conciliavano e ci aiutarono a superare momenti di tensione e di scoraggiamento. Giuseppe Gilli, Maria Neviani, Claudio e Umberto Lodesani e le due mogli sorelle Franca e Fausta Ganzerli, Adriano Barbanti e Franco Richeldi. Ma molti altri collaborarono e parteciparono con dedizione alla buona riuscita del Campeggio.

Ne è nata un’amicizia profonda, una confidenza preziosa e una fratellanza ormai rara.

Ancora oggi il campeggio di Vezza d’Oglio rimane un appuntamento per tutti noi ormai “vecchi” e cosa che ci piace ancora di più, anche nostri figli vengono con noi. La casa (anche oggi ci viene data in affitto per un solo anno alla volta), è stata adattata: ci sono 12 stanze per le famiglie e un camerone per i “nuovi” giovani. I ritmi sono allentati. Ma ogni giorno ci si trova ancora a pregare con la Bibbia e a seguire un corso biblico. Ancora oggi si fa il punto della situazione con l’Assemblea.

Un’altra cosa importante, come il popolo degli ebrei, anche noi abbiamo la nostra Bibbia che ci aiuta a fare memoria delle cose buone del passato: grazie alle migliaia di diapositive di Giuseppe Gilli, alle mie sirudelle e agli scritti raccolti nei giornalini del Gruppo Lavoratori, possiamo ricordare per noi e per i nostri figli le cose di questi 37 buoni anni. Nel 2002 fu stampato anche il volume : “Gli anni di Vezza”, curato da Giuseppe Gilli, che raccoglie elenchi, scritti, poesie e foto “messi insieme” in occasione dei 30 anni di Vezza.

Nell’estate del 2005 un grande regalo. Il piccolo Gabriele, figlio dell’Anna Lodesani, figlia di Umberto e Franca, è venuto per tre giorni a Vezza. Ci sembra che si sia trovato bene e desideri tornare. Avanti dunque con la terza generazione.

Capitolo 19°

A Modena c’erano anche loro

Di loro si parlò poco allora, non se ne parla oggi e non se ne parlerà mai: ecco perché ne facciamo memoria qui, in una povera paginetta del mio diario.

Dopo il Concilio si stava sgretolando l’antica concezione della parrocchia-chiesa come roccaforte che doveva portare la verità nel mondo; autosufficiente e inattaccabile; legata al partito della Democrazia Cristiana; conservatrice e distributrice di sacramenti. Nella parrocchia andavano i cristiani per la messa, il catechismo e i sacramenti. I ragazzi e i bambini per divertirsi in modo sano. Essa con le sue organizzazioni e i suoi servizi come palestre, campi da gioco, biblioteche, scuole, asili, proteggeva e formava i suoi che si contrapponevano agli altri, cattivi, atei e comunisti.

Alla fine degli anni ‘60, al Villaggio Artigiano fu dunque sperimentato un nuovo tipo di parrocchia. Il cristiano si nutriva spiritualmente nella chiesa e nella comunità, ma poi si doveva confondere con gli altri uomini di buona volontà, per costruire insieme agli “altri” una società migliore. In modo laico.

Il Villaggio non fu un esperimento isolato a Modena. La Comunità di San Francesco, con don Graziano Botti, faceva il doposcuola alle scuole elementari Ceccarelli, dove i figli di meridionali erano emarginati. La comunità del Pozzo era nata intorno al gesuita padre Remo Sartori: un gruppo di famiglie faceva vita comunitaria e accoglieva persone in difficoltà. A Nonantola, con don Vittorio Pezzuoli, don Emanuele Mucci e don Gianni Gilli, si gestiva la parrocchia in modo assembleare, si collaborava con l’amministrazione e le sezioni del PCI. Nella canonica di Ranocchio, San Giacomo vicino a Montese, un altro prete, don Paolo Soliani, accoglieva i primi ex drogati per aiutarli a reinserirsi nel mondo de lavoro. Altre comunità parrocchiali si rinnovano con il loro prete in testa: la parrocchia della B. Vergine Addolorata con don Gianni Vignocchi e don Aronne Manfredini, di Benedello con don Angelo Sandri, Morano con don Carlo Bertacchini. A Modena Est un gruppo di seminaristi Dehoniani viveva fuori dal seminario in comunità, mantenendosi con il proprio lavoro, così come ad Ubersetto un gruppo di studenti-frati francescani. La Comunità ‘71 è l’unica comunità di Base totalmente laica e autogestita. Del Gruppo Lavoratori ho parlato nel capitolo precedente; c’era il Gruppo ex scout. Alcune comunità nacquero all’interno delle parrocchie di S. Agostino, S. Antonio, della Madonnina, di S. Lazzaro, Santa Caterina, di Vignola: spesso in contrasto con il parroco.

Nella città e nella provincia di Modena, insomma, c’erano ben 24 gruppi che facevano riferimento al movimento delle Comunità di Base, dentro o fuori dalle parrocchie. Erano diventati, chi più chi meno, altrettanti centri di richiamo e aggregazione. Insieme firmavano documenti che venivano poi distribuiti a migliaia davanti alle parrocchie o in luoghi pubblici. Si chiamavano anche cristiani del dissenso, cristiani per il socialismo. O Comunità di Base, perché, nate dai Gruppi Spontanei dei primi anni ‘60, volevano sottolineare l’aggregazione non gerarchica e clericale, ma popolare e democratica.

Questa esperienza non era solo modenese. In tutta Italia c’erano fermenti: a Firenze, la comunità dell’Isolotto, a Roma, San Paolo fuori le mura, a Genova, Oregina. A Pinerolo, a Imola, a Bologna. Per citare solo alcuni esempi.

Negli ultimi anni ‘60 questi fermenti nella chiesa di Modena, erano ancora in dialogo con gli altri cristiani e le gerarchie. La disponibilità del Vescovo Amici, di molti preti e laici in particolare dell’azione cattolica, (non fu così in altre diocesi italiane) crearono momenti importanti di dialogo. La spinta politica del ‘68 si stava sposando con le idealità degli anni ’60. Le grandi figure come Papa Giovanni, Kennedy avevano portato ad un’evoluzione significativa verso l’impegno sociale e politico dei cristiani.

Poi il pesante tradizionalismo e la paura della chiesa italiana, ma anche la mancanza di elasticità e forse l’eccessiva politicizzazione di questi nuovi gruppi, bloccò progressivamente il rinnovamento.

Ci furono due momenti particolari che segnarono la rottura tra le gerarchie cattoliche e questo movimento di rinnovamento.

Il primo fu la rivendicazione da parte dei movimenti di base cristiani, di potere votare a sinistra; i vescovi fino all’ora imponevano ai cattolici di votare per la Democrazia Cristiana.

Il secondo e più traumatico fu la decisione da parte di molti gruppi e singoli cristiani di “votare in modo libero” nei referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio del 1974 e per l’abrogazione della legge sull’aborto del 1975. Ai cattolici era stato comandato di votare per cancellare queste leggi ed era stato proibito ai preti di parlare in difesa della libertà nel voto.

In questo modo i positivi fermenti di quegli anni, in Italia e in particolare a Modena, andarono dispersi.

Andò perduta una preziosa occasione di rinnovamento e si aprì una profonda frattura tra i cattolici, che non si è ancora rimarginata.

Molti cristiani che avevano profondamente creduto in un rinnovamento della chiesa “se ne andarono” o si ritirarono in una religiosità privata che casomai ricercava la sua messa officiata da un prete aperto e “intelligente”. Molti cristiani non si sentono rappresentati dai documenti, dalle* scelte della gerarchia e dai teologi religiosi o laici che parlano a nome della fede.

Forse bisogna trovare un qualche canale per dare voce a questa “Chiesa del silenzio”.**

Capitolo 20°

Ricordati di santificare le feste

Se una domenica mattina alle ore11.

Si vuole alla fine dimostrare di come una comunità di cristiani sfigati, possa sopravvivere senza

preti, senza chiesa e senza sacramenti per grazia di Dio e di tutti i santi.

Dopo 35 anni finalmente la pace dei sensi. Ma non del cuore e del sogno. Dopo tanto dibattere su sacramenti, messe, linee teologiche, rapporti col vescovo e le parrocchie; su credenti e non credenti, impegni comuni nel sociale, ecc.

Ogni domenica mattina alle ore 11, oggi nell’anno del Signore 2006, venticinque persone si trovano “in pace”, nella luminosa sala del quartiere in via Curie 22. E’ il momento più importante della Comunità Cristiana di Base del Villaggio Artigiano. Ci chiamiamo ancora così, anche se siamo al Villaggio Giardino e le persone che fanno riferimento al gruppo vengono da tutta Modena. Ci teniamo a ricordare le nostre radici.

Quattro gruppi a turno preparano la liturgia della domenica che molti di noi chiamano messa. Si comincia con il segno di croce, si chiede perdono a Dio e ai “fratelli” delle colpe e infedeltà alla Parola. Poi si leggono le letture della liturgia cattolica. L’incaricato dal gruppo di turno, commenta le letture e dà la parola ai presenti che intervengono numerosi. Poi la preghiera dei fedeli e la recita del Padre Nostro. La benedizione data dal presidente della celebrazione e l’abbraccio di pace conclude la liturgia. Alle volte ci avventuriamo anche nel canto. Qualche volta la domenica raccontiamo dei nostri impegni feriali. Ognuno di noi quando lo desidera frequenta la messa parrocchiale

Molti del gruppo originario se ne sono andati sia per “raggiunti limiti di età” oppure perché hanno scelto cammini più laici, strade diverse o si sono rifugiati nei più rassicuranti argini della parrocchia. Ma non ci sono state scomuniche e “permali”: ogni tanto ci rivediamo. Altri si sono aggiunti, spesso persone curiose appaiono per qualche domenica e poi scompaiono.

Una volta all’anno, in genere in quaresima, curiamo una catechesi più approfondita. Per Pentecoste facciamo la festa della Comunità in ricordo dei nostri inizi il 30 giugno del 1975: la nostra piccola pasqua o passaggio. Il 23 maggio del 1982 in una casa colonica vicino al villaggio, la casa del Cane, abbiamo festeggiato in un clima di sagra campagnola, i dodici anni della nascita della comunità. Il manifesto diceva “Dodici anni tra le nuvole con i piedi per terra”. In verità erano 13 glia anni ma suonava meglio così. Come alla fine di maggio del 2006 la Comunità del Villaggio festeggia i 37 ***anni ma nel manifestino spedito agli amici si legge: “Una storia da Raccontare: i 35 anni della Comunità di base del Villaggio artigiano”. Diminuirsi l’età non è un peccato grave!

Una volta all’anno incontriamo il Vescovo per raccontare quello che stiamo facendo. Il nostro secondo padre, dopo Dio, è il nostro Vescovo, anche se lui forse non lo sa.

Non abbiamo impegni comuni sul territorio ma, molti di noi sono coinvolti in progetti e gruppi: per la pace, per il carcere, per il Commercio equo e solidale, per l’adozioni a distanza o nel gruppo “Insieme in Quartiere per la Città”, un’associazione che da anni lavora sul territorio con diverse finalità: aggregazione, ecologia, riciclaggio ecc. Spesso siamo compresenti nei diversi gruppi.

Siamo nel cuore del Villaggio Giardino, un quartiere confinante con il Villaggio Artigiano, nato *** negli anni in cui noi siamo usciti dalla parrocchia. Posso dire che seconda parte della nostra storia (dal 1976) combacia con la storia del Giardino: nelle lotte, nelle scelte, nei dibattiti per il verde, per le ciclabili, per la pace, le tossicodipendenze, per le feste ecc noi eravamo presenti senza connotazioni particolari..

Da 5 anni, come ho scritto prima, insieme a Pier, tengo un corso biblico, ospitato in parrocchia e frequentato da un folto gruppo, molto eterogeneo, di credenti, dubbiosi e sedicenti atei. Come li chiamo io sono corsi di “di primo livello”. E devo dire che traggo una qualche soddisfazione da tutto ciò.

La domenica mattina è un luogo prezioso dove andiamo volentieri e “non ci annoiamo”, non solo per il fatto che incontriamo degli amici, ma perché abitiamo per un’ora su un’isola felice, dove come direbbe un Paolo del 2000, non ci sono né preti né laici, né bianchi né neri. Non ci sono i ricchi e i poveri, le donne e gli uomini, maestri e discepoli.

La nostra non è però una religione fai da te, lasciata allo spontaneismo: il credo è quello che recitiamo insieme ai fratelli che vanno a messa la domenica nelle chiese; le letture sono le stesse suggerite dalla liturgia domenicale e il fondamento rimane la Bibbia.

Capitolo 21°

Nel capitolo 21, numero 3 volte perfetto perché è un multiplo di 7, ci poniamo la terribile domanda che non ci fa dormire e tanto meno sognare. Ci chiediamo spesso: che cosa ne è stato dei nostri figli e delle nostre figlie? In che cosa abbiamo sbagliato che non vanno neanche più in chiesa?

La nostra comunità è forse una madre dal grembo sterile? Molti di noi, specialmente quelli che hanno dei figli, non vedendo le nostre “creature” presenti nella nostra comunità, o addirittura ci sembrano disinteressati alla cosa religiosa andiamo in crisi. Ce ne rammarichiamo e ci chiediamo il motivo. Ma poi ci vengono in mente delle parole che abbiamo tante volte citate per gli altri…"Non chi dice Signore Signore” oppure “L’albero si conosce dai frutti” e ancora “C’era una volta un padre con due figli” e infine le grandi parole di Matteo 25 “Avevo fame e mi avete dato da mangiare ecc.”.

E mi dico: i nostri figli non hanno avuto la grazia di vivere la nostra stagione piena di sogni e di opportunità, vivono in una stagione diversa, opaca e omologata.

Ma i giovani in qualche modo hanno assorbito il clima di idealità che abbiamo vissuto noi. Sono ragazzi in diversi modi impegnati sul lavoro, nei gruppi, sul territorio ma anche in movimenti religiosi. E poi quando raccontiamo loro la nostra storia, come ai discepoli di Emmaus, brillano loro gli occhi e mi sembra che il loro cuore si scaldi un poco.

Infatti ciò che rimane a tutti quelli che hanno fatto un pezzettino di questo cammino o ancora oggi arrancano su questa strada, non sono i contenuti teologici o le idee politiche che possono essere organizzati e trascritti, ma l’esperienza di una vita nuova e diversa che abbiamo fatto insieme grandi e piccoli.

Una Conclusione provvisoria

In Attesa di vedere nell’aldilà come stanno veramente le cose e chi aveva ragione e chi aveva torto, anche io nella mia presunzione, oso fare un bilancio. Provvisorio però come sono provvisorie insicure e apparenti le parole degli uomini che, secondo le parole del salmo, sono come l’ombra che passa o come l’erba del prato che al mattino è verde e a mezzogiorno è seccata dal sole e dal vento del deserto.

Che cosa ho imparato da questa lunga storia della mia vita e dalla comunità del Villaggio? Se,* come Renzo e Lucia nei Promessi Sposi mi chiedessi questo alla fine del mio racconto, proprio non saprei dirlo, se non che sono partito nel 1963 come prete che sapeva già tutto e sono arrivato ormai alla soglia della vecchiaia a dubitare di molte cose, con la certezza, però, che la mia più grande fortuna e grazia è stata l’aver trovato nel mio cammino degli amici con i quali ho potuto liberamente camminare e mantenere vivi i miei ideali e la ma fede.




Martedì 04 Dicembre,2012 Ore: 21:18
 
 
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